Pietro De Albertis. Tracce di quotidianità

“Fotografare significa per me camminare con lentezza, fermarmi, alzare lo sguardo, cogliere i movimenti delle persone, o i loro non-movimenti. Un approccio ‘riflessivo’, con una produttività bassissima, per il quale è sufficiente una vecchia e robusta macchina a pellicola acquistata a buon mercato sul web”.
JOANN LOCKTOV
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Nelle tue foto c’è un delicato intimismo. Vediamo persone nella loro quotidianità eppure non c’è nulla di banale in queste immagini; forse è la tua consuetudine con queste attività della vita quotidiana che crea una sorta di empatia con l’osservatore. Chiunque abbia preso per mano un bimbo ha sentito determinazione, apprensione, curiosità e amore in quella stretta calorosa. Tutto ciò si ritrova in A manina. Quali sono gli ingredienti che permettono alle tue foto di ispirare un senso di simpatia per Venezia, per la città come per i suoi abitanti?

A manina

Nelle mie foto cerco di usare due ingredienti: l’umiltà e la gentilezza.

L’umiltà di dedicarsi con pazienza a un progetto di cronaca locale. Le mie fotografie, pur ritraendo diverse aree della Venezia storica, si concentrano sulla vita di pochi sestieri. Cannaregio su tutti. Mi piace uscire la mattina presto dalla mia casa in fondamenta degli Ormesini e camminare lentamente verso la Misericordia, allargare verso fondamenta Contarini, ritornare sui miei passi verso il Ghetto e i Tre Archi. Ho al collo la macchina fotografica, ma non mi sento obbligato a scattare. Uso gli occhi, abbozzo mentalmente possibili inquadrature. Così m’immergo nello scorrere lento e placido della vita, ancora possibile in questa città tormentata. Vedo muoversi straordinari personaggi locali, che fatalmente tendono a dissolversi nella folla con l’avanzare del giorno. Sono solo tracce, ma ci dicono che la città è ancora in vita. 

La gentilezza nel raccogliere le immagini.Conosco tanti angoli della città potenzialmente fotogenici, dove una figura, o la sua ombra, possono diventare in un attimo fugace attori di un magico palcoscenico. E così ciondolo con lentezza da un palcoscenico all’altro. Ma, di norma, non accade nulla! Poi l’istinto ti suggerisce di aspettare e, finalmente, una sagoma si staglia in controluce. Scatto con rispetto, senza far pesare la mia presenza. Si scambiamo due parole, un sorriso e una stretta di mano. Magari si beve uno spriz in compagnia. Un approccio più da pescatore che da aggressivo “street photographer”. Una pesca magra, che però è stata negli anni fonte di soddisfazione. Con questo ritmo temo che alla fine della mia carriera di fotografo avrò messo nel paniere non più di qualche decina di buoni scatti. 

Venezia è descritta molto spesso come un set cinematografico. Ne L’attesa il signore seduto indossa un cappello a tricorno. Il suo abbigliamento, la concentrazione nel libro che tiene in mano, i dintorni deserti di Campo San Polo, sembrerebbe quasi che attenda dietro le quinte prima di entrare in scena. Ma ugualmente dà un’idea del passaggio del tempo, degli strati dei secoli che non possono venire ignorati a Venezia. Puoi dirci qualcosa di più su questa fotografia, le circostanze in cui l’hai fatta, e la tua scelta dell’inquadratura?

L’attesa

Il mio approccio alla fotografia veneziana è effettivamente basato sulla preparazione preliminare delle scenografie. Sono i miei set, appostamenti con precisi angoli di visuale che ho costruito negli anni, attivi solo in particolari stagioni e in determinate circostanze di luce. Alcuni di essi sono solo potenziali, non essendo ancora riuscito a scattarvi una sola buona immagine. Ma non dispero mai che arrivi l’attimo giusto, che un inconsapevole attore entri a far parte del gioco. Il set di Campo San Polo è stato per anni avaro nei miei confronti. La giusta distribuzione di linee e spazi era ben chiara nella mia mente, ma non accadeva mai nulla. Sempre troppa gente, distribuita nei posti sbagliati. L’obiettivo era di avere un Campo quasi deserto, con poche significative tracce umane. Desideravo ottenere un’immagine dall’incerta collocazione temporale. Sarebbe mai stato possibile? È stato solo un incredibile colpo di fortuna. Quando, provenendo dalla Salizada, ho imboccato il Campo mi son quasi messo a correre… il palcoscenico s’era animato! Di un solo unico attore, quanto mai appropriato e perfettamente al centro della mia scena. Mi ha dato il tempo di realizzare un solo scatto, su pellicola. Questa foto è irripetibile, l’uomo col tricorno è scomparso nel nulla. Forse risucchiato dal Tempo, non l’ho mai più visto. I recenti lavori di restauro del Campo hanno modificato il set. Sono state aggiunte altre panchine per la gioia di chi mangia al sacco.

Nelle tue fotografie c’è una sinergia tra la Venezia edificata e i veneziani. Le persone sono spesso intraviste attraverso finestre, porte, archi che convergono verso la sensazione di genius loci: ambiente e spirito sono indivisibili. Come scegli dove fotografare a Venezia?

C’era una porta

L’architettura veneziana, sia quella monumentale che popolare, m’appassiona più della stessa fotografia. È straordinario come un agglomerato di miliardi di mattoni possa comunicare allo spettatore un tale senso di comunione con la Natura. Una sensazione ovviamente legata alle caratteristiche anfibie della città, ma non solo. Muri corrosi, sotoporteghi, frammenti di archi bizantini, finestrine gotiche e vecchie porte ora murate si susseguono con casualità naturale, quasi fossero alberi e felci di un’antica foresta. Ed è nell’intima penombra di tale magico intrigo che cerco gli angoli più defilati per attendere e ritrarre, a dovuta distanza, i rari abitanti. Talvolta le figure, incorniciate dagli elementi architettonici, diventano inconsapevoli soggetti di  inaspettate pale d’altare. Ho un catalogo mentale di decine di queste ambientazioni, però ci vuole pazienza e tanta fortuna per cogliere l’attimo giusto! L’architettura veneziana privata dei veneziani risulterebbe vuota e priva di senso, così nei miei scatti vi è sempre almeno una “traccia” di tale preziosa presenza. 

Con tutti i progressi tecnologici delle macchine digitali hai deciso di fotografare con la pellicola. Cosa ti consente la pellicola che non potresti ottenere con una digitale?

Spritz agli Ormesini

La scelta di scattare su pellicola è sostanzialmente psicologica. Ci sono indubbiamente alcune differenze qualitative nei risultati, ma oramai col digitale si può simulare qualsiasi cosa. Tutto è legato all’approccio mentale… per me la fotografia rappresenta uno stimolo ad osservare con attenzione, a riflettere, a volte pure a fantasticare su quanto mi circonda. Fotografare significa per me camminare con lentezza, fermarmi, alzare lo sguardo, cogliere i movimenti delle persone, o i loro non-movimenti. Un approccio “riflessivo”, con una produttività bassissima, per il quale è sufficiente una vecchia e robusta macchina a pellicola acquistata a buon mercato sul web. 

Non saprei che farmene di un moderno strumento capace di cogliere centinaia di immagini in una manciata di minuti… per me le classiche trentasei pose del rullino bastano e avanzano! Non è un vezzo “vintage”, non desidero possedere e venerare una gloriosa Leica, mi basta avere un mezzo affidabile e semplice col quale fotografare anche ad occhi chiusi. E non m’interessa controllare subito sul visore il risultato della “caccia”. È molto più emozionante attendere trepidamente lo sviluppo. 

Tale approccio mi ha fatalmente condotto a Venezia, la città che più di altre s’addice alla riflessione, alla costruzione di scenari inusuali, fantastici. Con lentezza e pazienza, anno dopo anno, le immagini hanno acquisito una logica, sono diventate progetto, hanno chiamato altre immagini. E ogni nuova immagine mi ha fatto comprendere più a fondo il significato delle immagini del passato. 

Venezia è riconosciuta in tutto il mondo per le sue sontuose sfumature di colore. Perché ha scelto di fotografare sempre in bianco e nero?

La luce della Vigna

La scelta del bianco e nero è legata alla volontà di fornire un messaggio semplice e incisivo. Trovo che la quantità di informazioni trasmessa dal colore sia esagerata e generi confusione. Paradossalmente l’immagine a colori risulta oggi più distante dalla realtà, spinta dal mondo pubblicitario a fornire risultati stupefacenti, di una perfezione cromatica che rasenta la volgarità. Il bianco e nero può essere invece assimilato ad una radiografia. Con i suoi bianchi scarnifica e mette a nudo la realtà delle cose. Con i suoi neri profondi ci racconta le situazioni più intime e segrete. Un altro aspetto è legato alla mia passione per l’architettura veneziana, per i delicati ricami del bizantino e del gotico, il cui tratto grafico è esaltato dal bianco e nero. Col tempo mi sono abituato a “vedere” in bianco e nero!

Foto d’apertura: Ottobre alle Capuzzine

Pietro De Albertis (il mio sito personale)
Imagoars Art Gallery  (la galleria che di solito ospita le mostre dei miei lavori).
Foto Medici  (il mio amico stampatore che posta sul suo sito web tutti i miei lavori veneziani)

Dream of Venice in Black and White
JoAnn Locktov
Manuela Cattaneo della Volta (translation)

Pietro De Albertis. Tracce di quotidianità ultima modifica: 2019-06-15T16:55:24+02:00 da JOANN LOCKTOV
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