Robert Schonfeld. La vista d’un cieco

Quando fotografo m’aiuta la mia visione periferica, grazie alla considerevole educazione ed esperienza visuali che ho via via accumulato e immagazzinato nel mio cervello; e che mi consentono di arguire come l’immagine potrebbe presentarsi alla mia visione centrale. A quel punto faccio click.
JOANN LOCKTOV
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Seeing_While_Blind” – La vista d’un cieco – è il nome del tuo profilo Instagram. Puoi spiegare la tua disabilità visiva e come influenza la tua fotografia?
Non ho più la visione centrale. Conseguenza della distrofia maculare di Stargardt. Se metti i due pugni delle mani davanti agli occhi a una distanza di due, tre centimetri, puoi farti un’idea: non posso muoverli, né guardare intorno. Per sempre. Negli anni è degenerata; era come se un gruppo di amebe opache nuotasse intorno al mio campo visivo. Alla fine si sono compattate in una sola massa e così è rimasta, quindi grazie a Dio esiste l’autofocus.

Ho una mia visione periferica. Quando fotografo mi è d’aiuto, grazie alla considerevole educazione ed esperienza visive che ho via via accumulato e immagazzinato nel mio cervello; e che mi consentono di arguire come l’immagine potrebbe presentarsi alla mia visione centrale. A quel punto faccio click. Tutto ciò accade molto più velocemente della normale velocità di 1/250 di secondo. Grazie all’editing digitale e a un monitor di 32 pollici sono in grado di osservare l’immagine un pezzetto alla volta fino a quando non mi è chiaro cosa ha visto l’obiettivo della macchina fotografica. Più frequentemente di quanto non si creda mi è capitato di sorprendermi ed esclamare: “Ma guarda un po’ qui!”.

Bisogna comprendere una cosa fondamentale: la gran parte delle persone non vedenti vede qualcosa. Uso “Seeing_While_Blind” e #photographywhileblind su Instagram come messaggio per dire che non mollo e che se qualcuno si trova davanti a una sfida simile nella vita dovrebbe fare lo stesso. Allo stesso tempo, non presento il mio lavoro fotografico come opera di una persona disabile. Voglio che sia recepito e giudicato come quello di qualunque altro fotografo. Se non altro le mie foto non fanno che migliorare.

Fai fotografie da oltre cinquant’anni. Qual è stato il momento catartico in cui hai capito che la fotografia non avrebbe avuto una fine per te?
Il prossimo anno compirò sessant’anni di fotografia. Tutto inizia con una Brownie Hawkeye, poi non si sa quante di Nikon F, per arrivare a oggi, una favolosa Sony delle serie 6000 con obiettivo Leitz. Se c’è stato un momento “Aha”, il momento catartico, fu proprio all’inizio, l’attimo in cui scoprii che potevo nascondere la mia timidezza stando di fronte al mondo intero dietro l’obiettivo. È il momento in cui costruisco le fondamenta della fiducia in me stesso, dell’autostima, ed è l’età in cui muovo i primi passi nell’adolescenza. Era una fiducia in me stesso basata sulla certezza che io vedevo. È andata crescendo col passare del tempo, e mi è stata di sostegno nei momenti in cui sono stato messo alla prova.

Fare fotografie è il mio mestiere. Non sono un filosofo. Non c’è alcun pensiero profondo. Ho cominciato come fotoreporter e ancora ho un gran bisogno di scattare quando la vita mi passa davanti. Per forza di cose capita che un buio grigiastro s’infili nelle mie fotografie ogni tanto, pazienza.

Come scrittrice trovo pressoché impossibile editare il mio stesso lavoro. Tu, invece, hai scoperto piuttosto presto le tue abilità nel farlo. Cosa comporta il processo di editing delle tue immagini? E come questa capacità contribuisce al tuo lavoro come curatore visuale?
Quando scrivo, JoAnn, posso dire di essere come te, eppure, per ragioni a me incomprensibili, non è lo stesso con le immagini. Ho cominciato a lavorare come fotografo, di sport e fotoreporter, che avevo quindici anni. All’epoca già leggevo da diversi anni Sports Illustrated. C’era sempre una fotografia magnifica di una qualche partita. Una lezione fondamentale di editing: scegli un’immagine sola, l’unica: quella buona. Capii cosa volevano da me i giornali locali: volevano che dessi loro un’unica foto: quella buona. Ed è quel che ho fatto da allora.

Un buon editing comporta che una sequenza sia raccontata come una bella storia. Appena ebbi il mio primo proiettore Kodak, cominciai a organizzare le diapositive in sequenza di slide, in modo tale che raccontassero la storia di un viaggio. Se il racconto sbandava, vacillava pure l’attenzione del pubblico.

All’università il mio percorso prosegue. Scattando fotografie alle ragazze degli amici. Non offrire una scelta, mostra sempre e solo la cosa migliore. E quando comincio a lavorare come professionista, quell’imperativo diventa il mio vangelo.

Quando inizio la carriera nel mondo dell’arte, a trent’anni, ho alle spalle 18 anni d’intensa pratica visuale. Quello che faccio è semplicemente trasferire tutta quell’esperienza di fotografo nell’esame delle opere d’arte. Quando arriva il momento di andare in pensione, parecchi decenni dopo, scegliere e installare opere d’arte – organizzarle – in case private, come in gallerie o musei, mi rendo conto che è proprio quella la parte del lavoro che più mi piace.

La fotografia scelta per Dream of Venice in Black and White è uno specifico e toccante riferimento alla Venezia che sta scomparendo. Puoi raccontare le circostanze che ti hanno portato a fare quella fotografia e come ha contribuito a far sì che l’occhio della mente rimanesse a fuoco?
Era una domenica. Mia moglie Mazal e io avevamo pranzato in uno dei nostri posti preferiti di Cannaregio Seguendo l’istinto ci eravamo allontanati dalla Strada Nova ritrovandoci di fronte alla Madonna dell’Orto proprio mentre terminava la messa: nel campo piccoli gruppi s’erano soffermati in chiacchiere, come succede dovunque dopo la messa. Noi restammo in disparte, non era nostra intenzione intrometterci. Notai una coppia; sembravano simpatici, in senso fotogenico. Fortuna volle che s’avviassero verso est sulle fondamenta, la direzione più bella per le fotografie.

Il mio rullino grezzo mostra la coppia nel campo, che poi s’allontana per ritrovarsi infine in una perfetta, rilassata composizione. È l’immagine che vedi tu, anche se l’ho leggermente tagliata, di modo che la diagonale della pavimentazione si combina perfettamente con l’angolo della cornice, punto perfetto che indirizza la visuale verso la coppia.

Non ci vuole chissà quale abilità nel fotografare le persone di schiena che camminano lungo i canali di Venezia. La sfida è andare al di sopra del cliché, ed è la composizione, la seconda sfida, più difficile, è riuscire a dire qualcosa sulla vita. Sarò grato a questa coppia per sempre per avermelo reso così semplice.

Nei tuoi viaggi sei stato in oltre cinquanta località del Mediterraneo eppure sembra che tu sia particolarmente affezionato a Venezia. Puoi dirci della tua relazione con questa città come luogo che ispira il tuo essere fotografo e visualista?
Credo di aver fatto almeno 250 viaggi solo in Italia. La mia famiglia aveva una piccola proprietà in Toscana, vicino Lucca. Ci ho passato le vacanze e tutte le volte che ho potuto sono andato là, per anni. A quei tempi avevamo amici veneziani che ci venivano a trovare. Venezia sembrava lontana e per questo metteva persino soggezione. L’opposto della Toscana, che c’era così familiare.

E alla fine ci andammo, con la famiglia, più o meno alla fine degli anni Sessanta. Pernottammo in un albergo modesto, accanto alla casa di amici. Posto impeccabile. Ci siamo tornati proprio qualche anno fa ed era identico.

La prima impressione che ebbi di San Marco, arrivando da sotto il porticato occidentale, fu il suono, il rumore di uno spazio aperto e grande. E solo poi la vidi. Ricordo che pensai a un set perfetto per un film di Hitchcock, che subito sarebbe apparsa una splendida donna bionda e una trama a seguire. Questo luogo incredibile poteva essere solo parte di un film, non poteva essere reale.

Quando ci sono tornato, anni dopo, con mia moglie, abbiamo proseguito a viverla come un set cinematografico, il fondale teatrale di una storia d’amore, momenti di puro piacere. Le mie immagini seguivano la stessa logica come il 99 per cento delle immagini di Venezia che si vedono oggi su Internet. Istantanee di viaggio.

Poi, più o meno quindici anni fa, iniziammo ad alloggiare in un appartamento messoci a disposizione da amici veneziani. All’inizio ci stemmo per parecchie settimane di seguito. I nostri amici ci presentarono i loro amici. Improvvisamente Venezia divenne una città reale. Era come se la realtà si fosse nascosta in pieno giorno, in una dimensione parallela, sovrastata dalla sua stessa bellezza vertiginosa e anche dalla folla in movimento da un’attrazione all’altra. I veneziani vivono in un cofanetto di gioielli creato da loro stessi e ci riescono davvero. La sfida per me come fotografo non è vedere oltre l’ambientazione, ma vederla insieme alla vita che l’avvolge.



Robert Schonfeld
Dream of Venice in Black and White
JoAnn Locktov
Manuela Cattaneo della Volta (translation)

Robert Schonfeld. La vista d’un cieco ultima modifica: 2019-07-15T17:56:35+02:00 da JOANN LOCKTOV
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