Spagna. Un voto tutto rose. E spine

La mappa politica iberica, dopo le recenti tornate elettorali, vede al centro il Psoe e il suo leader, Pedro Sánchez. Di fronte una legislatura che ha il compito di chiudere lo scontro istituzionale e quello tra nazionalismi contrapposti per iniziare a costruire un nuovo patto nazionale per il futuro del Paese.
ETTORE SINISCALCHI
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I socialisti hanno vinto le elezioni europee. Una vittoria rotonda, il 32,84 per cento e venti seggi, che converte il Psoe, per la prima volta, nel primo partito del gruppo S&D – seguito dai diciannove italiani del Pd e dai quindici dell’Spd tedesca. Gioco, partita e incontro per Pedro Sánchez, in Europa. Ma si è votato anche per il rinnovo di dodici autonomie, su diciassette, e dei comuni e i risultati, anche se sempre molto buoni per il suo Psoe, sono più complessi. Il voto del 26 maggio è stato anche la “partita di ritorno” della finale per il governo della Spagna, dopo le politiche del 28 aprile vinte dai socialisti. Per capire con chi governerà Pedro Sánchez s’aspetta di vedere in che modo la costruzione delle alleanze locali influirà nei rapporti tra i partiti. Guardiamo dunque a questi voti amministrativi.

Il Partido Socialista Obrero Español ha ottenuto ottimi risultati ma, complessivamente, la sinistra non si è rafforzata. S’indebolisce quella “nuova”, a partire da Unidas Podemos (Up), che solo un mese fa alle politiche, pur perdendo voti e seggi, aveva tirato un sospiro di sollievo. Retrocedono quasi ovunque quelle liste che avevano dato vita alle amministrazioni “del cambio” in comuni e autonomie, anche in coalizione coi socialisti – da noi spesso confuse con Podemos, con cui hanno invece solo un rapporto di alleanze locali che vedono per lo più i viola in posizione subordinata. A farne le spese, oltre alla capitale Madrid, è la città simbolo di quest’esperienza politica, la Barcellona di Ada Colau. La destra spagnola dimostra, invece, immediate capacità di reazione dopo la recente sconfitta alle politiche. Partido popular (Pp), Ciudadanos (C’s) e Vox, se tutte e tre unite, sono infatti in grado di opporre una forte resistenza all’ascesa socialista, riuscendo a mantenere o conquistare importanti amministrazioni, come potrebbe accadere a Madrid. 

Se il simbolo del Psoe fosse ancora la classica Rosa nel pugno, potremmo dunque dire che questo, per le sinistre spagnole, è stato un voto tutto “rose e spine”.  A destra, però, la “non sconfitta” nasconde diverse debolezze. Il pesante ridimensionamento del Pp e la dipendenza dall’estrema destra di Vox, che ha già creato forti tensioni tra C’s e il suo candidato più rappresentativo, Manuel  Valls, sconfitto nella gara per la poltrona di sindaco di Barcellona. Valls aveva già espresso il suo disaccordo per l’alleanza delle tre destre che avevano conquistato nello scorso dicembre lo storico feudo socialista dell’Andalusia – dove Vox ha fatto mancare i voti per l’approvazione del bilancio, stoccata da intendere a servizio del quadro nazionale che mette pericolosamente in bilico la giunta. Tensioni che entrano nel cuore della contraddizione di C’s che, da partito liberale “moderno”, collocazione che tanto lo fa apprezzare in Europa nei circoli che contano, si è, nel dipanarsi dello scontro tra nazionalismi, decisamente spostato a destra. Spostamento che, nel più ampio quadro dell’irruzione dei partiti nazional-populisti nell’Europarlamento, suscita preoccupazioni in parte dei liberali, soprattutto nel gruppo che prenderà il posto dell’Alde, dopo l’arrivo di Emmanuel Macron.

Ada Colau

CITTÀ, AUTONOMIE, GOVERNO NAZIONALE. UN PUZZLE PER LA CUI SOLUZIONE AI PARTITI SERVE AUTONOMIA E, MOLTA, BUONA POLITICA 

La domanda a cui le urne erano chiamate a rispondere era dove avrebbe guardato Sánchez, se alla sua destra, verso Ciudadanos (C’s), o alla sua sinistra, verso Unidas Podemos. Apparentemente i risultati dànno forza alla prima soluzione, invisa alla maggior parte degli elettori socialisti ma preferita in molti settori che contano (grandi gruppi di comunicazione, la finanza e le società dell’Ibex 35, l’indice delle prime 35 aziende quotate alla borsa di Madrid) e dall’Europa politica, a Parigi e Berlino. Forse è proprio per questo che il segretario socialista sin da subito dopo il voto di aprile è sembrato puntare su un governo monocolore. Anche perché con quei poteri, Ibex 35 e sistema mediatico, Sánchez è entrato in conflitto – rompendo una consolidata tradizione dei segretari socialisti – seppur per legittima difesa, avendo per ben due volte subito violenti tentativi di farlo fuori, in asse con le minoranze interne. Pablo Iglesias vorrebbe un’alleanza organica ma Up è ora più debole. Anche un monocolore socialista, però, può avere diverse sfumature. Per esempio, se aperto a indipendenti affini alle forze di sinistra che potrebbero appoggiarlo, anche se non ai loro leader politici. 

Un complicato rompicapo, quindi, la cui soluzione è ancora molto aperta. Perché l’ondata dei risultati elettorali sta suscitando reazioni da parte della politica e della società che rendono ancora possibile ogni soluzione. Il dibattito tra le forze politiche, e al loro interno, in un momento di profonda riscrittura del quadro politico, ci consegna una dose di pragmatismo e una capacità di adattarsi alla fase molto interessanti e in parte inattese, soprattutto guardando dalle nostre latitudini, dove sulla politica ha prevalso la logica dei pop corn. Una capacità di pensare e fare politica – naturalmente non esente da altri più sconfortanti aspetti: se la Spagna si confronta con l’abisso della sua più grave crisi democratica e istituzionale non è certo per perfidia degli dèi – che non ci permette di fare facili previsioni, perché i giochi non sono ancora fatti. 

A cominciare dalle due città simbolo, Barcellona e Madrid. È nella costruzione delle alleanze di governo di queste due città, infatti, che si deciderà molto, forse tutto, del nuovo governo nazionale. Quindi cominciamo a guardare a quella che, con un poco di enfasi, denominiamo la “Battaglia di Barcellona” che, non ce ne voglia la capitale del Regno, è più centrale rispetto a quella, pur importante, per il governo di Madrid, essendo la questione catalana il fulcro del dibattito politico da due anni e il punto di caduta della crisi del sistema democratico nato nel 1978.

Il giornalista Enric Hernández serve il caffè a Manuel Valls

LA BATTAGLIA DI BARCELLONA

A Barcellona, Esquerra republicana de Catalunya (Erc) è arrivata prima – seppur con meno di cinquemila voti di vantaggio sulla lista di Ada Colau, Barcelona En Comù – ma i seggi, dieci (il doppio rispetto alla scorsa legislatura), sono gli stessi della sindaca uscente; terzi i socialisti del Partit socialista catalan (Psc, il Psoe è un partito federale) con otto consiglieri – una rinascita, dopo i quattro della scorsa legislatura; poi Barcelona pel Canvi-Ciutadans (la candidatura di Manuel Valls) con sei, Junts per Cat (JxC, la formazione di Carles Puigdemont) con cinque e il Pp con due. La maggioranza assoluta è di 21 seggi.

La battaglia di Barcellona si gioca attorno all’alternativa tra la conferma della sindaca e l’insediamento di un sindaco indipendentista, Ernest Maragall, ex del Psc passato a Erc. Se non si formano altre maggioranze in consiglio comunale la carica sarà sua, in quanto candidato del partito più votato. Nella trattativa la sindaca uscente e il candidato di Erc hanno finora consolidato le posizioni. Colau ha proposto un governo delle sinistre, assieme a Erc e Psc, e Erc ha proposto un’alleanza coi Comuns e JxC. Entrambe sono proposte apparentemente irrealizzabili. I socialisti mai faranno nulla con Erc della quale, soprattutto dopo la bocciatura da parte loro del socialista Miquel Iceta come presidente del Senato, non hanno nessuna fiducia, nutrendo anzi voglie di vendetta. Né i Comuns potranno aderire alla proposta di Maragall e allearsi con la destra liberale nazionalista catalana delle politiche di austerità e del referendum unilaterale di Carles Puigdemont, principale “nemico” politico dell’esperienza di governo della città.

Il ragionamento di Colau –“siamo tre partiti di sinistra che esprimono il sessanta per cento dei seggi” – è di quelli che si presentano, contemporaneamente, come evidenti eppur debolissimi. È vero che, come dice, “col voto, gli spagnoli hanno scelto di superare la politica dei blocchi”, ma questo processo di superamento deve probabilmente cominciare dal centro, a Madrid, nel prossimo governo nazionale, non nel comune di Barcellona. Barcellona è la città simbolo della questione catalana e questo rende tutto più difficile. In altre realtà minori della regione la situazione è più fluida. Il Psc ha governato e continuerà a governare in coalizione con Erc o con JxC, all’insegna di un pragmatismo che vede al centro la governabilità del territorio rispetto all’esemplarità dei temi nazionali. Maragall sarebbe considerato il sindaco indipendentista di Barcellona, non certo la guida di un esecutivo delle sinistre catalane. 

LE COUP DE THEATRE DE MONSIEUR VALLS

A scompaginare le carte ci ha pensato Manuel Valls che ha pubblicamente offerto il suo voto “senza condizioni” a una conferma della Colau, purché al governo della città non arrivino gli indipendentisti. Sarebbero tre su sei i “suoi” consiglieri tra gli eletti nella lista di C’s, sufficienti per la maggioranza assoluta. 

Un coup de theatre che fa naturalmente sobbalzare il partito di Albert Rivera ma agita molto anche i comuns. Nel partito di Colau si confrontano due posizioni, quella che non vuole nessun compromesso con la destra catalana, rappresentata da C’s, e chi ritiene che l’esperienza del governo di Barcellona, una guida della città non subalterna alle rendite di posizione e attenta al sociale, sia da preservare lavorando nelle condizioni date. Per Colau c’è in gioco la possibilità di mantenere la centralità, iniziando una nuova sindacatura con maggior forza della precedente e potendo lavorare a consolidare il partito. I comuns avrebbero infatti molto da perdere da un governo con Erc. Li renderebbe subalterni e, probabilmente, allontanerebbe Colau dalla capitale catalana. Se Barcelona en Comù, meglio di altre “liste del cambio”, ha resistito al riflusso dei voti verso la casa socialista, la perdita della sua leader costituirebbe un’ipoteca sul suo futuro – a meno che non diventi ministra del prossimo governo Sánchez; ma queste sono ipotesi che costano solo un inciso, ma se esce il terno si gode della fama di fine conoscitore dei retroscena e delle dinamiche in atto –. Insomma, prendere i voti senza condizioni di un ex ministro socialista francese e di altri due consiglieri indipendenti non organici al partito di Albert Rivera, e cioè alla nuova destra liberale catalana, potrebbe essere, per i comuns, un calice meno amaro da bere.

Con Erc, che rappresenta l’ala dialogante dell’indipendentismo, bisognerà prima o poi fare i conti, visto che i risultati ci parlano di una supremazia nel campo del nazionalismo catalano destinata a protrarsi nel tempo. La possibilità che un così importante attore si moderatizzi o, al contrario, si radicalizzi, poggia anche sul “coraggio” degli altri interlocutori politici. Uno dei compiti della prossima legislatura, a Barcellona come a Madrid.

Manuela Carmena in un murales del comico @IgnatiusFarray (nella foto)

LA DOPPIA SCACCHIERA DI MADRID

Altrettanto complicata è la situazione di Madrid, dove sono in gioco sia il governo della città che quello della Comunità autonoma, il distretto della capitale, in un intreccio di variabili che rende la battaglia più simile a una difficile, e doppia, partita a scacchi. 

La sindaca, Manuela Carmena, è arrivata prima con la sua lista Más Madrid (MM) ma non ha la maggioranza in consiglio comunale. Col crollo di Podemos, che perduta la componente che ha accompagnato il fondatore Íñigo Errejón con la sindaca non ha ottenuto seggi, e la discesa dei socialisti, in controtendenza sul dato nazionale, neanche in coalizione si arriva alla maggioranza. I seggi sono così ripartiti. MM diciannove, Pp quindici, C’s undici, Psoe otto e Vox quattro. La maggioranza assoluta è di 29 consiglieri e un accordo tra C’s, Pp e Vox ne metterebbe insieme trenta.

Il voto ha dato quindi, in teoria, via libera a un governo delle tre destre. Ma le cose non sono così facili, in particolare per Ciudadanos, oggetto di molte pressioni per ostacolare gli accordi con l’estrema destra di Vox, riportando al centro il baricentro della formazione. Le tensioni sono forti anche all’interno, dove l’ala “progressista”, spronata anche dall’azione di Valls a Barcellona, preme per escludere sodalizi con Vox. Il risultato del confronto è per ora di compromesso, una direzione che ha sancito la preferenza per accordi col Pp, scartato negoziazioni dirette con Vox ma non ha posto uno stop alla possibilità che, via Pp, arrivino i voti dell’ultra destra. Critica anche la situazione nel Pp, dove il cattivo risultato locale e nazionale ha aperto a rese dei conti feroci, a scala locale e nazionale. Vox, dal canto suo alza la posta. Non vuole accordi “all’andalusa”, dove i suoi voti non corrispondono a incarichi di governo, e il leader Santiago Abascal, dice che è meglio “il karakiri politico” che “cedere al ricatto di Ciudadanos”. Le flebili speranze di Carmena sono aggrappate all’impossibilità di un accordo tra le destre.

Anche nell’Autonomia madrilena la situazione è simile, con le destre che potrebbero ottenere la maggioranza assoluta e le sinistre a tentare di costruire difficili accordi, nella speranza che il meccanismo di costruzione dell’alleanza fra le destre si inceppi. 

IL COMPITO IMMANE DEL PROSSIMO GOVERNO: PORTARE IL PAESE FUORI DALLA CRISI DELLA SPAGNA DELLE AUTONOMIE

Anche Pedro Sánchez ha i suoi problemi in casa. In Navarra i socialisti hanno bisogno dei nazionalisti di sinistra di Bildu. La segretaria, María Chivite, vuole tentare una coalizione che unisca i nazionalisti baschi, Podemos, Izquierda unida, contando sull’astensione benigna della sinistra nazionalista per conquistare l’Autonomia. Già due volte, nel 2007 e nel 2014, i socialisti della Navarra dovettero cedere ai no della segreteria nazionale, prima con Zapatero poi con Rubalcaba. Questa volta non vogliono lasciarsi sfuggire l’occasione e stanno attuando con Madrid un confronto molto duro, anche se nessuno vuole che diventi uno scontro.

In Spagna è dunque in atto un delicato e complesso processo di ricomposizione del quadro amministrativo e politico, complice la coincidenza inedita col rinnovo della quasi totalità dei suoi livelli amministrativi, oltre che della rappresentanza in Europa, proprio mentre il giovane sistema democratico dello Stato delle autonomie, con cui nel ’78 la neonata democrazia ha risposto al carattere plurinazionale della Spagna, conosce la sua più grande e profonda crisi, della quale la questione catalana è il più estremo sintomo.

Quanto descritto per Barcellona e Madrid, a diversi livelli di complessità, corrisponde alla formazione di molte amministrazioni in tutto il paese. In questo complesso puzzle, nel quale la politica mette in gioco tutte le sue capacità di dialogo e il senso di responsabilità, anche l’Europa, nelle sue istituzioni e nelle sue famiglie politiche, ha degli interessi e non è solo una spettatrice ma prova a giocare un ruolo. 

A sentire gli spagnoli di tutte le tendenze politiche, così come il loro parere viene riportato dal Centro de Investigaciones Sociológicas (Cis, l’Istat spagnolo, che si occupa anche di rilevazioni elettorali e dell’opinione politica), la maggioranza preferirebbe un governo delle sinistre. Nel suo ultimo Barómetro, un governo del Psoe e di Unidas Podemos, con l’appoggio di partiti nazionalisti non indipendentisti, cioè baschi e galiziani, e con astensioni “amichevoli”, sarebbe la soluzione favorita dal 34,1 per cento degli spagnoli; un governo di Psoe e Ciudadanos sarebbe il preferito del 24,5 per cento; un’alleanza tra socialisti, Podemos e i partiti indipendentisti ha il favore del 16,1 per cento; il governo di minoranza del Psoe raccoglie il 7,9 per cento dei favori; mentre un governo delle tre destre sarebbe appoggiato solo dal 6,1 degli intervistati.

Qualsiasi sarà la forma del prossimo esecutivo, dovrà guidare una legislatura che ha il compito di chiudere lo scontro istituzionale e quello tra nazionalismi contrapposti per iniziare a costruire un nuovo patto nazionale per la Spagna del futuro. Anche attraverso un percorso di riforme, dal quale la Spagna potrebbe uscire molto diversa da come la conosciamo. Fatto il governo, si vedrà se Pedro Sánchez, accanto alle ormai celebrate e auto celebrate doti di resistenza, è dotato anche delle capacità di uomo di stato necessarie per guidare la politica e la società spagnola a costruire questo percorso.

Spagna. Un voto tutto rose. E spine ultima modifica: 2019-06-05T23:24:01+02:00 da ETTORE SINISCALCHI
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1 commento

stefano vicini 7 Giugno 2019 a 11:48

Io credo che il nodo centrale come detto dall’articolista sia quel fare i conti con ERC l’ala dialogante dell’indipendentismo. Come ricordo sempre non esiste solo un indipendentismo di destra in Catalogna. Pochi ricordano che c’è un tema rimosso in Spagna, anche dal PSOE, che è quello della monarchia. Una monarchia, che seppur con il volto simpatico di Juan Carlos, fu rimessa in sella dal dittatore Franco. Qualcuno dovrebbe ricordare che il “levantamiento” del 18 luglio 1936 fu contro una Repubblica e che gli indipendentisti catalani si batterono con tutte le loro forze contro i franchisti. Il tema del sistema di governo fu posto solo da Podemos e dai catalani al momento dell’abdicazione di Juan Carlos in favore del figlio. Questo tema e altri vanno affrontati senza ridurre l’indipendentismo catalano a spinte centrifughe di destra.

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