Nella stiva della nave Italia viaggia una copia perfetta del Leone di San Marco. È destinata agli immigrati italiani di Nova Veneza, una cittadina nello stato di Santa Catarina, nel sud del Brasile. È il 1925, il dono del governo italiano è preannunciato da tempo e cresce l’attesa, laggiù. Ma per esperienza personale, i destinatari sanno bene quanto possa essere lungo il viaggio. Al massimo ci si chiede dove potrà mai approdare una nave di quell’importanza. Intanto il regalo tarda ad arrivare.
In realtà, l’Italia è già in acque brasiliane e, per la precisione, ha gettato l’ancora nel porto di Vitoria, nello stato dell’Espirito Santo. Più o meno a 1.700 chilometri di distanza. E lì il Leone promesso a Nova Veneza è stato sbarcato. Non solo, ma inspiegabilmente ha anche cambiato destinazione, prendendo la strada che va verso l’interno nella lunga e stretta regione dell’Espirito Santo. Ha percorso oltre duecentocinquanta chilometri per arrivare finalmente a… Nova Venécia.
Sono entrambe novelle Venezie, le cittadine brasiliane, evidentemente è la quasi omonimia a provocare l’errore. Ma considerando la distanza tra loro è come dire che il bronzo da consegnare in Danimarca è finito per caso a Milano.
Nella stragrande maggioranza cattolici e di origini italiane, gli abitanti di Nova Venécia festeggiano calorosamente l’inatteso regalo. E si tengono il Leone, che lì rimane e ancora lì si trova. Nella chiesa di San Marco, patrono della città. E a Nova Veneza? Dopo un po’ si è saputo dove era andato a parare. E saggiamente si fanno inviare un altro Leone in regalo.
La vicenda dei due leoni non è solo una storia pittoresca. L’attaccamento a Venezia era ed è tuttora molto forte nelle comunità d’italiani nel Brasile profondo. Molte tradizioni degli immigrati di origini venete si conservano intatte nelle serre gauchas del sud brasiliano e capixabas del sudest, dove con un buon vino e la graspa s’accompagnano i piatti di polenta, il macarrão, gli espaguete, gli nhoque, la lasanha, il salaminho, gli anholini, i torteis, oltre all’universale pizza. Si gioca a bocha (bocce) oppure a mora (morra) forse baruffando in talian, un misto di brasiliano e di veneto, quel veneto semplice delle famiglie e dei sentimenti dei primi immigrati, un idioma che tuttora qualche etno-linguista viene fin qui a studiare e rintracciare un dialetto che neppure in Veneto si parla più. E poi ci si saluta tutti con un tchau! Come ovunque in Brasile.
Le due Venezie dell’inconsapevole disputa leonina sono oggi due comunità operose e pienamente integrate nella società brasiliana. Non era così agli inizi della loro storia poco più che centenaria. Una storia di sradicamento, di lotte, di sacrifici, di sopraffazioni subite ma anche, delle volte, inflitte. Tutto comincia nei primi decenni dell’Ottocento.
In Brasile i potenti “signorotti” del caffè, in vista dell’imminente abolizione della schiavitù, erano decisi a premunirsi. Nelle smisurate piantagioni stava per mancare la manodopera, era indispensabile impiegare lavoratori salariati. Ma in che modo, in un paese pressoché spopolato? I fazendeiros premevano su governanti che erano da tempo alle prese con la difficile colonizzazione del vasto territorio e, per favorire l’immigrazione, reclamavano una massiccia campagna propagandistica. Si trattava di “vendere” l’immagine del Brasile nelle campagne europee. Ed ecco allora i contratti strabilianti offerti ai contadini desiderosi d’emigrare nel nuovo mondo.
L’Italia pullulava di agenti delle compagnie di navigazione e di emissari dei fazendeiros.

Nova Veneza
È con la fondazione di Nova Veneza nel 1891 che nasce ufficialmente la prima comunità italiana nel Sud del Brasile, da poco una repubblica indipendente. Per la verità da oltre cinquant’anni erano già lì diversi italiani e altri invogliati dai dépliant che illustravano le abbondanze degli spazi a disposizione, erano arrivati dopo la campagna propagandistica del 1874.
In ogni caso erano innanzitutto veneti, i coloni che tra il 1880 e il 1890 arrivarono laggiù, nella regione di Santa Catarina, nella comunità pianificata a una trentina di chilometri dalla costa da una impresa privata, la compagnia metropolitana di Angelo Fiorita & Cia. A ricevere i coloni c’era il siciliano Miguel Napoli, incaricato di delimitare i terreni della colonia.
Irretite dalla promessa di terre a costi bassissimi in una Venezia nella foresta vergine, circa quattrocento famiglie raccolsero l’offerta, e successivamente più altre cinquecento. In nemmeno una quindicina d’anni la nascente colonia doveva accogliere migliaia di contadini, diventati proprietari di terre a un prezzo effettivamente irrisorio. Il colono si era già sobbarcato le spese per raggiungere la terra lontana e per mantenere la propria famiglia s’assoggettava a una dura manovalanza, aprendo varchi e strade nella foresta intonsa per renderla praticabile. Riceveva in dotazione attrezzature, animali e sementi, tutto da pagare con il ricavato dei primi raccolti.
A pochi anni dalla sua fondazione già la colonia faticava a trovare nuovi abitanti. La Venezia promessa poteva rivelarsi inospitale, addirittura costare la vita ma l’impresa finanziatrice, intenzionata a far fruttare l’investimento in tutti i modi, non prendeva in considerazione i reclami dei delusi. Dato che nel paese non mancavano proposte allettanti, in molti decisero di trasferirsi altrove. Qualcheduno rientrò in patria, per dare inizio a un andirivieni stagionale tra Italia e Brasile che accompagnava il lavoro dei campi nei differenti emisferi.
La cittadina popolata da discendenti di italiani, che sono oggi il novanta per cento circa dei dodicimila abitanti, ha sonnecchiato per quasi un secolo, lasciando intatto un gruppo di case di pietra costruito dai primi coloni. C’erano tra loro anche abilissimi muratori provenienti da varie zone del Triveneto, che forse vivevano quelle case in legno come troppo provvisorie.
Dove è adesso l’Ospedale San Marco sorgeva un’imponente costruzione con le scalinate in marmo. Era quella la sede della “companhia metropolitana”, da lì si governava la vita della colonia. Oggi nella piazza intitolata a uno dei pionieri della città, un’autentica gondola ondeggia nel laghetto costruito appositamente. La gondola nera e veneziana composta da duecentottanta pezzi, inviata dall’Italia, è arrivata a Nova Veneza da poco. Via terra, naturalmente dopo lo sbarco nel porto di Itajaí.
I fiumi d’acqua cristallina gremiti di pesci hanno continuato a scorrere tra colline ricoperte dalla vegetazione rigogliosa e le montagne della Serra, dove scorrazzano tuttora grossi e rari felini della foresta atlantica, come il giaguaro.
Lì intorno vivevano allora diversi popoli nativi, chiamati indifferentemente selvaggi, bugre, ma gli uomini bruni che silenziosi s’aggiravano nudi tra gli alberi in quei luoghi che erano dati per certo come spopolati, erano gli Xokleng. Era un popolo nomade, che cacciando e raccogliendo frutti si spostava di continuo nel vasto territorio. Gli Xokleng capivano che erano obbligati a spartirlo con i coloni ma non avevano nessuna intenzione di fraternizzare con l’uomo bianco. Avevano già sperimentato l’aggressività dei primi colonizzatori portoghesi.
Gli immigrati terrorizzati s’attrezzavano, dovevano difendersi con il fucile dalle ombre che s’intravedevano confuse nella foresta. La situazione era andata peggiorando con scontri a ripetizione, ogni volta che gli indios gironzolavano intorno alle case, nel buio assoluto, cercando di sottrarre coltelli, pentole, cibo. Difficilmente uccidevano ma la compagnia incitava i coloni a “spaventare” quei selvaggi. Decisero di organizzare delle incursioni nella foresta. Guidate da un certo Coral, un italiano, le battute di caccia all’indio si trasformarono in una carneficina. Sembra che avesse giurato vendetta, forse dopo la morte di un amico ucciso dai bugre. Ma dietro l’odio di Coral si sospettava ci fosse in realtà un’altra questione: sua moglie era stata effettivamente rapita dai bugre e dopo qualche tempo restituita sana e salva, pare incinta.
I coloni andavano all’assalto e gli indios cercavano dove eclissarsi sempre più verso l’interno, nella fitta mata atlantica. Si ritirarono oltre i dorsi della catena montuosa ma buona parte delle pianure erano occupate dai paulisti, gli allevatori di bestiame. Fin quando gli Xokleng non trovarono più dove nascondersi. Di questa popolazione nativa poco si sa, e salvo qualche piccolo indio che era stato catturato, sono di fatto scomparsi dopo l’ultimo eccidio del 1905.
Decisiva è stata l’entrata in scena dei bugreiros, ingaggiati dai coloni ma anche dal governo della regione. I cacciatori professionisti di indios erano pagati a lavoro finito, quindi riscuotevano un tanto per ogni orecchia di bugre: uomini, donne, bambini uccisi. E dei circa duecentomila indigeni del sud del Brasile, restano oggi non più di diecimila.

Nova Venécia
Le pietre granitiche della Serra devono essere apparse all’improvviso quando Rodrigues da Cunha arrivò nei paraggi di quella che un giorno si sarebbe chiamata Nova Venécia. Si era intorno al 1870. Il caffè stava prendendo il posto della canna da zucchero e Rodrigues da Cunha, scortato da uno stuolo di servi, era partito dalla vicina San Mateus per fermarsi laddove si stendevano nuove terre fertili da coltivare. Decise di insediarsi nella vallata, nei dintorni del fiume Cricaré. Dal nulla avrebbe creato una fazenda.
Intorno all’insediamento di Rodrigues da Cunha la terra inizia a popolarsi quando arrivano alla spicciolata i retirantes del Cearà, contadini che fuggono dalla loro regione arsa dalla siccità. Ma presto inizia nuovamente a mancare la manodopera. Il fazendeiro si rivolge all’imperatore offrendosi di devolvere lotti di terra agli immigrati disposti a lavorare nelle sue proprietà, un gesto non disinteressato che gli procura il titolo di barone.
Il fiume Cricaré, o San Mateus secondo i portoghesi, era davvero fondamentale per i colonizzatori perché nasceva dalle parti delle miniere di Minas Gerais, percorrendo oltre cento chilometri nell’Espirito Santo e fino all’oceano. Una via strategica per far arrivare l’oro al litorale, indispensabile anche per trasportare dall’interno della regione la canna da zucchero, il caffè, la farina di manioca e, da ultimo, il legname. Siccome ogni cosa doveva necessariamente arrivare sull’Atlantico prima del grande salto verso l’Europa, l’intero percorso del fiume andava occupato massicciamente.
Ai tempi, ai margini del fiume Kiri-Kerê – “il dormiglione”, così chiamato per le sue acque calme – vivevano gli Aymoré, o i botocudo (per via dei botoques, dischi di legno inseriti come ornamenti nelle labbra), un popolo fiero e feroce che sapeva difendersi dai cacciatori di indios. Si erano addentrati nel cuore della vegetazione selvaggia della Serra tallonati dalle truppe portoghesi e dai fazendeiros che intendevano obbligarli ai lavori nei campi insieme agli africani schiavi. In altre regioni i nativi venivano sconfitti e decimati dai colonizzatori, ma qui no, nello scontro intorno al Cricaré non c’erano vincitori. Per piegarli, gli indigeni, l’unico modo era catechizzarli e “civilizzarli”. Una via anche questa senza successo. Soltanto molto più tardi ci sarà una sorta di pace e i botocudo tollereranno l’occupazione del loro territorio. Agli inizi del secolo ventesimo per loro sarà lo sterminio.
Nella vallata del Cricaré s’affacciano anche gli immigrati italiani, un piccolo gruppo di un’ottantina di persone, intorno al 1890. In un secondo momento giungono altri 1800 immigrati, alcuni si sarebbero sparsi nelle fazendas nei dintorni, ma la loro principale meta sono le colonie finanziate dal governo brasiliano. Non passa neppure un anno, gli immigrati si sentono raggirati per le promesse rimaste lettera morta, ed è la rivolta. Le famiglie numerose rimaste a lungo isolate in una colonia abbandonata a se stessa, dove manca tutto, perfino il cibo, da lì a poco trovano una sistemazione in un baraccone. È il primo nucleo di un’altra colonia che nascerà nel 1895. Si chiamerà Nova Venécia.
Degli anni della fondazione restano pochi ruderi, Nova Venécia è una città moderna, conta oltre quarantacinquemila abitanti, ed è circondata da uno scenario splendido, oltre 2.500 ettari protetti da vincoli ambientali che mantengono intatto ciò che resta della foresta atlantica. Nella pianura, tra le piantagioni di caffè, compaiono “isole” rocciose, veri giacimenti di granito e marmo. La Pedra do Elefante è il simbolo della città, la zona è l’habitat di specie rare di piante, di orchidee e di animali come il giaguaro e il bradipo.
All’epoca dei primi coloni italiani, esattamente nel 1892, il governo brasiliano chiariva come intendeva incrementare l’immigrazione e formare gli insediamenti: lotti di 25 ettari a ciascuna famiglia, rimborso delle spese del viaggio transoceanico, alloggio, vitto e trasporto fino ai siti prescelti, assistenza medica nei due primi anni, denari anticipati per l’acquisto degli strumenti di lavoro. Per sistemarsi provvisoriamente, all’inizio, si poteva scegliere un finanziamento per fabbricare un’abitazione oppure una casa dallo stato già pronta. Nei malaugurati casi di disgrazie fatali al capofamiglia, era garantito il sostegno alle vedove e agli orfani, incluso l’eventuale passaggio di ritorno in patria. Era previsto anche il lavoro nelle proprietà private e potevano essere espropriate dal governo le grandi fazendas abbandonate; gli appezzamenti incolti sarebbero stati lottizzati per formare dei nuclei coloniali.

E l’immigrato? In cambio s’impegnava a rimanere lì almeno tre anni, a coltivare le terre e a restituire i soldi prestati dal governo, per diventare effettivamente proprietario. Sarebbero stati pignorati i beni di chi non rispettava gli obblighi contrattuali, anche quelli con i privati.
Partivano numerosi i grandi vapori, di solito da Genova, erano navi merci e passeggeri, 1.200-1500 passeggeri alla volta per venticinque lunghi giorni in mare. Nei porti brasiliani, man mano gli immigranti scendevano a Vitoria, a Rio de Janeiro, a Santos e qualcuno sarebbe arrivato fino a Buenos Aires. Dietro questi viaggi c’erano di mezzo, quasi sempre, i procacciatori di immigranti. Per agenti, compagnie di navigazione e per chiunque reclutasse un certo numero di lavoratori disposti a emigrare c’era un premio in denaro.
In virtù del contratto siglato dal governo brasiliano con l’italiano Giffoni e rinnovato nel 1893, era previsto l’insediamento di ventimila europei nello stato dell’Espirito Santo. Preferibilmente italiani. Ne arrivarono non più di dodicimila.
Le intenzioni erano lodevoli ma, nell’immediato, per i coloni si trattava di affrontare la foresta e qualche volta era un’impresa che rasentava l’impossibile. E dire che il manuale dell’immigrante della compagnia di navigazione La veloce descriveva solamente meraviglie.
A Parigi, dove aveva sede l’ufficio centrale per l’emigrazione degli europei in Brasile, avevano costatato che il governo italiano stava bloccando il flusso degli emigranti. La ragione? La situazione nello stato dell’Espirito Santo. Il consolato italiano aveva preso informazioni e, con un ritardo di un paio d’anni, la notizia del tracollo di certe colonie era giunta in Italia alle orecchie governative. Quella zona era ritenuta una landa disastrosa. Pertanto, viste le condizioni economiche, climatiche e igieniche della regione, agli italiani veniva proibita l’emigrazione diretta al porto di Vitoria, fino a nuovi ordini. Il divieto fu sospeso quando le province dell’impero divennero stati della repubblica. Ma rimase il sospetto che le mete nel sudest del paese non erano come quelle nel sud, dove un clima gradevole o addirittura freddo come a Santa Catarina favoriva l’ambientamento dei coloni nel loro nuovo mondo. E ancora per qualche tempo, comunque, non tutto il Brasile sarebbe apparso allo stesso modo attraente agli occhi dei coloni.
Se almeno agli inizi è stata una vicenda controversa, l’insediamento nell’Espirito Santo si è trasformato, in seguito, in tutt’altra storia. Nell’arco di vent’anni, dal 1875 fino al 1895, gli immigranti italiani scesi nel porto di Vitoria sono stati all’incirca 34mila, approssimativamente 8.500 erano veneti. Oggi oltre il sessanta per cento dei tre milioni e mezzo circa di capixabas abitanti dello stato, è d’origine italiana. Che ci raccontano del successo di città nate dalle colonie di italiani, e del valore delle quattro, anche cinque generazioni di lavoratori immigrati cui i discendenti debbono la loro prosperità.

La storia che avete appena letto fu scritta da Elza nell’agosto 2007 per essere poi pubblicata, nel dicembre di quell’anno, nella raccolta Welcome to Venice, il libro a più mani sulle località e le città, un centinaio, che nel mondo portano il nome di Venezia, alcune delle quali, specie in Sud America, legate al Veneto.
A dieci anni dalla sua scomparsa, lo proponiamo ai nostri lettori nella freschezza, attualità ed eleganza ancora intatte come fosse scritto oggi.

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