Socialdemocrazia sovranista

Non è una semplice vittoria elettorale quella dei socialdemocratici danesi di Mette Frederiksen. Il programma ma, ancora di più, il sentimento con cui l’intera sinistra ha sconfitto il centro conservatore, è destinato a fare scuola.
MICHELE MEZZA
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Non è una semplice vittoria elettorale quella dei socialdemocratici danesi di Mette Frederiksen. Il programma ma, ancora di più, il sentimento con cui l’intera sinistra – buoni infatti i risultati degli altri due partiti più radicali dei socialdemocratici, i socialisti del popolo e la lista post comunista – ha sconfitto il centro conservatore e respinto l’attacco dei sovranisti reazionari, è destinato a fare scuola.

Rovesciando il trend europeo, i socialdemocratici, senza tagliare i cordoni di collegamento con le aree più radicali, hanno riguadagnato il governo e si sono insediati saldamente nell’area sociale di centro sinistra, ricostruendo un blocco che congiunge ceti urbani professionali con i reparti di robusta e tradizionale aristocrazia operaia, a cui sono riusciti ad aggiungere zone di relativo disagio ed emarginazione metropolitana che hanno organicamente integrato in una strategia di ampio e ramificato welfare.

Il motore di questo capolavoro politico è una scelta di esplicita e dichiarata opposizione a logiche di accoglienza e tolleranza per l’immigrazione che sale dal mediterraneo. Margareth Thatcher, che di fronte ai trionfi del baldanzoso Tony Blair dichiarava: “la nostra più evidente vittoria è aver costretto i nostri avversari a pensare come noi”.

In realtà la strategia del gruppo dirigente raccolto attorno alla prossima premier danese Frederiksen, che ha archiviato ogni immagine buonista e ospitale della vecchia socialdemocrazia nordica, è ben più complessa e articolata di una semplice resa al vento della destra. Tanto più che il programma della nuova maggioranza , come spiega con documentata competenza il professor Paolo Borioni, prevede anche un aumento corposo della pressione fiscale che dovrà finanziare un robusto recupero salariale e ampie forme di protezione del non lavoro.

Alle spalle di questa strategia, sostenuta e difesa dai settori più operaisti, che alle latitudine scandinave significa attenti al corpo dei lavoratori manifatturieri, c’è un lungo dibattito sulla vulnerabilità del lavoro tradizionale come soggetto sociale, come agente negoziale della difesa della ricchezza. Un dibattito che arriva alla constatazione che il welfare si riduce quando s’incrina la compattezza sociale ed etnica dei ceti operai.

Come scrive Colin Crouch nel suo saggio Identità perdute, Globalizzazione e nazionalismo:

Sembra esserci una relazione inversa tra un forte stato sociale e un multiculturalismo liberale; e se è così, la sinistra farebbe bene ad abbandonare quest’ultimo il più rapidamente possibile.

E dà un fondamento chiaramente di sinistra al suo ragionamento Crouch quando spiega:

lo stato nazione non è solo un livello della democrazia in senso formale, ma è anche un’entità con cui la maggior parte dei lavoratori si identificano, e alla quale sono disposti ad affidarsi. Questo tipo di attaccamento è necessario se il potere politico democratico vuole contrastare il capitalismo deregolamentato.

Concetti che stridono con la gamma dei valori e dei sentimenti che compongono il senso comune a sinistra, ma che sono fortemente visibili nella tradizione delle lotte operaie e della conflittualità sociale.

Il nodo che i ceti intellettuali dei quartieri residenziali metropolitani tendono a ignorare è proprio quella relazione fra caduta del valore di scambio del lavoro e l’irruzione sulla scena di masse senza identità, se non quella mutuata da lontani richiami etnici e religiosi.

È il mitico esercito di riserva di cui parlavano Marx e Gramsci che, se non altro come coincidenza storica, dagli anni Novanta vede aumentare l’offerta di manovalanza a basso costo e ridursi l’intera scala delle retribuzioni, dalla fabbrica agli uffici, alle stesse professioni liberali.

Non dovremmo fare fatica a ricordare cosa accadeva nelle grandi fabbriche del Nord Italia alla fine degli anni Cinquanta, quando l’ondata migratoria del Sud ridimensionò il peso di quel ceto operaio professionalizzato e organizzato che si vedeva stretto nella morsa fra la prima automatizzazione e la maggiore flessibilità e voglia di adattamento dei giovani meridionali. La memorialistica dei grandi dirigenti sindacali di quella stagione, da Antonio Pizzinato a Vittorio Foa, fino a Bruno Trentin e Sergio Garavini, ci descrivono forti attriti, se non proprio bellicosa contrapposizione fra i due mondi del lavoro che s’incontravano nei nuovi capannoni del miracolo economico. In quella fase prese forma quello che Gramsci avrebbe chiamato “lo stato integrale” in cui istituzioni amministrative e articolazioni della società civile diventano un unico e coeso luogo di conflitto e di lotta per l’egemonia.

In quell’occasione proprio la temperatura della conflittualità, e la sua politicizzazione guidata dai partiti della sinistra, fuse le diversità in un unico interesse di classe. Lo sciopero del 1962 degli elettromeccanici a Milano, dopo le esplosioni prima a Genova nel 1960, contro il congresso del Msi, e poi a Torino a Piazza Statuto, intrecciarono le mille storie di migranti e residenti in un’unica narrazione per una comune conquista di salario e potere in fabbrica. La faglia che inizialmente scomponeva la solidarietà in fabbrica era proprio la relazione fra domanda ed offerta di lavoro. Esattamente quel criterio che ha portato sia in Francia, con le formazioni della cosiddetta sinistra populista, sia in Gran Bretagna, il Labour Party di Corbyn, a non condividere le espressioni razziste e discriminatorie della destra protofascista ma a dichiarare la propria opposizione al flusso di lavoratori dei paesi europei che indebolivano la bilancia sociale interna.

In questo contesto, nella disattenzione di una sinistra europea che ormai non riesce ad alzare il capo dal proprio particulare, i socialdemocratici danesi hanno cominciato a tessere la propria ragnatela per ingabbiare il principale nemico, il partito centrista conservatore, che fa da sponda ai monopolisti proprietari dei centri finanziari e tecnologici che stavano smantellando lo stato sociale. In questa strategia si è vista la sinistra più volte allearsi alla destra per difendere il welfare e respingere l’attacco a salari e redditi nazionali. In cambio si sono chiuse le frontiere e soprattutto si è messo sotto controllo le periferie delle città. Una sorta di patto di produttori bianchi, che ha integrato le aree delle prime immigrazioni, e ha stabilizzato il potere contrattuale del lavoro interno.

Una politica che già trova nel nostro paese epigoni. Penso, ad esempio, al presidente della regione Campania, Vincenzo De Luca, che da anni ha costruito il suo primato, prima a Salerno e poi in tutta la regione, proprio con un’artigianale mistura di autarchia sociale e di ottimizzazione del welfare. Sarebbe sciocco banalizzare il tutto usando le caratterialità di De Luca per demonizzare questa strategia. Non possiamo non constatare che Napoli e la Campania, al momento, sembrano fra i pochi capisaldi territoriali a reggere all’ondata leghista. Semmai bisogna rendere più condivise e articolate questa riflessioni, usando proprio il caso danese.

Un caso in cui, ad esempio, rimangono sospesi, se non ignorati, due elementi non certo irrilevanti:

1 da una parte il tema del più generale riequilibrio fra Nord e Sud dell’europa. È infatti evidente che la logica delle cattedrali che escludono il bazzaar può reggere finché il bazaar ha altre vie di sfogo, altrimenti si arriva a stati di crisi acuta e ingovernabile. In questo i socialdemocratici sembrano abili a guadagnare tempo ma non altrettanto ludici ad usare quel tempo. La loro vittoria dovrebbe infatti spingere la sinistra europea a chiedere una rinegoziazione non solo dei vincoli finanziari interni, ma anche di quelle scellerate politiche di dumping finanziario che impediscono ogni esportazione ai paesi nordafricani nel campo agricolo e delle lavorazioni industriali accessorie. O s’importano i prodotti o i produttori. Non è pensabile alzare i ponti e dividersi i propri patrimoni, recuperati anche con dure politiche redistributive sulla testa del mondo.

2 Il secondo punto riguarda il tema del globalismo. Il motore di questa ondata che attraversa e frantuma lo stato nazionale è la nuova strategia della potenza di calcolo, che supera i poteri locali e raccorda ogni individuo a un solo algoritmo. Come modificare questa geometria digitale, rendendo la rete luogo reale di emancipazione e non solo di oppressione centralizzata. Riacquistare un potere contrattuale come stato sociale nazionale per investirlo in una trasformazione delle ragioni di scambio fra Europa e Africa e per ridisegnare il mercato computazionale potrebbe offrici una via di uscita in questa notte dove tutte le vacche sono nere. Ma se invece l’idea è solo quella di giocare a nascondino con la destra, come abbiamo fatto precedentemente con il centro moderato, per dimostrare che possiamo fare come sinistra meglio di loro, allora ritorneremo alla frantumazione senza scampo.

Socialdemocrazia sovranista ultima modifica: 2019-06-08T13:38:13+02:00 da MICHELE MEZZA
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