La mente inquieta dell’Umanesimo italiano, secondo Massimo Cacciari

L’ultimo lavoro del filosofo veneziano si cimenta con la svolta epocale segnata dal XV secolo e con la sua difficile eredità.
ALESSANDRO CARRERA
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Per molto tempo, e certamente dopo l’unificazione dell’Italia, gli scrittori, i filosofi e gli intellettuali italiani del XV secolo non hanno goduto di una buona reputazione. Al culmine del Risorgimento e subito dopo, quando l’imperativo era di ritrarre la cultura italiana come “una” e protesa verso l’unità geografica e politica a venire, gli intellettuali del Quattrocento sembravano aver mancato il compito di rappresentare la nazione, e la loro reputazione nel Regno appena nato non era molto alta. Nonostante l’opinione favorevole che Hegel aveva espresso a proposito dell’umanesimo italiano nelle sue lezioni sulla storia della filosofia, gli umanisti venivano frettolosamente raggruppati come grammatici, retorici, filologi o genericamente letterati (era un secolo senza poesia, si diceva). Essere classificati in ogni branca del sapere umanistico meno la filosofia certamente non giovava alla loro reputazione in un ambiente idealista in cui la filosofia godeva di una supremazia assoluta.

Una recente rivalutazione della difficile eredità del Quattrocento viene però da La mente inquieta di Massimo Cacciari (Einaudi 2019). Originariamente apparso come introduzione alla splendida antologia Umanisti italiani (a cura di Rafael Ebgi, Einaudi 2016), il saggio introduttivo è stato ora rivisto, ampliato e pubblicato come libro indipendente.

Cacciari non ha avuto timore di ripartire dalle ormai logore diatribe sul Quattrocento iniziate dopo la Seconda guerra mondiale. Contro il giudizio negativo di Oskar Kristeller (il XV secolo italiano non ha prodotto filosofia, nemmeno secondo i criteri più generosi), Eugenio Garin e Cesare Vasoli avevano già lavorato a una seria rivalutazione dell’intero periodo, certamente in nome della continuità storicista, ma anche con un profondo apprezzamento dei contributi originali di un’età che a molti sembrava aver spento tutta la sua forza (e che forza!) nella pittura e nell’architettura, senza lasciare nulla alla speculazione.

Questa disputa non è forse sepolta ora sotto il peso della storiografia filosofica? Intendendo mostrare che non è così, Cacciari si schiera dalla parte di Garin e Vasoli, non certo in nome di uno storicismo ritrovato, ma piuttosto per chiarire che l’umanesimo secolo non è in attesa di essere rivalutato, perché la sua importanza non può nemmeno essere messa in discussione. Non per tornare a un generico Humanismus  di stampo germanico, né per riattivare la vecchia controversia tra l’umanesimo di Sartre e la critica apparentemente definitiva di  Heidegger (una controversia che del resto precede il disaccordo Kristeller-Garin-Vasoli), ma perché tutta quella grammatica e retorica che teneva occupati i literati di quel lontano secolo aveva lo scopo di dare le basi ad una nuova ontologia del linguaggio e allo stesso tempo di evidenziare la necessità che tale ontologia fosse fondata sulla pratica effettiva della filologia e – se possiamo usare un termine più moderno – di una linguistica generale.

Il Trittico del Carro di fieno, Hieronymus Bosch, 1516, Museo del Prado, Madrid

La base di questa nuova ontologia (non importa che non sia mai stata sistematizzata) consisteva nella consapevolezza che il linguaggio è irriducibile a qualsiasi facile teoria intenta a considerarlo un mero strumento al servizio della volontà umana. Cacciari propone quindi di leggere gli umanisti del XV secolo contro la retorica dell’umanesimo, come filosofi del linguaggio non a dispetto delle loro preoccupazioni filologiche ma proprio in forza di esse, e come pensatori che hanno affrontato l’essenza insondabile del linguaggio con la stessa “mente inquieta” di cui parla Seneca (“Mobilis et inquieta homini mens data est”) e forse, aggiungiamo, con lo stesso “inquietum cor nostrum”di Agostino. Spingendo ancora di più il suggerimento, potremmo dire che l’umanesimo filologico è stato il decostruzionismo del XV secolo, e allo stesso tempo è stato molto di più. Da un lato, l’analisi linguistica di Lorenzo Valla ha mostrato come l’ontologia medievale fosse affetta da un’insufficiente comprensione della grammatica (prima di essere un “ente”, ens è una voce verbale, un participio); dall’altro lato, l’opera di Valla ha evidenziato come il linguaggio sia sempre teso verso una verità che è comunque indipendente dalla lingua empirica in cui la verità si incarna. Come lo Spirito, la verità agisce dove vuole, nella lingua e nell’epoca storica che vuole. Solo questa liberazione della verità da un linguaggio privilegiato (che è poi il linguaggio della Rivelazione) ha reso possibile quell’innesto del classicismo sul cristianesimo che è stato il cuore dell’impresa umanistica. 

Tre filosofi, Giorgione, 1506-1508, Kunsthistorisches Museum, Vienna

Si tratta quindi rileggere i classici con occhi nuovi, dal De vulgari eloquentia di Dante (perché tutto inizia con la “svolta linguistica” di Dante) passando per Petrarca e fino a Savonarola, che è il punto di catastrofe dell’intero progetto umanistico. La tesi di Cacciari è infatti questa: nella sua essenza, l’umanesimo è stato una filosofia tragica. Coprire la distanza che separa Atene da Gerusalemme in vista di un rinnovamento cosmico (renovatio) era un compito infinito (letteralmente: che non poteva finire), disperato e con piena consapevolezza della tragedia che affrontava. L’umanesimo voleva essere una filosofia della pace e della concordia. Eppure, già nell’Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, dipinta meno di vent’anni dopo la morte di Dante, la Pace è una figura isolata, languidamente allungata su un divano con un ramoscello d’ulivo in mano e nessuno che le presta attenzione. La pace umanistica era, certo, una filosofia della pace, una teoria piuttosto che un progetto politico, ma una pace filosofica tra il patrimonio classico e il cristianesimo, come anche una pace teologica tra il cattolicesimo romano e lo scisma della chiesa orientale (per non parlare dello scisma occidentale del 1378-1417), era il preludio necessario a qualsiasi efficace politica di pace. O, almeno, questa era la speranza.

Tale speranza fu messa alla prova durante gli anni di Savonarola a Firenze, e fallì. L’abiura di Ficino – dapprima sostenitore del terribile domenicano e poi il suo critico più feroce – ci dà la misura dell’amara delusione vissuta tanto dagli intellettuali quanto dalla gente comune. L’eredità del progetto umanistico venne poi raccolta da Machiavelli, ma non più come filosofia della pace, e il suo coté tragico era ormai in piena vista.

La tragedia dell’umanesimo non emerse però dal fallimento politico-religioso di Firenze; era già all’opera anche prima. L’antropologia filosofica dell’umanesimo era già intrinsecamente tragica – e se non lo era, lo divenne dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453. Niente lo mostra meglio del percorso di Leon Battista Alberti, dal solido ottimismo delle Intercoenales e del De familia fino al resoconto disperato ma lucido delle sorti umane in Momus e Theogenius. L’uomo è incurabilis, e la sua irrequietezza, che è anche la fonte della sua gloria, non può essere sanata. Ciò che di peggio l’uomo può fare dovrà prendere posto accanto al bene che può venire da lui. La contraddizione è tragica ma essenziale, perché non può essere superata, ed è qui che l’antropologia assurge alla filosofia. A parere di Cacciari, l’accusa di antropocentrismo da sempre rivolta contro l’umanesimo italiano, avendo Pico come bersaglio preferito, deve essere non solo ridimensionata, ma respinta del tutto. Se è vero che l’uomo sta al centro della creazione, a metà tra la bestia e l’angelo, allora è anche vero che l’uomo è la creatura costantemente dilaniata, in puro stile dantesco, tra le due nature opposte, senza la possibilità di liberare la tensione interna ed esterna che lo costituisce come tale. L’uomo è “miracoloso”, ma ogni miracolo è a suo modo terrificante; e l’uomo è miracoloso nella sua miseria così come nel suo trionfo.

Gli umanisti del Quattrocento hanno però raggiunto la vetta filosofica nel loro trattamento della fortuna. Cacciari sottolinea come Pico nelle sue Disputationes abbia incluso fortuna all’interno del suo sistema non-sistematico evidenziando entrambi i lati della questione: da un lato, il mondo non è governato da tyche, fatum, casus, fortuna. C’è una mente al lavoro, dopo tutto. D’altra parte, proteggere l’uomo dalla fortuna è semplicemente impossibile. L’aporia di Pico, più o meno la stessa che Alberti aveva sottoposto a un trattamento allegorico nel Momus, allude al passato e si muove verso il futuro – da Dante, cioè, a  Machiavelli.

Non è quindi fuori luogo espandere l’analisi pichiana di Cacciari e tentare di trasformare Fortuna in una categoria di “nichilismo attivo” (terminologia di Nietzsche) che non solo non ha frenato lo slancio dell’Uomo – qualunque cosa l’uomo fosse o non fosse – ma al contrario ha stimolato il Rinascimento italiano tanto quanto la predestinazione avrebbe poi stimolato il capitalismo protestante (e se poi il Rinascimento italiano ha fallito nell’arena politica, non è stato per mancanza di Fortuna; erano in gioco forze planetarie in grado di sopraffare qualsiasi calcolo delle probabilità).

Ancora una volta, dobbiamo cominciare da Dante. In Inferno VII, 70-90, Dante tentò (nella scia di Boezio e Brunetto Latini) di reclutare l’antica forza cieca (fortuna imperatrix mundi) al servizio della Divina Provvidenza. Eppure Virgilio, che pronuncia il discorso in onore di Fortuna, non sembra del tutto convinto, e nemmeno lo sembra Dante. La nozione stessa di Fortuna è ardua da riconciliare con un piano divino. Ma successivamente, non appena la fortuna viene de-teologizzata, la vediamo generare una quantità sorprendente di nichilismo attivo e produttivo, consistente in una seria valutazione della percentuale di caso, rischio, molteplicità e imprevedibilità di cui una società mercantile ha bisogno per prosperare, fallire, riprovare, riuscire o fallire di nuovo, ma meglio. 

Santuario del Sacro Speco, Monastero di San Benedetto Immagine di San Francesco

L’ipotesi di fondo di una filosofia della Fortuna è che l’essenza e il libero arbitrio dell’uomo sono indecisi, oscillanti, tutto e quasi niente allo stesso tempo, e che il mondo non è stato ancora giudicato. Dante aprì la strada facendo in modo che una figura dell’antichità classica lodasse apertamente la fortuna quasi come un’intelligenza angelica in un contesto cristiano certamente problematico. Altri seguirono nei loro termini: Petrarca in De remediis utriusque fortunae (i pro e i contro della buona e dell’avversa fortuna); Boccaccio in Decameron, seconda giornata, dove la fortuna è il filo che fornisce un’apparenza di destino, e soprattutto Alberti, il cui trattamento della fortuna apre la strada alle Disputationes di Pico e, in Machiavelli, all’Asino e al Principe. Nel Theogenius di Alberti, la domanda è: come possiamo difenderci dall’ingiusta, maligna fortuna, quando ci rendiamo conto che siamo dopotutto noi i primi colpevoli delle nostre disgrazie – a causa della nostra inquietudine radicata, mai soddisfatta delle cose presenti e “sempre suspesi a varie espettazioni” (un’anticipazione del Cassio di Shakespeare, “La colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle…”)?

Il legame che collega fortuna e nichilismo attivo-produttivo è più pratico che teoretico. È comunque filosofico, in quanto appartiene alla ragione pratica ed è una questione di etica. Per essere precisi, è un’etica del vuoto che si apre davanti ai nostri passi ogni volta che cerchiamo di mettere in pratica il mondo perfetto della teoria. Perché, “in teoria”, tutto funziona. In pratica, la fortuna gira la ruota, riducendo la teoria a nulla. Eppure la fortuna non è nulla; è presente, viva e attiva ovunque. Essa mostra, tuttavia, il quantum di nulla che è insito in tutte le imprese umane, il ponte che gli sforzi umani non dovranno mai attraversare, a rischio di cadere nell’abisso del nihil assoluto.

L. B. Alberti (attr.) emblema dell’occhio alato con il motto Quid Tum Disegno dal manoscritto di lavoro dell’autore- Firenze, Biblioteca Naz. Centrale

Rendendo visibile il nulla, la fortuna rende il nulla un compagno di strada e un correttivo all’azione umana, che ha successo, quando ce l’ha, proprio incorporando l’imprevedibilità della fortuna insieme al nulla che ne deriva. Se così non fosse (osservazione di Cacciari), perché i Romani, temperati nelle loro dure discipline, avrebbero costruito così tanti templi alla dea Fortuna? Potremmo aggiungere questo: l’aspettativa che noi, semplici esseri umani, si sia in grado di cambiare l’intero tessuto della realtà, è già nichilista. La distruttività inerente all’azione umana non può essere invertita in una produttività onnicomprensiva, che sarebbe solo un altro mito nichilista. È qui che interviene la fortuna. Piuttosto che far fallire il libero arbitrio, la fortuna lo protegge dalla superbia nichilista che gli è connaturata. Perché la fortuna non è il caos; al contrario, dà al caos una forma e forse un destino. È il limite trascendentale dell’azione, la forza impolitica per antonomasia e, soprattutto, un katéchon che tiene a bada la ybris umana.

Nelle pagine introduttive de La mente inquieta, Cacciari osserva che l’umanesimo è sicuramente meno ostentatamente “moderno” e quindi molto più profondo di ciò che oggi passa, soprattutto nel mondo anglosassone, per Italian Theory. Si tratta di una breve battuta finale – non priva di sarcasmo – che merita di essere affrontata altrove. Una nuova riflessione sull’umanesimo, tuttavia, può renderci consapevoli dei molti modi in cui la produzione filosofica nota come Italian Theory potrebbe affrontare i suoi nodi irrisolti, da riassumere – se posso osare dirlo – in una insufficiente distinzione tra potenzialità e virtualità. La natura tragica dell’uomo non è tale da metterlo in stallo stallo quando si tratta di agire. Non è la tragedia che porta all’impotenza. La tragedia è sempre azione, così come l’azione è spesso tragedia. Ciò che porta all’impotenza è la compiacente contemplazione delle infinite potenzialità della potenzialità stessa. Un’avveduta riconsiderazione della virtualità insita nel cuore del reale (non “tutto è possibile” ma “tutto è già qui”, pienamente dispiegato, e va trovato il modo di attivarlo, sempre sapendo che la fortuna – anche Lei è già qui – può rovesciare i nostri piani in qualsiasi momento) è la fine della teoria e l’inizio dell’azione – che sia artistica, etica o politica. In Purgatorio XXX, 115-117, quando Beatrice dice di Dante, “questi fu tal ne la sua vita nova / virtüalmente, ch’ogne abito destro / fatto averebbe in lui mirabil prova”, non sta dicendo che Dante da giovane “aveva del potenziale”, come si direbbe di uno studente che potrebbe fare di meglio se solo si applica. Sta dicendo che le virtù in lui erano già tutte presenti, ma aveva resistito a renderle attuali.

Nell’immagine d’apertura L’allegoria del Buon Governo, di Ambrogio Lorenzetti, 1338-1339, Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena

La mente inquieta dell’Umanesimo italiano, secondo Massimo Cacciari ultima modifica: 2019-07-20T16:13:49+02:00 da ALESSANDRO CARRERA
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