Facciamo da soli, dal basso

In libreria, per Einaudi, “L’Italia che non ci sta”, viaggio di Francesco Erbani da un capo all’altro di un Paese che cerca di organizzare da sé il proprio futuro.
ROBERTO ELLERO
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L’avevamo lasciato in laguna (Non è triste Venezia, Manni 2018), intento a narrare accidenti e desideri di una città assaltata dal turismo e ammorbata dalla rendita eppure ancora capace di indignarsi e di reagire. Lo ritroviamo (L’Italia che non ci sta, Einaudi, 2019) in giro per un Paese non meno provato, abbastanza compromesso persino nei suoi presupposti idrogeologici, eppure vitale quel tanto che basta per non lasciarsi andare ulteriormente, risucchiato dalle derive moderniste, consumiste e più recentemente neoliberiste. Vitale nelle sue istanze e pratiche dal basso.

Francesco Erbani, firma di Repubblica, è giornalista che non si ferma alle apparenze. Viaggia, osserva, domanda, scava, piacevolmente sorpreso delle resistenze, resilienze, persino “restanze” – capita di leggere – che incontra. Mai troppo compiaciuto, peraltro: sa bene che la volontà e la forza d’animo dei singoli, pur necessarie, spesso non bastano a fermare ed invertire processi degenerativi che vengono da lontano. Merita però raccontarle, quelle storie, si tratti di tutela e conservazione “attiva” del paesaggio e dei beni culturali o del recupero di pratiche e saperi che hanno a che fare con la vivibilità di luoghi abbandonati.


Perché ogni atto di “insubordinazione” alle leggi e tendenze di mercato dominanti disegna, a modo suo, esperienze di vita assai più concrete dei propositi astratti di certa politica. E viaggia negli spazi, il cronista, meglio in certe intercapedini, da un capo all’altro di un’Italia che sa essere diversa nei fatti, inerpicandosi per forza di cose anche nel tempo di quei luoghi: memorie variamente antiche, perché la storia, qui da noi più che altrove, è inevitabilmente cifra dello stesso paesaggio.

Meriterebbero di essere raccontate molte storie di un’Italia che non ci sta, resiste, si dà da fare, e che va sperimentando nuove forme comunitarie, nuovi lavori, nuovi sistemi cooperativi, nuovi modi di abitare, nuove relazioni con il territorio, un nuovo ambientalismo, nuove virtù civiche, reagendo così alla crisi e al riproporsi, nonostante le smentite della storia, di smaglianti modelli economici, di comportamenti individuali e collettivi, di valori ispirati al consumo, se non alla dissipazione.

Oggi che il mondo ha trovato Greta, il mondo dei figli assai più di quello dei padri e dei nonni, fa meno fatica a cogliere il carattere esemplare delle esperienze che Erbani va narrando e catalogando alle voci delle nuove eterodossie, che modificano, in bene e per prima cosa, la vita delle persone che si fanno interpreti di quei cambiamenti e di quelle dissonanze.

E parla di resistenza dei luoghi al dilagare di urbanizzazioni e cementificazioni: qui da noi, in Veneto, due ettari di coltivazioni alla periferia di Treviso mentre avanzano le “villette”. Oppure, a Vicenza, la devastazione “costruttivista” di Borgo Berga, ancora contrastata, e a Roma, zona Casal Bertone, le Officine Zero, antesignane di ciò che sarà chiamato coworking, nei capannoni abbandonati della fu Wagon Lits, l’azienda che assisteva e “curava” i vagoni letto delle ferrovie.

Sempre dalle parti della periferia romana – che assurge spesso agli onori delle cronache per le bravate neo-neofasciste ai danni di rom e migranti, specchio della disintegrazione del vecchio mondo solidale della sinistra – il Borghetto San Carlo, lungo la Cassia, dove la Cooperativa Coraggio coltiva broccoli e ricordi di un antagonismo permanente che viene da lontano: “la terra a chi lavora”, s’intitola quel paragrafo. E su, in alta Italia, a Trezzano sul Naviglio l’esperienza della RiMaflow dove si lavora senza padroni.

Una terrazza in montagna: sembra la pubblicità di qualche rental pseudo alternativo. Invece è un capitolo cruciale nel viaggio di Erbani. Dove si parla di terrazzamenti oggi abbandonati ma amorevolmente accuditi per secoli, per ricavarne nutrimento e per “normare” una natura altrimenti debordante: sui muretti della Costiera amalfitana come in Valtellina o a Valstagna, sull’alta brentana, dove le storie di riposizionamento delle coltivazioni sulle mezze coste si incrociano con i ricordi della Resistenza (i martiri impiccati di Bassano) e magari con i documentari del mitico Giuseppe Taffarel, partigiano di Vittorio Veneto, poi attore e “cinematore”, autore di Fazzoletti di terra (1963) sulla dura vita della montagna, ispirazione neorealista ma volentieri sul crinale di realtà e finzione.

Questo dei terrazzamenti dimenticati e oggi fortunatamente riscoperti, a macchia di leopardo, in giro per l’Italia, diventa tema cruciale quando vengono giù montagne e bombe d’acqua per assenza di “governo” quotidiano del territorio. E s’accompagna ai movimenti demografici: lo spopolamento dei paesini di montagna, speculare – per altro verso – alle “gentrificazioni” dei centri storici, il lavoro che manca spingendo i giovani all’estero ed esperienze di accoglienza/rigenerazione osteggiate sul nascere per ragioni ideologiche (uno per tutti: Mimmo Lucano a Riace).

Quando non ostacola, la politica più che altro sta a guardare, le cronache se ne occupano a babbo morto. Spetta ai cittadini – dove e quando possono – intervenire. Attivamente.

Francesco Erbani

La forza generativa di un bene culturale. Il centralissimo Rione Sanità, a Napoli, resta famoso per Totò e Eduardo, va e viene nelle cronache cittadine per fatti di camorra e di microciminalità. Merita molto di più: per la sua natura “multistrato”, per le bellezze custodite nei suoi meandri (la catacomba intitolata a San Gaudioso), per Don Antonio e i suoi ragazzi, esperienza cooperativa di gestione e valorizzazione culturale all’ombra di una parrocchia. La Paranza, si chiama. E parliamo di centinaia di giovani, ragazze e ragazzi, strappati alla migrazione e alla malavita, orgogliosi di gestire l’eredità culturale di cui la storia ha fatto loro dono, consapevoli della responsabilità anche simbolica di cui si fanno carico.

Analoghe esperienze nel vicino Cilento, in Basilicata, in Calabria, a Catania: orizzontalità laboriose, dal basso appunto, che trovano il modo di affermarsi – tra mille intralci – nei quartieri abbandonati dei centri storici come nelle periferie o fra le montagne.

Tutto il paese è comunità. O perlomeno cerca di diventare o tornare ad essere comunità. L’ultimo capitolo del viaggio di Erbani si spinge in luoghi ancor più dimenticati, fra Abruzzo e Molise, lungo quella Linea Gustav che fu teatro di guerra, resistenza e massacri negli anni della Seconda guerra mondiale, prima che le forze alleate avanzassero decise verso Roma.

E il senso di comunità vive di tante piccole grandi iniziative che modificano la quotidianità, segno tangibile che cambiare è sempre possibile.

Non ci sono lezioni da trarre. O, meglio, ce ne sono talmente tante che unificarle e codificarle risulterebbe cosa improba e forse neppure tanto utile. Una volta di più, la ricerca della possibile sintesi sarebbe materia di una politica seriamente orientata. Se soltanto esistesse.

Ma l’impressione è che l’Italia (che non ci sta) si sia stancata di attendere. Tornando a muoversi in libertà. La libertà di cui è capace, beninteso, perché quella cosa lì nessuno te la donerà mai.

Facciamo da soli, dal basso ultima modifica: 2019-06-25T17:38:18+02:00 da ROBERTO ELLERO
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