Silhouette africane in Europa

Una bella mostra di Aisha, giovane artista veneziana di origine senegalese. Al Vapore di Marghera.
LISA GERUSA
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Tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento molte tecniche di riproduzione delle immagini hanno anticipato la fotografia, non soltanto l’arcinoto dagherrotipo. Tra queste poco conosciute e tanto care ad alcuni storici della fotografia, una delle più interessanti e meno conosciute appare senza dubbio la physionotrace, una meccanizzazione della tecnica della silhouette. E il pensiero cade immediatamente sulla silhouette e sulla sua tecnica di realizzazione, quando si va visitare la mostra di Aisha al Vapore di Marghera.

L’intento della giovane artista senegalese, ormai veneziana di adozione, è quello di far convivere molte tendenze, apparentemente antitetiche ma, nei fatti, semplicemente distinte, come l’attenzione per le arti applicate (da sempre praticate durante gli anni della sua formazione e nel suo successivo percorso d’insegnante in Senegal) con una sfumata predilezione per la decorazione, ma anche un intento artistico autentico che s’esprime attraverso il riferimento – nitido – al tema dell’allegoria, con la sua personale e moderna declinazione della tecnica della silhouette per esibire le numerose varianti della sua abilità di artista tramite la rappresentazione di figure femminili sotto forma di “sagome”.

Di primo acchito, in questa mostra emerge l’esclusiva attenzione dell’artista per la figura femminile, stilizzata, rarefatta e resa un elemento allegorico: una figura, meglio una silhouette da decorare con colori e materiali estremamente differenti tra loro, sebbene l’esposizione raccolga soltanto le opere realizzate nell’ultimo anno che non permettono al visitatore di compiere un percorso diacronico, capace di mettere in luce nascita ed evoluzione di questa scelta artistica.

Quando si tenta di riflettere su quanto si è visto, in questo caso sulla nostra piccola, ma interessante mostra, s’affronta il rischio di sconfinare in passaggi tanto sociologici quanto scontati su interculturalità, immigrazione e ruolo della donna in Africa ed Europa. In realtà, il primo strumento per sdoganare questo approccio stucchevole proviene, in qualche modo, dalla stessa artista, allorquando ci racconta che la mostra non rappresenta la somma di più coincidenze fortunate, ma una sua ricerca puntuale di proseguire la propria attività in Italia, nonostante i ritmi di una società diversa e una famiglia con quattro figli.

A questo punto – per accontentare gli amanti delle citazioni – s’assiste non tanto all’“autonomia del significato” dal significante, quanto ad un significato che si tramuta in significante per lo spettatore della mostra, un’allegoria che vorrebbe diventare simbolo, percorrendo la strada dell’allusione e del riferimento, ma senza riuscirvi.

E, proprio questo apparente fallimento costituisce il tratto fecondo dell’esposizione: l’idea che un tema come quello della femminilità – amplissimo, anzi inesauribile – non abbia bisogno per Aisha di essere definito, a tal punto da farle affermare di non essere mai stata “interessata” alla raffigurazione maschile nelle sue opere, trasmettendoci la sua convinzione di non dover pensare se stessa nemmeno a partire dal proprio opposto. 

In questo modo, la ricerca artistica si depaupera del carattere antagonista e di genere dal quale un visitatore italiano fatica a prescindere e diventa riflessione estetica sul femminile.

Il tratto della naturalità della raffigurazione e dell’esperienza femminile in queste opere s’intravede anche nella mancanza di distinzione tra figura femminile e maternità, in una “integrale” della donna che non obbliga ad atomizzarla, scinderla in quelle differenti componenti e sfaccettature che tanto hanno costituito il volano della sua emancipazione in una società oppressiva, quanto le hanno imposto di cercare il costante confronto o, meglio, la competizione con il maschile, aumentandone, certo, il peso e il potere sia professionale sia personale, ma anche isolando ed emarginando un’esperienza come quella della maternità, sino a renderla una sorta di cono d’ombra, di nicchia imperscrutabile che va sciolta e slegata, quand’anche penalizzata o colpevolizzata (sia per chi la vive sia per chi non la vive) dalla società contemporanea.

Solo in epoca recentissima l’introduzione della categoria della “genitorialità”, interpretata come l’ennesima e velata competizione tra i generi ha provato ad addentrarsi in questo ambito concettuale con esiti ancora incerti.

In questo senso, questa esposizione semplice e snella si diverte a giocare tra simbolo e allegoria, introduce alcune tendenze e temi percorsi dall’arte contemporanea, come la dicotomia o la prossimità tra le categorie dell’“artistico” e “decorativo” e, infine, accarezza il postmoderno nel suo modo di ripensare la femminilità, proponendo un’immagine unitaria, a tutto tondo, della donna.

Silhouette africane in Europa ultima modifica: 2019-06-05T13:13:18+02:00 da LISA GERUSA
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