Nessuno – eccetto i politici italiani, tutti presi nel loro infinito amore per la dittatura del Partito comunista cinese – può sottovalutare l’importanza di quello che è successo negli ultimi giorni a Hong Kong, dove una vasta mobilitazione popolare ha costretto la potenza cinese a una brusca marcia indietro. Chissà perché, questa straordinaria città-paese multilinguistica, multiculturale, assolutamente unica al mondo, continua a essere percepita – perlomeno in Italia – come un posto “peccaminoso”, di strade a luci rosse, di marine e mignotte, di mafiosi che fumano i sigari e bevono vino rosso, di cinici finanzieri, che non pensano ad altro che al business.
Invece, Hong Kong è molto più di una città – se si considerano i vasti “new territories” e le “outer island” come Lantau e Lamma, divenute a loro volta delle “città nella città” –, è un posto dov’è cresciuta un’ampia “middle class” con redditi europei e con una cultura che è forse il caso più sviluppato del mondo di fusione tra individualismo occidentale e collettivismo confuciano. Ed è questa middle class che ha portato avanti quella che fino ad ora è la sfida più grande che sia stata portata al potere del PCC – dopo quella, sfortunata e confusa – degli studenti che trent’anni fa occuparono per quasi due mesi piazza Tiananmen, a Pechino, con gli esiti che sappiamo.

Riassumiamo quello che è successo nell’ultimo anno a Hong Kong. Intanto – sempre nel religioso silenzio dei nostri politici – tutti gli organizzatori di Occupy Central with Peace and Love – l’occupazione, avvenuta nell’autunno del 2014 e durata quasi tre mesi dell’area centrale dell’isola di Hong Kong propriamente detta, che aveva al suo centro la rivendicazione del suffragio universale – sono in galera: Joshua Wong, il giovanissimo leader studentesco e fondatore del partito politico Demosisto, è al suo terzo periodo di incarcerazione; i tre intellettuali che hanno per primi lanciato l’idea di occupare Central (il nome del distretto del business di Hong Kong), i professori universitari Benny Tai e Chan Kin-man e il reverendo Chu Yiu Ming stanno scontando 18 mesi di prigione. Con loro è finita dietro le sbarre un’altra decina di dirigenti del movimento democratico della città. Il tutto senza che non si siano mai verificati episodi di violenza.
Non solo.
Negli ultimi anni, quattro membri eletti del Legislative Council (il Parlamento, che è solo parzialmente elettivo), sono stati costretti alle dimissioni con motivazioni tecniche. Un’azione che ha cambiato i rapporti di forza nel “Legco” (come lo chiamano i media locali) – dove i democratici non hanno più la forza di bloccare le proposte governative – disarmandolo e rendendolo un semplice certificatore di decisioni prese altrove (a Pechino o, come dicono gli hongkonghesi, a Sai Wan, il quartiere nel quale sorgono gli uffici del Liason Office, cioè dei rappresentanti di Pechino nel territorio). Il piccolo partito che reclama l’indipendenza del territorio – il National Party – è stato dichiarato fuorilegge. Il giornalista del Financial Times Victor Mallet, che aveva invitato uno dei leader di quel partito a parlare al Foreign Correspondent Club, è stato espluso dal territorio.

Hong Kong si trova dal 1997 in un regime che è chiamato “un paese, due sistemi”, frutto dell’accordo firmato dal Regno Unito (primo ministro Margaret Thatcher) e dalla Cina (guidata da Deng Xiaoping) per il ritorno del territorio – che come abbiamo visto è molto più ampio dell’isola di Hong Kong – sotto la sovranità cinese dopo 99 anni di colonialismo britannico. L’accordo – di fatto la Costituzione di Hong Kong – prevede una graduale marcia verso l’obiettivo ultimo, che è la piena democrazia. I settanta seggi del Legco sono solo in parte elettivi mentre gli altri sono assegnati a persone scelte dalle “functional costituencies”, vale a dire le associazioni professionali. Il “Chief Executive”, il capo del governo locale, è scelto tra diversi candidati, tutti però approvati da Pechino. Senza scendere nei dettagli, si tratta di un sistema “misto”, nel quale sono introdotti gradualmente “elementi di democrazia”. L’ accordo è valido per cinquant’anni, quindi scade nel 2047 e non guarda oltre quella data. Questo perché nel 1997 – otto anni dopo il massacro di Tiananmen e cinque dopo il “viaggio al sud” di Deng Xiaoping, che aveva rilanciato le riforme e l’apertura – tutti pensavano che la Cina sarebbe diventata una democrazia e che di conseguenza il problema non si sarebbe posto.
Oggi sappiamo che non è così.
La Cina non solo non s’è trasformata in una democrazia ma non ha neanche aperto il suo mercato – come gli imprenditori occidentali hanno sempre denunciato – gettando le basi per la guerra tariffaria scatenata dal presidente americano Donald Trump. A Hong Kong lo stop all’evoluzione democratica della Cina, che ha coinciso con l’ascesa al potere dell’attuale presidente Xi Jinping, ha significato la fine di fatto dell’“un paese, due sistemi”.

Il sistema è uno, ed è quello autoritario della Cina comunista.
La situazione è stata aggravata dalla mancanza di leader locali credibili: la attuale “Chief Executive” è Carrie Lam, una burocrate drogata di lavoro e che dorme tre-cinque ore a notte, secondo un recente ritratto che ne ha fatto il New York Times, che avrebbe secondo alcuni opinionisti addirittura sorpassato le richieste di Pechino in un eccesso di zelo che probabilmente le costerà la carriera. Lam ha cercato d’imporre l’approvazione di una legge che avrebbe consentito l’estradizione in Cina delle persone arrestate ad Hong Kong.
Oltre un milione di persone (Hong Kong ha circa sette milioni di abitanti) sono scese in piazza e le violenze della polizia non hanno avuto altro risultato che quello di far estendere la protesta, fino a costringere Carrie Lam e i suoi sponsor cinesi a rinunciare, almeno per il momento, al progetto. In altre parole, la mobilitazione dei cittadini è prevalsa sulla volontà dei dittatori di Pechino e dei loro alleati locali. Una cosa che non è possibile negli altri punti deboli dell’Impero cinese: il Tibet, lo Xinjiang – dove almeno un milione di persone sono state costrette alla “rieducazione”–- e Taiwan, che rimane in un assurdo isolamento politico e diplomatico. Non per niente la presidente taiwanese Tsai Ing-wen è stata tra i più decisi nel sostenere la mobilitazione popolare ad Hong Kong, e nell’isola si sono tenute numerose manifestazioni di solidarietà con la protesta degli hongkonghesi. Tsai è un’esponente del Democratic Progressive Party (DPP), che sostiene apertamente l’indipendenza dell’isola. Contrariamente a un’opinione largamente diffusa e che ha origine a Pechino, Taiwan è stata parte della Cina solo parzialmente e per brevi periodi, mentre dal 1895 al 1945 fu parte dell’Impero giapponese. Poi, nel 1949, fu invasa dalle truppe del Kuomintang (il partito nazionalista filo-occidentale) in fuga dalla terraferma dopo essere state sconfitte dai comunisti di Mao Zedong. Il Kuomintang s’impose con una feroce dittatura, che negli anni seguenti fu sfidata da molti gruppi locali in un processo che ha dato vita alla nascita del DPP e alla crescita di un’identità locale, distinta da quella cinese.

Le frequenti proteste dei cittadini di Hong Kong – mobilitazioni popolari contro le imposizioni di Pechino si sono verificate anche nel 2003 e nel 2014 con Occupy Central – mettono all’ordine del giorno la ridiscussione della legittimità del potere di Pechino su tutta la “periferia”, vale a dire le aree dove esiste un’identità di gruppo e di nazione distinta da quella di cinesi “han” della terraferma: Hong Kong, Taiwan, Tibet e Xinjiang. Delle prime, modeste, proposte potrebbero essere il rifiuto delle imposizioni di Pechino che pretende – e fino ad oggi ha ottenuto – che i governi stranieri non ricevano il Dalai Lama del Tibet, uno strenuo oppositore del regime, e che i rappresentanti di Taiwan – esponenti di governi eletti democraticamente – partecipino ai lavori delle organizzazioni internazionali, da quelle sportive a quelle sanitarie.
Quello che occorre cambiare – e prima si fa, meglio sarà – è la percezione della Cina, che è ancorata a una mentalità e a punti di riferimento legali alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Un processo difficile ma necessario e, direi, irreversibile. Più difficile che mai in un’Italia ossessionata dalle polemiche di cortile tra i diversi partiti e dove la politica verso la Cina è decisa da personaggi come il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci, secondo il quale il nostro paese deve copiare tutto dalla Cina, compresa la gestione dell’ordine pubblico. Sempre che una politica verso la Cina esista, cosa della quale non sono del tutto sicuro.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!
1 commento
Grande Beniamino, sei sempre il migliore giornalista, profondo conoscitore di Cina ed Estremo Oriente…