Giusto in chiusura degli esami di stato, l’Unesco promuove le colline del Prosecco a patrimonio dell’umanità. È stato un percorso a ostacoli, lungo più di dieci anni: una prima bocciatura aveva infiammato i contrari, forse convincendosi che l’Unesco avrebbe potuto condannare l’eccessiva antropizzazione delle colline e affossare il sogno che viene percepito come il progetto di una élite di produttori e di politici veneti.
Quando ho cominciato a scrivere “Finché c’è Prosecco c’è speranza”, nel 2008, eravamo entrati nella grande crisi ma c’era una produzione che, come la Cina, cresceva a due cifre, ed era il Prosecco. Lo spirito del romanzo era il tema ambientale del rapporto tra monocoltura e gestione del territorio, e il titolo non voleva essere un elogio alla monocultura ma, provocatoriamente, far notare che anche la crisi è un’opportunità se non sei marginale per risorse e strategie. E tutto si potrà dire dei “proseccari”, tranne che non abbiano strategie e risorse.
La filiera del Prosecco non è un insieme di semplici vignaioli, ma è formata, nei suoi punti nodali, da aziende di alto livello e di trasformatori con una solida forza imprenditoriale (quelli che dirigono l’orchestra). Gli ettari di Prosecco nell’area D.O.C.G. sono cresciuti, in quarant’anni, del 600% circa, arrivando a oltre 7.500 ettari. Supera di qualche centinaio di ettari l’area D.O.C.G. del Chianti classico (mi si perdoneranno gli arrotondamenti). Ma l’areale del Prosecco D.O.C.G. è assai più concentrato e maggiormente monoculturale. La coltivazione impatta maggiormente sulla struttura ecosistemica e, allo stesso tempo, la tipicizza fortemente.
E in questi quarant’anni, la comunità di interessi del Prosecco è cresciuta economicamente, ha superato le visioni dei fondatori del dopoguerra, ha utilizzato sempre più competenze scientifiche (la scuola di enologia di Conegliano, la facoltà di Agraria di Padova) e tecniche, ha determinato carriere politiche, ha eletto sindaci, ha messo uomini in ruoli chiave. È quello che fa un settore che ha le idee chiare – e questo va analizzato e riconosciuto.

Vince una prima battaglia sul nome del vino, stiracchiando la storiella del vitigno Glera e sostenendo che Prosecco è un nome “d’ingegno” e in quanto tale non utilizzabile dalla concorrenza (nessuno nel mondo può più usare, come si faceva, la denominazione Prosecco se non nei precisi areali italiani). La filiera si dota di un marketing promozionale vivace e incontra un mercato dal consumo veloce, facile, d’intrattenimento. È un prodotto che corrisponde alla fase che stiamo vivendo: bollicine (Coca Cola è peggio!).
Così l’ambizione, legittima, di ottenere un altro riconoscimento si fa strada: l’insieme di natura e attività antropiche, intrecciate in un connubio inestricabile, può aspirare a essere riconosciuto come un patrimonio per l’umanità. Ci lavorano istituzioni, produttori, schiere di consulenti: insomma la filiera si compatta attorno a un obiettivo che considera alto e simbolico. E ci riesce. Credo che fosse inevitabile. La forza concentrata ha sempre alte probabilità di successo.
C’è anche chi ha subito gridato: Unesco fuffa, Prosecco fuffa, “proseccari” inquinatori.
Una riga e finisce qui. Sarebbe stato più coerente, qualche riga in più: tutte le produzioni agroalimentari industriali non sono sostenibili, contengono inquinanti che gravano sulla qualità della salute umana e sulla salubrità dell’ambiente.
Tre righe che, tra l’altro, contengono anche la prima.
Prendiamola per quello che è la bollinatura dell’Unesco: non salva Venezia, né le Dolomiti, non renderà più dorate le colline del Prosecco. Dice che sono luoghi speciali (e le colline del Prosecco e l’asolano sono un incanto); dice che dovremmo averne gran cura. Ma l’Unesco non può difendere i nostri territori, è nostro compito. È poco più del critico letterario che crede di aver trovato un bel pezzo e lo consiglia ai lettori.
Certo, altro sarebbe stato se l’Unesco avesse proposto come patrimonio dell’umanità le stalle industriali delle nostre pianure, luoghi di sofferenza e tortura; o le distese di mais che affogano i nostri paesetti; o l’intera rete idrica del Veneto Orientale, ridotta a fango stagnante. Molti hanno reagito come se l’Unesco avesse fatto proprio questo: porcilaie adottate dalla specie umana come esempi di civiltà.

Le colline del Prosecco non sono un esempio di idilliaca sostenibilità: pesticidi e fitofarmaci non sono barzellette, i processi erosivi sono presenti, la biodiversità riceve colpi. Ma è anche la diffusa condizione di quello che dicevo prima, l’agroalimentare industriale. Tutti tranquilli, allora? Voglio ricordare un piccolo, personale, episodio.
L’anno scorso intendevo, con la famiglia, mangiare in un ristorante tra le colline del Prosecco. Attraverso il viale d’entrata tra i filari di viti, scendo dalla macchina e sento, fortissimo, l’odore dei fitofarmaci. Me ne sono andato. Ma il gran numero di macchine racconta che il mio è stato un comportamento minoritario, che respirare quell’odore viene accettato con una certa sopportazione o comunque vale di più cenare.
Ecco il punto: da un lato hai un ristoratore che non chiude il locale nelle giornate dei trattamenti e dall’altro i clienti che lo considerano un male minore. Forse trascurabile. Profitto sempre e indifferenza (o sottostima). Quello che manca, particolarmente, in questo paese, è un senso dell’abitare, affogato nella commistione storica di produzione e abitazione, tipica di un paese a forte demografia e poco territorio “utile”. Così alterare, sino a depredare, l’ambiente non è percepito come un danno profondo per tutti, ma un’inevitabile azione per allargare la radura in cui si abita, disboscando senza sosta e rischiando, come oggi, di incendiare quel che resta della foresta.
Questo spiega, certo non giustifica, la modesta coscienza ambientalista in Italia, l’esistenza di fragili partiti ambientalisti, di movimenti che scaturiscono attorno a un problema locale, spesso non collegati tra loro, e altrettanto spesso vissuti da chi non coglie il problema come dei puri guastafeste. È un paese in cui la maggior parte dei delitti sono ambientali e i criminali ambientali sono i nostri stessi vicini di casa, quando non noi stessi. Per questo mi viene da pensare che la promozione dell’Unesco possa essere un’opportunità.
Sfruttando l’energia altrui, come nelle discipline di combattimento orientale, bisognerebbe cogliere questa promozione non come un premio in denaro, ma come un’assunzione di responsabilità e dare gran fiato alla necessità di essere più stringenti, di lavorare di più per la sostenibilità, di essere un esempio di fronte allo sguardo collettivo. Fare leva su quello che appare un punto di arrivo (e sicuramente un’occasione per allargare le entrate) per farlo diventare una tappa di un processo di miglioramento.
L’ambiente non è una cartolina, ma un luogo di conflitti e continui cambiamenti. Fare politica ambientale non è piangere e rivendicare poesie, ma ridurre danni, proteggere al meglio, costruire nel tempo conoscenza e coscienza. Ci vuole una nuova generazione di abitanti del pianeta, che lo senta proprio. E ci vorrebbe un’Unesco che ponga la Terra tutta come patrimonio dei viventi e non solo dell’umanità.
È un processo. Ma non demordiamo e, nel frattempo, ricordiamoci che i cittadini (che si oppongono all’uso massiccio di fitofarmaci e pesticidi) hanno fatto circolare concetti come sostenibilità e rispetto ambientale (con cui tutta la filiera sta facendo i conti), che c’è del buon Prosecco biologico, che ci sono produttori che cercano di trattare al minimo le viti con i fitofarmaci e che, anzi, ci sono vignaioli indipendenti, tra le colline del Prosecco, che da soli meriterebbero la promozione dell’Unesco.


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