In un’intervista al New York Times, David M. Friedman, ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, afferma, senza giri di parole, che lo stato ebraico “ha il diritto” di annettersi parti della Cisgiordania, quelle dove sorgono i blocchi più popolati degli insediamenti israeliani. Mai, prima dell’intervista al NYT, un diplomatico della levatura di Friedman, considerato molto vicino al presidente Trump, si era spinto fino a questo punto. La risposta della leadership palestinese non si è fatta attendere. Ed è stata una risposta durissima.
Ne è riprova l’intervista esclusiva concessa a ytali da una delle figure di primissimo piano in campo palestinese: Saeb Erekat, storico capo negoziatore dell’Autorità Palestinese, oggi numero due dell’Olp.
Con le sue affermazioni – rimarca Erekat, raggiunto telefonicamente da ytali nel suo ufficio a Gerico – – il signor Friedman si è manifestato come ambasciatore estremista dei coloni israeliani, confermando ancora una volta, che l’amministrazione Trump, nel conflitto israelo-palestinese, ha smesso da tempo di svolgere una funzione di mediazione per abbracciare in toto le posizioni più oltranziste di Tel Aviv.

Sul New York Times, l’ambasciatore Friedman ha sostenuto il diritto d’Israele di annettersi parti della Cisgiordania. Come valuta queste affermazioni?
Si tratta di affermazioni gravissime ma che non mi hanno sorpreso. Perché fanno parte di una escalation di atti, e non solo esternazioni, che l’attuale amministrazione Usa ha condotto sin dall’insediamento del presidente Trump alla Casa Bianca. C’è un filo conduttore che lega questi atti.
Quale sarebbe questo filo conduttore?
Legittimare ogni azione prevaricatrice e unilaterale portata avanti dal governo guidato da Benjamin Netanyahu, il primo ministro che Trump considera, come più volte ha ribadito pubblicamente, molto più che un alleato, un amico fidato al quale ogni cosa è concessa, si tratti di Gerusalemme o di un “Piano del secolo” che cancellerebbe definitivamente una soluzione a due Stati.
Ma per tornare all’intervista in questione; su quale principio il signor Friedman basa la sua opinione? Sulla legge internazionale che vieta l’annessione del territorio con la forza? E’ inutile ricordare all’ambasciatore Friedman l’esistenza di più risoluzioni delle Nazioni Unite, votate anche dagli Stati Uniti, che indicano la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est come Territori Occupati. Così come sarebbe inutile ricordare che gli Stati Uniti fanno ancora parte di quel Quartetto per la pace (di cui oltre agli Usa fanno parte Russia, Ue, Onu, ndr) che ha messo a punto una Road map che indica nella soluzione a due Stati il principio cardine di una pace giusta e duratura fra Israele e l’Autorità nazionale palestinese.
Sforzi inutili, perché il presidente Trump e i suoi più stretti consiglieri per il Medio Oriente, di tutto ciò sono perfettamente a conoscenza. Semplicemente, ritengono quelle risoluzioni e la legalità internazionale dei fardelli da cui liberarsi. Noi, ovviamente, siamo dell’avviso opposto. Ed è per questo che stiamo ragionando sulla presentazione di una denuncia al Tribunale penale internazionale.
Mi lasci aggiungere che la posizione dell’ambasciatore Friedman, una posizione che riflette gli orientamenti dell’amministrazione Trump, e che mette in evidenza una realtà di fatto più volta denunciata non solo da noi palestinesi, ma dalle più importanti organizzazioni internazionali per i diritti umani, e da rapporti Onu: oggi, l’apartheid è in Palestina.
E’ tempo per la comunità internazionale, e in particolare per coloro che continuano a condividere “valori democratici” con Israele, come l’Unione Europea, di prendere misure in conformità con questa nuova realtà di Israele, uno Stato che viola sistematicamente i suoi obblighi sanciti diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite, definendosi come uno Stato di apartheid. Sappiamo che in Israele esistono persone, associazioni, partiti che continuano a battersi per il dialogo e che cercano di opporsi a questa deriva fondamentalista. Riconosciamo e apprezziamo ciò che fanno, ma questo non può fornire una giustificazione all’Europa per non agire. Non è più tempo di dire “be’, certo, i governanti israeliani, i falchi, gli oltranzisti, si comportano come non dovrebbero, ma in Israele c’è chi la pensa diversamente, e questo è segno che la democrazia tiene”.
Non sa quante volte mi sono sentito fare questo discorso, che era l’anticipazione del non agire. E’ come se l’Europa si fosse voluta autoassolvere. Così facendo ha finito per rafforzare i fondamentalisti e indebolire le voci critiche. Proseguire su questa strada sarebbe più che un errore. Significherebbe essere complici, alla luce del sole, di questo regime di apartheid che si fa Stato.

In una precedente intervista concessa a ytali, Lei ha liquidato con parole pesanti il Deal of the Century messo a punto dall’amministrazione Trump per portare a soluzione il conflitto israelo-palestinese. Commentando la crisi politica in atto in Israele che ha portato allo scioglimento del Parlamento e all’indizione di nuove elezioni anticipate per il 17 settembre, Lei ha affermato che alla luce di questi eventi si dovrebbe parlare del “Deal of the next Century”. Ma per il popolo palestinese la cosa peggiore non è mantenere, proiettandolo nel futuro, l’attuale status quo?
Mi ascolti bene: ormai ho una esperienza lunghissima, unica, quanto a negoziati con i governi israeliani. Questi negoziati hanno accompagnato una parte rilevante della mia vita. Quel che posso dire, in tutta onestà, è che non c’è niente di peggio di una resa spacciata come pace. Ed è quello che il “Piano del secolo” vorrebbe fare. Certo, sul piatto potrebbero mettere dei dollari, anche tanti magari, ma la nostra libertà come il nostro diritto all’autodeterminazione nazionale non sono in vendita. Il solo prenderlo in considerazione, sarebbe un tradimento dei tanti che hanno sacrificato la propria vita per la causa palestinese.
Sappiamo bene quali siano le condizioni di vita nei Territori, sappiamo bene della sofferenza patita dalle nostre sorelle e fratelli della Striscia di Gaza, sottoposti da undici anni all’assedio israeliano, una punizione collettiva che va contro il diritto internazionale e la stessa Convenzione di Ginevra.
Non voglio nascondere gli errori commessi dalla dirigenza palestinese, dei quali sento un peso e una responsabilità personali, ma ciò di cui sono, siamo convinti è che solo una Palestina libera in uno Stato indipendente può avere la possibilità di crescere economicamente, di migliorare le condizioni di vita della propria gente.
Noi non chiediamo la luna: sappiamo bene che la pace è un compromesso che chiede ai contraenti di rinunciare a una parte delle proprie aspirazioni, dei propri sogni, dei propri diritti. E’ quello che i Palestinesi hanno scelto di fare quando, con Yasser Arafat, hanno abbracciato la soluzione a due Stati, con lo Stato di Palestina da realizzare entro i confini del ’67. Pace in cambio dei Territori, si è detto e scritto. Una pace fondata sul rispetto delle risoluzioni Onu, della legalità internazionale, aggiungo io.
Cosa c’è di estremista in questo ragionamento? Noi ci battiamo per uno Stato in più, lo Stato di Palestina, e non per uno in meno, lo Stato d’Israele. Negoziare dovrebbe significare cercare un compromesso, trovarsi a metà strAda, ma la mia esperienza mi porta ad altre, amare conclusioni….
Quali?
Israele ha usato i negoziati per guadagnare tempo, trascinandoli all’infinito e intanto determinare sul campo una situazione di fatto che finiva per svuotare di ogni significato concreto quelle trattative. Si negoziava e intanto crescevano gli insediamenti in Cisgiordania, e i coloni da qualche migliaia hanno superato i 400mila. Si trattava, e la pulizia etnica a Gerusalemme Est della popolazione araba andava avanti senza soluzione di continuità. La novità, con l’avvento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, è che oggi queste forzature unilaterali vengono legalizzate da parte americana.
In Israele, anche tra quanti sostengono ancora la soluzione. a due Stati, resta il timore che uno Stato palestinese, magari guidato da Hamas, potrebbe minare la sicurezza d’Israele?
Ribalto il ragionamento. E dico: la nascita di uno Stato di Palestina è garanzia di sicurezza per gli israeliani, perché è il mantenimento del regime di apartheid in Cisgiordania, l’assedio a Gaza, è l’occupazione alla base della rabbia che può alimentare violenza e instabilità. Come pensano di piegarci? Comprandoci? O deportandoci in massa in Giordania o dove? Israele vuole uno Stato palestinese smilitarizzato? Dico: discutiamone a un tavolo. Discutiamo dei confini internazionalmente riconosciuti e protetti. Ma per farlo non si possono sposare le posizioni dei coloni, come ha fatto l’ambasciatore Friedman.

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