C’era una volta, nei film, la parola “fine”. Compariva nell’ultima inquadratura, in scena o in dissolvenza a chiudere, generalmente su fondo nero. Poi, tutti a casa, senza titoli di coda, ieri anticipati brevemente in quelli di testa e oggi interminabili. Quasi come le storie, infinite nell’epoca del seriale. Sempre lo stesso film, in pratica. Altra differenza, le fonti: oggi tutti strombazzano di essersi ispirati a fatti veri, realmente accaduti, anche quando non ce ne importa niente. Guardate che l’antidoto ai fakes non si applica al verosimile filmico, che si basa sul patto di credenza (croyance, proprio così secondo la filmologia), che è un credere e insieme non credere, il tempo necessario di una storia. Ieri, invece, anche per evitare rogne legali, alzando in realtà la posta, la precauzione di rito: attenzione non è tutto vero.
Ogni riferimento è puramente casuale, diceva l’avvertenza, ed è oggi il titolo di una serie di racconti di Antonio Manzini, in libreria per Sellerio, dove l’autore – c’è da ritenere – si è divertito a togliersi un po’ di sassolini, che magari chi lo conosce bene sarà in grado di decrittare opportunamente, mettendo nomi e cognomi reali ai personaggi di fantasia. In sabbatico da Rocco Schiavone, che tornerà presto anche sul piccolo schermo, ormai per tutti Marco Giallini, Manzini ambienta le sue storie, lunghe o rapide, nel mondo dell’editoria, che è preferibilmente milanese, condividendo con l’altra industria culturale storica, il cinema, che pure qui da noi è essenzialmente romano, un cinismo soltanto apparentemente celato dalla nobiltà dei fini per l’appunto culturali. Il management, dunque, che sempre il maledetto profitto ha per vero fine, ad ogni prezzo, e la pletora dei corifei, spesso questuanti: scrittori in erba e guru affermati, critici attempati e biliosi, narratori fermi alla pagina bianca e utopistici librai che rinnovano il sogno delle menti emancipate dai libri. Tutti insieme appassionatamente, o quasi.
Eppure quando aveva cominciato a lavorare nell’editoria le intenzioni erano altre. I libri servono. I libri sono i mattoni di una società, si diceva, i libri sono la barriera al pensiero unico, ai terrorismi teocratici, ai pensieri acritici, i libri sono l’ancora di salvezza e il livello di civiltà di una società. I libri siamo noi.

Dice bene Gabriella, nel Racconto andino che occupa la parte centrale, più consistente e inquietante ma divertente del libro di Manzini. Eppure l’ha combinata grossa, con il suo capo, tale Paolo Carpentier, nel maneggiare non proprio con cura uno scrittore peruviano in Italia per il suo ultimo – fortunato? – romanzo. Javier Àlvarez è un sessantenne già un po’ andato di suo, che al primo incontro con il pubblico a Torino cazzeggia che è un piacere, spiazzando il presentatore, l’ufficio stampa e il pubblico, accorso numeroso. Ma si sa come sono fatti i grandi scrittori: artisti, provvisti di regolare licenza poetica. Ciò che Gabriella e quel paraculo nazistoide del suo boss, che non manca di citare regolarmente le gesta della Wehrmacht, non immaginano è il precipitare degli eventi, che loro stessi contribuiranno a rendere tragicamente farseschi, incuranti di ogni etica: gli affari ne vanno allergici.
Come sempre con Manzini, anche Ogni riferimento è puramente casuale fa della scrittura (lettura) per prima cosa un piacere. E naturalmente dà di che pensare. Davvero siamo finiti così in basso? O ci siamo sempre stati e non ce n’eravamo accorti? Il neoliberismo e le fole meritocratiche, poi, te le raccomando. Buone per vincere e subito dopo perdere le elezioni, oltre che la faccia. Ma non divaghiamo troppo, e sorpattutto mai montarsi la testa, come capita al povero Samuel Protti di Lost in presentation, che finalmente riuscirà a pubblicare la sua vincente opera prima, sottoponendosi ad un defatigante tour di presentazioni in giro per l’Italia, un centinaio e passa di incontri nelle librerie, salvo poi scoprire che è l’anello di una maledettissima catena di Sant’Antonio. O il povero Gavino Satta Mulas che se ne starebbe tranquillamente a rimuginare nella sua Barbagia, servito e riverito, non fosse per l’improvviso ingresso nell’empireo dei mitici Meridiani Mondadori (È tardi). E ci sarebbe pur sempre La critica della ragione, a seppellire i sogni di gloria di un debuttante e tracotante semianalfabeta, se il sessantenne supercilioso Curzio Biroli continuasse a stroncare: purtroppo ad aver la meglio sarà la bellezza, irresistibile, dell’intraprendente Adoración Moretti, una che nel giro dell’editoria, oltretutto, “non l’aveva mai data”. Perdonate il linguaggio da trivio, ma – insieme all’autore – ci stiamo adeguando al lessico manageriale.
C’è ancora spazio per chi ci crede? Certo, prendete Amedeo Cicolella, che s’ingegna in tutti i modi per aprire e poi “lanciare” una libreria nella popolosa Giugliano della periferia camorristica di Napoli: zero in lettura eppure… Credeteci, ma non troppo, sennò fate come la povera Michela Apuzzi de L’arringa finale, che per il fraintendimento di una dedica banalmente seduttiva (occhi di-amante) si ritrova in braghe di tela (e già non era velluto pregiato prima). Insomma, credere e non credere, come al cinema. E non tutto è perduto con le storie. Non per nulla vi abbiamo parlato di un libro: finché c’è letteratura c’è speranza.


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