Clima e grandi opere. La vicenda del “Lotto zero”

Un raccordo stradale previsto alla periferia di Isernia, l’ultimo emblema delle grandi opere. Inutili, dannose e costose. Come il MOSE a Venezia o il TAV in Piemonte, non adeguatamente ponderate rispetto allo scopo per cui sono progettate.
FRANCO AVICOLLI
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Nei prossimi mesi potrebbe diventare cantiere il “Lotto zero”, un raccordo stradale previsto alla periferia di Isernia. Secondo l’opinione del Comitato “No Lotto zero” attivo da diversi anni, l’opera è l’emblema delle opere inutili, dannose e costose. Il comitato ha pertanto presentato una garbata e circostanziata istanza al ministro delle infrastrutture, alla Giunta regionale del Molise, e ai comuni di Isernia, Miranda e Pesche, interessati all’opera, invitandoli a “riconvertire le risorse verso fini utili alla collettività”. Una dimostrazione di responsabilità civile che richiederebbe attenzione. 

Il Molise è una regione con qualità ambientali, culturali e storiche, una produzione agroalimentare e casearia quasi unica nel panorama nazionale e internazionale. E tuttavia perde attività e abitanti – più di duemila nel 2018 – malgrado una dotazione naturale che ha le potenzialità per attività da valorizzare nell’incombenza di un’alterazione climatica che può essere fatale per il futuro del pianeta. Un tema che resta sullo sfondo di interessi mascherati dalla possibilità spesso fasulla di creare posti di lavoro, comunque di breve durata, che invece si potrebbero realmente creare con una politica territoriale di salvaguardia e di cura che darebbe un virtuoso protagonismo ai giovani. Secondo gli esperti di scienze ambientali sono loro, “l’ultima generazione che può cambiare le cose”. 

Ma i gruppi dirigenti degli enti regionali, provinciali e comunali del Molise, s’allineano alla politica delle grandi opere come il MOSE a Venezia o il TAV in Piemonte, non adeguatamente ponderate rispetto allo scopo per cui vengono progettate, e continuano a prediligere strade, metropolitane leggere, eliporti e collegamenti marittimi con le coste dell’ex Jugoslavia, e il “Lotto zero”. È il modus operandi di una struttura sociale di classe che si configura più a un sistema di rappresentanza esemplificativamente simile ad un organismo di tipo consolare/coloniale che a una struttura periferica dello Stato.

Ciò ha condizionato la formazione dello spirito imprenditoriale e ha favorito l’assuefazione e l’ignavia dei ceti accomodati di una economia della rendita, interessati prevalentemente ad allargare variamente il proprio peso nella comunità e perciò a entrare nei ruoli della struttura di governo degli enti locali o dell’apparato amministrativo, che non di rado si confondono, producendo sindaci più assimilabili a un capo ufficio che al protagonista di un qualche indirizzo che ci si aspetterebbe da una carica politica.

Credo, perciò, che la vicenda “Lotto zero” abbia a che vedere con le tare incrostate di una pubblica amministrazione non più impegnata ad essere Stato e forse neppure in grado di essere un ente preposto alla costruzione del benessere sociale comune con leggi che emana, amministra e osserva per dirimere le controversie e risolvere la ingiustizie. È, con molta probabilità, espressione di un corpo malato che vive sulla cultura dell’immobilismo e dell’ignavia, che, come l’ozio, partorisce vizi, procedimenti che s’intrufolano nelle crepe dei meccanismi amministrativi di funzionamento di uno Stato spesso assente. Appartiene, insomma, alla furbizia divenuta nel tempo pratica generalizzata e accettata in cui vivacchiano sia i cittadini che le classi dirigenti che sono sempre più semplici “redistributori” di cariche e benefici. Rappresentanti o ambasciatori di un’entità evanescente che si consustanzia attorno ad un interesse di parte. Ciò per un qualche risultato che in realtà si limita al movimento di denaro, a benefici da distribuire che non guardano alla ragione dell’opera – può essere il terremoto, com’è accaduto, o il MOSE o il TAV – ma alla sua capacità di mettere in moto un meccanismo di distribuzione di capitali.

Lo Stato diventa così uno strumento e perde la condizione fondamentale di ente che fa funzionare l’apparato con personale adeguato, criteri e leggi uguali per tutti e finalizzate al benessere comune. Ed è un contesto in cui si producono, di conseguenza, vuoti e assenze, risposte inevase che spalancano le porte alla forza, alla furbizia, al maneggio e alla ricerca di favori.

Il meccanismo è più scoperto nelle zone interne dell’Italia, nella provincia in generale e in quella del sud in modo più marcato. In Molise la dipendenza dall’esterno è ulteriormente accentuata dall’assenza di una città interna cui il territorio possa fare riferimento, il che rende fisiologica la succubanza alla grande città, che nel caso specifico è rappresentata culturalmente da Napoli e politicamente da Roma, lungo il filo di un percorso storico segnato dal dominio borbonico, dapprima, e dallo Stato dei Savoia, dopo, che aggiunse ai signorotti e gabellieri locali un apparato di prefetti, podestà e altre figure con il compito di amministrare quello che non era molto di più di un dominio.

Ognuno usò il proprio status antico o nuovo lasciando al popolo la facoltà di scegliersi il gruppo di “rappresentanza”, secondo il sistema consolare/coloniale abbozzato. Liberati dall’incombenza di una pratica di indirizzo che la cultura locale riserva ad altri, il ceto politico del Molise finì per amministrare l’esistente con l’impegno adeguato ad un compito rappresentativo ed esecutivo con l’eccezione dello zelo di alcuni sindaci dei piccoli comuni impegnati meritoriamente a curare le tradizioni paesane con sagre e celebrazioni che assicurano un minimo di coesione sociale e qualche vantaggio turistico seppur occasionale.

I comuni più grandi sono impegnati a costituire le famose “rappresentanze” che accreditano presso il potere centrale e si passano il tempo a far quadrare i conti, a lamentarsi per quello che manca o non arriva, a ricomporre i conflitti tra fazioni che si rompono non per ragioni ideali, ma per un qualche incarico, come pare dire Isernia dove il consiglio comunale si contraddistingue per un’alta litigiosità, peraltro testimoniata da ben tre commissari prefettizi negli ultimi sette anni. 

È questo il sistema in cui matura il “Lotto zero” proposto per “velocizzare il traffico tra Isernia e Castel di Sangro” con la costruzione di ben sei viadotti e due tunnel per coprire la lunghezza incredibile di km 5,7 al fine di guadagnare qualche minuto rispetto ad un collegamento già esistente che si potrebbe eventualmente migliorare con un itinerario di pianura preventivato con un costo inferiore ai sei milioni.

Si decide invece per una bretella sul costone della montagna a poco più di duecento metri dalla sorgenti di San Martino che alimentano l’acquedotto isernino e altre realtà con un costo che dai 18 milioni del 2005 passa a 170 milioni nel 2015, che significano 34,8 milioni di euro a chilometro. Insieme, lievita anche l’onere del progetto che dai circa 260mila euro dell’affidamento del 2005 si assesta, dopo vari aggiustamenti, su circa quattro milioni con un “atto aggiuntivo” del 2015. E ciò senza “la certezza dello stanziamento delle risorse necessarie all’appalto e alla realizzazione dell’opera”, ossia senza le garanzie della programmazione e della “effettiva reperibilità delle somme necessarie per realizzarla”, richieste dall’Anac per l’affidamento di incarichi di progettazione. 

La procedura suscita dubbi che è necessario chiarire se si vuole recuperare credibilità ed è auspicabile che gli organi di controllo facciano emergere almeno la congruità dell’opera che il Comitato definisce illogica, perché in contrasto con il Parco acquatico delle sorgenti di San Martino previsto dalla Giunta comunale isernina, e incompatibile con un’opera che attenta al valore che si intende preservare.

Sarebbe auspicabile, infine, che alla luce delle osservazioni del Comitato “No Lotto zero” gli stessi progettisti si pronunciassero sulle osservazioni del comitato che considera l’opera  inutile, dannosa e costosa.

È forse troppo richiamare l‘attenzione e la responsabilità della Regione Molise, dei comuni di Isernia, Miranda e Pesche e degli organi di controllo?

Sarebbe un buon segno se su una questione così delicata le forze politiche che propongono cambi di indirizzo si qualificassero e, per altre ragioni, l’Università del Molise, perché il “Lotto zero” non è solo progetto, ma un atto consapevole che si realizza in un contesto che ha bisogno di ben altro e che perciò mette sul tappeto non solo la credibilità dei politici, ma anche dei saperi, dei tecnici e delle istituzioni. 

Clima e grandi opere. La vicenda del “Lotto zero” ultima modifica: 2019-06-08T15:09:08+02:00 da FRANCO AVICOLLI
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