Israeliani e palestinesi partner. Negli Stati Uniti

Il Congresso approva una legge per destinare cinquanta milioni di dollari a progetti cooperativi in Medio Oriente. È la vittoria della collaborazione tra oltre cento ong israeliane e palestinesi.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Cooperare è possibile. Senza che questo significhi ipotecare soluzioni politiche o sostenere leadership in crisi. Una goccia di speranza in un mare d’inquietudine. E quella goccia viene da Washington. Anche in virtù di un lungo lavoro di advocacy intrapreso dall’Alliance for Middle East Peace, una coalizione di oltre cento ong israelo-palestinesi che operano nel campo dell’educazione alla pace – in ambito sanitario, educativo, ambientale, del dialogo interconfessionale –  che da tempo propugna l’istituzione di un fondo internazionale per la pace israelo-palestinese, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato a camere riunite un testo di legge detto “Partnership Fund for Peace” per un ammontare di cinquanta milioni di dollari da destinare a progetti cooperativi israelo-palestinesi.

Progetti in campo imprenditoriale a fini di sviluppo economico e in ambito di peace-building promosso da  organizzazioni della società civile. Il testo della legge sostiene il principio della soluzione “a due stati”.

La legge è stata introdotta in modo bipartisan da esponenti democratici e repubblicani, nonostante la nota opposizione di Trump ai palestinesi e i tagli drammatici dell’amministrazione all’Unrwa, e appoggiata da disparate organizzazioni ebraiche da “destra” a “sinistra” (Aipac, American Jewish Committee, Federazioni ebraiche del Nord America, Jstreet, New Israel Fund). In particolare, Jstreet e altre hanno sottolineato in un comunicato come questo piano non significhi un sostegno alla politica di Trump diretta a forzare i palestinesi a rinunciare ad uno stato indipendente in cambio di benefici economici.

Un’economia palestinese più solida e una cooperazione più stretta fra le due società civili sono elementi essenziali per salvare la soluzione “a due stati”, ma il contrario è altrettanto vero: una soluzione diplomatica e la fine dell’occupazione sono essenziali per lo sviluppo economico della Palestina e per la riconciliazione fra le due nazioni.

Donald Trump a un evento dell’Aipac, il più potente e influente gruppo d’interesse pro-Israele a Washington.

Positiva la reazione di Ramallah. Dice in esclusiva a ytali Hanan Ashrawi, più volte ministra dell’Autorità nazionale palestinese, prima donna nella storia ad aver ricoperto il ruolo di portavoce della Lega Araba ed oggi esponente di primo piano dell’Olp:

La decisione del Congresso ha una valenza politica che va ben oltre l’ammontare della cifra stanziata. Anzitutto viene riconosciuto e valorizzato il lavoro di cento ong israeliane e palestinesi, un fatto importante perché sta a dimostrare quello che, personalmente, credo da tempo: se vuole dare i frutti sperati, il dialogo fra israeliani e palestinesi deve nascere dal basso, riguardare le due società, avere i giovani come protagonisti. Una pace giusta e duratura non potrà mai essere calata dall’alto né imposta dall’esterno.

Ashrawi prosegue:

E poi non può essere sottovalutato il fatto che il testo approvato sostiene apertamente la soluzione a due stati. Quella di fatto negata dal “Piano del secolo” ideato dall’amministrazione Trump e che in questi giorni Kushner (il consigliere-genero del presidente Usa, uno degli estensori del Deal of the Century, ndr) sta sponsorizzando, senza grandi risultati, nella regione.

La crisi politica apertasi in Israele con il fallimento del premier Netanyahu nelle trattative per formare il nuovo governo, fallimento che ha aperto la strada allo scioglimento della Knesset e a elezioni anticipate, fissate per il 17 settembre prossimo, crea un ostacolo imprevisto sul cammino del “Piano del secolo” come ha potuto constatare lo stesso Kushner nella tappa israeliana del suo tour mediorientale.

Secondo Saeb Erekat, storico capo negoziatore palestinese e oggi segretario generale dell’Olp:

La dizione andrebbe aggiornata: si tratta del Deal of the next century.

Se il progetto di cooperazione è passato, è anche per il sostegno delle più importanti organizzazioni ebraiche statunitensi, conservatrici e progressiste. Un sostegno unitario, niente affatto scontato, che mette in rilievo ciò che ytali ha evidenziato in diversi articoli: un sempre più marcato distacco tra la diaspora ebraica americana e un’idea d’Israele, aggressivamente identitaria e chiusa all’inclusione, portata avanti dalla destra ultranazionalista.

Una divisione che investe anche l’interpretazione dell’evento che è il pilastro dell’identità nazionale israeliana: la Shoah. Le cose si sono sviluppate in modo diverso per gli ebrei americani, specialmente durante gli anni precedenti la Guerra dei sei giorni. Mentre Israele si preoccupava di essere intrappolato in un ghetto del Medio Oriente, circondato da nemici che cercavano di portare a termine il lavoro iniziato dai nazisti, l’America fu spazzata dalle tempeste della lotta per la parità di diritti.

I soldati ebrei tornano dalla guerra con ricordi brucianti di genocidio e campi di concentramento, insieme agli ebrei più giovani inorriditi per quello che percepivano come il silenzio dei loro genitori, vissero la segregazione razziale nel Sud e la discriminazione contro i neri nel Nord come qualcosa di analogo alle politiche naziste verso gli ebrei negli anni Trenta. Molti di loro si sono offerti volontari per fungere da avanguardia del movimento per i diritti civili. Si identificarono con esso – e furono così identificati dagli altri.

I giorni ansiosi prima della guerra del 1967 suscitarono timori sia in Israele che negli Stati Uniti di un nuovo Olocausto. La vittoria rapida e decisiva dell’esercito israeliano è stata vista come la risposta miracolosa degli ebrei, un segno divino, come un parziale risarcimento per ciò che avevano subito con la Shoah. L’espressione “mai più”, promossa per la prima volta dalla Jewish Defense League del rabbino di New York Meir Kahane, il cui movimento venne messo fuorilegge in Israele per razzismo, fu adottata dalla comunità ebraica americana nel suo insieme, in entrambe le sue connotazioni particolaristiche e universalistiche.

Gli ebrei americani abbracciarono Israele e divennero il loro alleato strategico, ma l’eredità della loro lotta a fianco degli africano-americani, nonostante la loro reciproca caduta, rimase impressa nella loro coscienza collettiva, insieme al loro timore primordiale dei governi che alimentano il razzismo e fomentano l’odio contro le minoranze.

Barack Obama ad un evento dell’Aipac

L’era di Donald Trump ha accentuato le divisioni nei due diversi approcci e li ha portati al centro della scena. In Israele, la maggioranza ebraica è diventata sempre più sospettosa – e alcuni dicono sulla scia della legge dello stato-nazione, sempre più tormentata – verso le minoranze, mentre gli ebrei americani si considerano improvvisamente una minoranza minacciata dalla maggioranza bianca che ha eletto Trump.

Gli ebrei israeliani vedono Trump come il loro amico più sicuro, mentre i loro cugini ebrei negli Stati Uniti vedono il presidente come un fomentatore di odio verso le minoranze, pericoloso per l’America in generale e per il loro stesso benessere in particolare. Gli israeliani vedono i recenti attacchi alle sinagoghe di Pittsburgh e San Diego come aberrazioni che distolgono l’attenzione dalla principale minaccia dell’islam radicale. Gli ebrei sono stati massacrati nei loro luoghi di culto, secondo la visione prevalente, per nessun’altra ragione che essere ebrei.

La maggior parte degli ebrei americani ritiene che Trump abbia liberato il genio mortifero della supremazia bianca dalla sua bottiglia, compreso l’odio per la Weltanschauung universalistica degli ebrei e l’impulso a rivendicare la vendetta storica per la loro solidarietà con i neri.

Storia, cultura, identità, percezione dell’altro da sé, politica e diplomazia: tutto si tiene quando al centro c’è un conflitto, quale quello israelo-palestinese, che non può essere spiegato e compreso solo toccando le corde della politica. Perché nessun altro conflitto al mondo racchiude in esso interessi, sentimenti, geopolitica e simbologia, in una dimensione atemporale. Sono dunque gli scrittori coloro che meglio sono riusciti a cogliere e a raccontare la natura del problema.

E tra gli scrittori ce ne è uno che più di chiunque altro ha scavato in quel groviglio di sentimenti, ambizioni, paure, speranze, odio che segna una delle questioni cruciali mai risolte negli anni del negoziato: lo status di Gerusalemme. Quello scrittore, scomparso alcuni anni fa, è Amos Elon.

Elon nel suo libro Gerusalemme. I conflitti della memoria rimarca:

Gerusalemme conserva uno straordinario fascino sulla fantasia e genera, per tre fedi ostili che si esprimono con parole perfettamente interscambiabili, la paura e la speranza dell’Apocalisse. Qui il territorialismo religioso è un’antica forma di culto. A Gerusalemme, nazionalismo e religione furono sempre intrecciati tra loro; qui l’idea di una terra promessa e di un popolo eletto fu brevettata per la prima volta, a nome degli ebrei, quasi tremila anni fa.

Hillary Clinton a un evento dell’Aipac

E prosegue Elon:

Da allora il concetto del nazionalismo come religione ha trovato emuli anche altrove. Oggi, a Gerusalemme, religione e politica territoriale sono una cosa sola. Per i palestinesi come per gli israeliani, religione e nazionalismo si sovrappongono, e combaciano. Da entrambe le parti si fondono: e ciò che nasce è, potenzialmente, esplosivo.

Le cento ong “premiate” dal Congresso Usa sono state capaci di coniugare, nei loro progetti, idealità e concretezza. E, soprattutto, hanno dato corpo e anima ad una parola che le leadership dei due fronti hanno espulso dal loro vocabolario politico: la parola compromesso. Una parola nobile, decisiva in una terra santa che si nutre di simboli e suggestioni divisive, martoriata da sogni di grandezza e da una bramosia di possesso assoluto che nel corso del tempo, un tempo secolare, hanno prodotto solo tragedia.

Scriveva Amos Oz, il grande scrittore israeliano recentemente scomparso:

Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte.


Israeliani e palestinesi partner. Negli Stati Uniti ultima modifica: 2019-06-08T11:06:56+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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