Ue-Mercosur. Libero scambio, anche di CO2?

Il recente accordo di libero scambio con il Mercosur mette in luce i limiti e le opportunità per l’ambiente che la politica commerciale europea porta con sé
MATTEO ANGELI
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[STRASBURGO]

Con Stati Uniti e Cina sempre più invischiati in una guerra commerciale che danneggia l’economia globale, l’Unione europea ha rispolverato il mantello di paladina del libero scambio, annunciando a fine giugno lo storico accordo con i paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay).

L’intesa, che arriva dopo ben vent’anni di negoziati, porterà a un abbattimento significativo delle barriere doganali tra i due blocchi e, almeno da parte europea, è anche conseguenza dello stallo delle trattative per la liberalizzazione degli scambi con l’America di Trump e della corrispondente necessità di trovare nuovi partner commerciali.

L’accordo dovrebbe consentire ai paesi del Mercosur di esportare maggiori quantità della loro produzione agricola in Europa, mentre, in cambio, gli imprenditori europei otterranno nuovi sbocchi per auto, prodotti chimici, macchinari, vino e formaggi.

Carne di manzo in cambio di automobili”, così hanno stigmatizzato i termini dell’intesa gli ambientalisti che si oppongono a essa.

Questo accordo è una doppia maledizione per il pianeta: esaspera la deforestazione e incoraggia la produzione di auto grandi e inquinanti

ha denunciato ad esempio Perrine Fournier di Fern, ong con base a Bruxelles che lotta contro la deforestazione.

Il ragionamento di fondo è che la liberalizzazione degli scambi comporterà un’espansione dell’allevamento dei bovini in Brasile, pratica che a detta di molti esperti è largamente responsabile della deforestazione dell’Amazzonia. Sempre secondo Fern, l’allevamento di bovini è la causa di ben l’ottanta per cento dell’abbattimento della foresta amazzonica.

La deforestazione della foresta Amazzonica (Fonte: Wikipedia)

Le conseguenze in termini di riscaldamento globale sono pari, se non peggiori, all’impiego dei combustibili fossili.

Da un lato, infatti, l’Amazzonia è la più grande foresta pluviale del mondo, e, in quanto tale, svolge un ruolo cruciale nell’assorbimento delle emissioni di anidride carbonica e quindi nell’evitare l’aumento della temperatura globale.

Dall’altro, la pratica della deforestazione è una delle maggiori fonti di gas serra, seconda solo al settore energetico: la CO2 stoccata dagli alberi e dalle piante viene rilasciata durante il taglio e l’abbruciamento, ossido di azoto e metano vengono rilasciati quando le aree deforestate sono convertite a uso agricolo. Il tutto contribuisce al 25 per cento delle emissioni a livello globale.

Secondo gli esperti, una giornata di deforestazione rilascia nell’atmosfera l’equivalente di otto milioni di persone che volano da Londra a New York.

Le preoccupazioni sono aumentate dopo l’insediamento del nuovo presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, che è stato eletto con la promessa di aprire all’attività commerciale parte delle zone protette della foresta amazzonica. 

Questo accordo avalla la strategia di Bolsonaro… È un’intesa nell’interesse dell’industria automobilistica tedesca e dell’industria della carne brasiliana

ha affermato Yannick Jadot, leader dei verdi francesi.

Tuttavia, non sarà possibile quantificare l’impatto dell’accordo sulla deforestazione dell’Amazzonia finché il testo finale non sarà pubblicato.

I leader europei hanno difeso la bozza d’intesa, sostenendo che le tariffe verranno meno solo se il Brasile rispetterà i contenuti dell’accordo di Parigi sul clima, che Bolsonaro, in passato, aveva minacciato di voler abbandonare. Più nel dettaglio, la bozza di accordo tra Ue e Mercosur contiene un capitolo dedicato allo sviluppo sostenibile, presente anche in altri accordi di libero scambio stipulati recentemente dall’Unione, come quello con il Giappone e quello con il Messico, e che si inserisce quindi in una sorta di politica commerciale “illuminata”, che ha l’ambizione e l’obiettivo di evitare che l’aumento degli scambi comporti un abbassamento degli standard ambientali o delle condizioni di lavoro.

Nel capitolo sullo sviluppo sostenibile c’è infatti scritto nero su bianco che

le parti dell’accordo si impegnano a non abbassare i regolamenti ambientali o le condizioni di lavoro per attirare maggiori investimenti e scambi.

In uno specifico articolo dedicato al cambiamento climatico, Brasile e Ue si vincolano inoltre a implementare effettivamente l’Accordo di Parigi e a cooperare per ridurre le emissioni.

È menzionata la deforestazione, con attenzione anche alle azioni del settore privato, che deve fare la sua parte impegnandosi, ad esempio, a non praticare l’allevamento degli animali da carne nelle zone interessate.

L’inghippo è che il capitolo sullo sviluppo sostenibile è soggetto a una procedura di risoluzione delle dispute speciale, differente da quella che regola il resto dell’accordo, che prevede consultazioni a livello governativo e, extrema ratio, l’intervento di un panel di esperti responsabile di fare delle raccomandazioni e, nel peggiore dei casi, di renderle pubbliche.

In altre parole, in caso di non rispetto delle clausole ambientali, il prezzo che il Brasile si troverà a pagare non sarà il ritorno dei dazi ma, al massimo, la pubblica umiliazione.

Troppo poco? È sicuramente quello che pensano i Verdi europei, con Philippe Lamberts, co-leader in Parlamento europeo, che ha definito le clausole ambientali “una barzelletta” là dove mancano vere sanzioni.

Cecilia Malmström, commissaria europea al commercio

Una mancanza di ambizione che si può cogliere anche nelle parole della commissaria europea al commercio, Cecilia Malmström, che parlando dell’accordo con il Mercosur ha affermato:

Un accordo commerciale non può trovare soluzione a tutte le miserie del mondo. Ma può fornire un contesto per discutere tali questioni.

Per molti, il passo decisivo sarebbe l’impegno da parte delle compagnie europee a non acquistare carne proveniente dai territori oggetto di deforestazione. Un gesto che ricalcherebbe quanto fatto con la moratoria sulla coltivazione della soia negli stati dell’Amazzonia brasiliana, un’iniziativa che ha avuto un grande successo, e che garantisce a produttori e rivenditori un approvvigionamento di soia che non contribuisce alla deforestazione della foresta pluviale brasiliana.

Come ha ben notato nel suo discorso programmatico davanti al Parlamento la nuova presidente della Commissione Ursula von der Leyen, gli sforzi dell’Unione europea in materia di cambiamento climatico devono andare al di là dei nostri confini. Altrimenti, il rischio è di ritrovarsi con un’Europa pulita in un mondo sporco.

Gli accordi commerciali in questo senso costituiscono un importante strumento per esportare la politica ambientale dell’Unione. Ma non basta. Servono misure con più mordente.

Come ha riconosciuto anche von der Leyen, ripetendo un concetto sul quale i capi di stati europei, Emmanuel Macron in testa, da tempo insistono, serve una carbon tax, una tassa sulle emissioni di anidride carbonica, ai confini dell’Unione, non solo per proteggere le nostre imprese dalla concorrenza di quelle straniere, che fanno fronte a obblighi meno rigidi in materia di emissioni, ma anche soprattutto per spingere le altre economie mondiali a fare propria l’agenda climatica, cosa per il momento avvenuta troppo lentamente e flebilmente.

Ursula von der Leyen, la neo presidente della Commissione europea

Particolarmente interessanti sono le proposte mirate a informare i consumatori e a promuovere tra questi comportamenti più responsabili, per permettere loro, riprendendo la definizione del compianto Alexander Langer, di usare quel “piccolo potere che può restituire dignità”.

In questo senso, un interessante documento dell’Istituto per la politica ambientale europea sulla strategia che l’Europa dovrebbe adottare nei prossimi anni per lottare contro il cambiamento climatico mette l’accento sulle “etichette ambientali”, contenenti una precisazione sulla carbon footprint, l’impronta di carbonio dei prodotti, cioè la quantità di emissioni di gas serra generate lungo il loro ciclo di vita, dalla produzione allo smaltimento finale.

Una misura che il governo danese ha già pianificato di adottare, inserendola nella sua strategia per diventare carbon neutral, ovvero non impattante verso il clima, entro il 2050.

Quella per l’introduzione di un “carbon label” è una battaglia importante, ancora di più se si tiene conto che tra il 19 per cento e il 29 per cento delle emissioni globali di gas serra derivano dalla produzione alimentare, con la carne bovina e ovina in testa.

Ad esempio, una bistecca di carne di bovino di 250 grammi è associata l’emissione di quasi 3,4 chilogrammi di CO2, che equivalgono a quanto emesso da un’automobile medio grande che percorre sedici chilometri. Per fare un confronto, la produzione dello stesso quantitativo di patate causa l’emissione di circa 0,06 chilogrammi di CO2, una quantità ben cinquantasette volte inferiore a quella della bistecca.

Si tratta di un processo che la politica può solo accompagnare, mettendo la gente nelle condizioni di riconoscere l’impatto ambientale e sociale dei prodotti che acquista e consuma.

Il mondo si cambia (anche) a tavola.

Ue-Mercosur. Libero scambio, anche di CO2? ultima modifica: 2019-07-19T11:07:45+02:00 da MATTEO ANGELI
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