“L’Africa non uccide più. Il percorso di un intero continente per l’abolizione della pena di morte” di Antonio Salvati, con presentazione di Mario Giro e introduzione di Luciano Eusebi, infinito Edizioni, è da poco nelle librerie. Racconta di un’Africa che è cambiata e sta cambiando rapidamente, anche con un impegno diffuso degli Stati del continente lungo un percorso abolizionista della pena capitale. Col consenso dell’autore e dell’editore, pubblichiamo la presentazione di Mario Giro.
La pena di morte, almeno quella giuridica e legalizzata, non fa parte della tradizione africana. Nel periodo precoloniale le sentenze capitali erano una rarità: agli sconfitti o ai criminali si comminavano principalmente sentenze di esilio e i condannati venivano banditi dalla comunità o ridotti in schiavitù. Quasi sempre si trattava di servitù temporanee: il condannato rimaneva servo per un tempo e, anche se il suo stato diventava permanente, non si applicava ai suoi figli e alla sua famiglia. Va detto che essere bandito dal clan o dalla società, esponeva il punito a un serio e reale rischio di morte: non esistevano spazi per i “fuori-etnia” a meno di accettare uno stato di schiavitù presso altri, presso lo straniero.
L’introduzione della pena di morte per via legale entra nel corpus giuridico africano attraverso l’islamizzazione prima e la colonizzazione europea poi. Tali nuovi sistemi giuridici introducono la pena capitale così come allo stesso tempo “mercificano” la schiavitù mediante la Tratta. Fin dal XV° secolo quest’ultima cambiò le consuetudini fissando i termini del servage tradizionale in modo brutale e monetizzando il valore degli schiavi. Si creò così un sistema economico legato alla “schiavitù di possesso”, prima quasi inesistente (i servi appartenevano alla comunità e non venivano comprati e venduti), che si propagò in tutto il continente, iniziando con il commercio degli schiavi da parte di mercanti islamici per finire nel “triangolo” commerciale euro-atlantico. Da quel momento la pena di morte era, tra l’altro, l’unica punizione possibile per uno schiavo fuggitivo.
Come per tutti i continenti anche l’Africa precoloniale, quella degli imperi e dei mansa, fu teatro di guerre di conquista e di espansione. Tuttavia l’introduzione della Tratta alzò brutalmente e repentinamente il livello di violenza generale, in particolare in Africa Occidentale e Orientale. La successiva colonizzazione europea proseguì tale processo, con punte di particolare disumanità nel Congo di re Leopoldo, dove le mutilazioni (con conseguente morte) erano all’ordine del giorno, o durante i 132 anni di colonizzazione dell’Algeria da parte francese. In ogni caso i colonizzatori portarono in Africa i loro sistemi giuridici, inclusa la pena di morte, molto utilizzata in casi di sommosse o rivolte.

In molteplici casi la lotta per l’indipendenza e la decolonizzazione furono periodi altrettanto crudeli, come ad esempio in quello algerino dove la guerra costò un milione di morti. Dopo le indipendenze stati fragili, frontiere artificiali, autoritarismo e corruzione, mancanza di sviluppo e economia di predazione sembrarono le ragioni di un endemico stato di guerra permanente, anche se spesso a bassa intensità. L’Africa fu percepita come terra di instabilità anche nel quadro ingessato del confronto bipolare tra USA e URSS. In particolare il tentativo sovietico di estendere la propria influenza costò ad Etiopia, Angola e Corno d’Africa centinaia di migliaia di vittime, così come il sistema dell’apartheid rodesiano e sudafricano sostenuto dall’Occidente. La pena di morte, anche quella disposta sommariamente contro il nemico, fu superata e sommersa da un flusso continuo di massacri e uccisioni extra-giudiziali a cui non sfuggirono nemmeno leader nazionali. I colpi di stato a ripetizione di quegli anni ne sono un chiaro esempio.
Con la fine della guerra fredda i conflitti si sono inaspriti soprattutto nelle aree occidentali e centrali del continente: guerre come quella del Congo, della Liberia, Sierra Leone, Somalia e Rwanda, o le più recenti in Centrafrica, Sud Sudan o tra Eritrea e Etiopia, hanno causato milioni di vittime. Il genocidio rwandese, compiuto tra l’altro all’arma bianca, rappresenta l’abisso di tali violenza diffuse.
Ha senso dunque parlare dell’abolizione della pena capitale in un continente che paga da decenni un altissimo tributo di sangue alla violenza? Chi conosce l’Africa sa bene che anche i linciaggi sono all’ordine del giorno: che dire dunque della moratoria proposta alle Nazioni Unite e a cui progressivamente gli Stati africani aderiscono?
Credo che ciò abbia senso soprattutto perché è dalle istituzione che deve partire un messaggio sulla violenza in controtendenza. Linciaggi, guerre, conflitti etnici: tutto ciò non rappresenta lo “stato naturale” dell’Africa ma il portato di una storia, nel suo caso particolarmente violenta. Basti pensare alla Tratta, un caso unico nella vicenda umana. Le istituzioni (coloniali e post-coloniali) si sono sempre espresse in maniera feroce con le popolazioni, così come le opposizioni hanno cercato il potere in modo simile. Il valore della vita umana di conseguenza si è abbassato di molto, talvolta considerato addirittura nullo di fronte alle varie forme di avidità di potere. L’Africa non è violenta di per sé ma ha vissuto una storia particolarmente violenta, che oggi pesa. Le istituzioni e gli stati africani di oggi, successori – nel bene e nel male – di questa storia, hanno dunque il dovere di lanciare un messaggio diverso: abolire la pena di morte ridà valore all’antico comandamento “non uccidere!”. Si è troppo ucciso in Africa: l’ora è giunta di una svolta. Abolire la pena di morte sarà un nuovo insegnamento per tutti su tale via da percorrere, lunga ma necessaria.

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