Adriano Olivetti riceve le redini della società fondata dal padre Camillo nel 1938. La sua natura di uomo di cultura che ritiene indispensabile e moralmente necessario mettere alla prova le proprie idee, l’ha spinto ad un ruolo politico attivo. Grazie all’aiuto di un giovane e brillante Franco Ferrarotti che ha assunto il ruolo di “Addetto alla Presidenza per le questioni politiche sociali”, il movimento Comunità si presenta alle elezioni per la terza legislatura nel maggio del 1958.
Alla luce anche dei deludenti risultati di quella campagna elettorale, questa scelta avrà pesanti conseguenze. Infatti, a seguito di contrasti con la famiglia nel settembre dello stesso anno, pur mantenendo la presidenza della società, Olivetti lascia la carica di amministratore delegato. Eppure l’azienda è in ascesa: come ricorda Ferrarotti, uno dei prodotti di punta della Olivetti, la calcolatrice meccanica Divisumma, veniva venduta nel 1954 in tutto il mondo al prezzo di 350.000 lire di allora (equivalenti oggi a quasi seimila euro) pur costando solo il valore del ferro di cui era fatta. Olivetti grazie a quell’approccio concettuale perfezionista di cui si è accennato alla fine della prima parte dell’intervista, aveva costruito un‘azienda multinazionale che non dimenticava le sue radici e le vere ragioni di fare impresa aldilà della solo pura ricerca del profitto. E proprio questo, ci dice Ferrarotti, è inteso da Olivetti come
la sigla riassuntiva della razionalità della gestione e nello stesso tempo dello sforzo collettivo che è tecnico, comunitario e lavorativo.

Senza la guida di Adriano ci si accorge ben presto che non si va da nessuna parte e, già nella primavera del 1959, egli è richiamato a riprendere pienamente il controllo della società che mantiene fino alla morte, avvenuta “l’ultimo giorno di febbraio del 1960”, proprio dopo aver finalizzato l’acquisto della maggioranza delle azioni del più grande produttore americano di macchine da scrivere di allora, la Underwood. Questa acquisizione, senz’altro coraggiosa, senza la sua mente visionaria non viene gestita e la società entra in una crisi di liquidità.
Il tono di voce di Ferrarotti su questo punto si fa sussurrante e più lento quasi a voler sottolineare cosa avrebbe potuto essere e non fu, e commenta come nei successivi decenni l’azienda è smembrata e venduta “pezzo a pezzo con la logica e la tecnica del pizzicagnolo”.
Ferrarotti, a partire dalla collaborazione “nata dal caso” con Adriano Olivetti, ci accompagna in questa seconda parte dell’intervista alla scoperta dei significati di fare impresa in una società dove la ricchezza non è più ridistribuita e la sfida della sostenibilità ambientale diventa sempre più cruciale, concludendo con un ricordo di Aurelio Peccei, il fondatore del Club di Roma e per un periodo amministratore di Olivetti a partire dal 1964.

Adriano Olivetti grazie a questo suo “perfezionismo concettuale” era riuscito, però, a costruire un’azienda di grandissimo successo. Possiamo, allora, dire che le analisi che provengono da studi approfonditi vanno bene per sviluppare un’impresa ma quando si deve entrare in politica, forse bisogna adottarne di altre?
No, vanno bene anche nella vita politica qualora la vita politica non sia nelle mani di una comunicazione come quella di oggi elettronicamente assistita ma che non comunica. Ossia comunica tutto a tutti avendo perso la base comunitaria intesa come comunione, unione.
Però questo tipo di comunicazione sembra amplificare, magnificare le comunità.
Sì, le amplifica e allo stesso tempo le annulla: questo è il punto! La cosa straordinaria della comunicazione di oggi è che è una connessione che garantisce a tutti l’eccesso individuale autoreferenziale verso l’esterno e contemporaneamente non ha nessuna possibilità di coerenza, ossia, usando un verbo da sociologo, di coerire, di formare la comunità. Quindi noi siamo davanti al paradosso di una comunicazione che nel momento in cui sembra comunicare planetariamente a tutti non ha più nulla da dire a nessuno. Non comunica più con nessuno.
Mi permetto di insistere sul fatto che però crea delle comunità virtuali che diventano poi anche reali e che si autoalimentano nei loro convincimenti anche non sostenuti da fatti.
Certo, perché sono basate su una non percezione dei rapporti reali di fatto e su una crescente e dilagante irrazionalità di massa tecnicamente progredita. Oggi, noi siamo di fronte al paradosso di società tecnicamente progredite e umanamente del tutto impoverite.
E qual è, allora, la differenza tra comunicazione come interconnessione di oggi e il discorso comunitario?
La grande differenza è che il discorso comunitario è quello fra esseri umani conviventi su un dato territorio in termini razionali di scambio. Oggi, invece, c’è la realtà virtuale, detta anche realtà aumentata, che per molti giovani è confusa con la realtà “reale”. Siamo di fronte a un processo di deresponsabilizzazione dell’individuo che potrebbe terminare con la dissoluzione dello stesso come essere responsabile perché ormai atomizzato e frantumato. Quando anche questo Papa che vuol dire la sua su tutto, e va bene, dice che non bisogna essere sempre interconnessi dice una cosa che va contro la logica di questo sviluppo.
Contro la logica o contro la prassi?
La logica che diventa anche prassi. Ciò che mi sembra tremendo oggi è che nessuno tra preti, professori, pedagogisti, politici, cioè la classe dirigente in senso lato come la intendo io, sia quella governante sia quella influenzante, si occupa di fare un’analisi delle ricadute del fatto che tutti sono connessi e che parlano quando vogliono su skype ma non fanno gruppo. Dei sociologi non parlo neanche perché il loro silenzio è chiaro dal momento che capiscono pochissimo. Io non dico che è un bene o un male, ma bisogna fare quest’analisi.
È interessante il fatto che nella lista dei componenti della classe dirigente non ci siano gli imprenditori che oggi sono presentati come dei modelli.
Un momento, ma l’imprenditore oggi deve riscoprire e rivalutare certe ragioni della sua legittimità perché non basta più il dividendo per gli azionisti.

Sentendo questa affermazione, però, viene da pensare a Steve Jobs, che diceva che la Apple non pagava dividendi agli azionisti perché mantenere i soldi all’interno dell’azienda era meglio. Sono questi i modelli a cui pensa?
Guardi, grazie al fatto di essere stato spesso ospite nel corso degli anni, a partire dal 1964, del Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences (Centro per gli studi superiori delle scienze sul comportamento) che ha sede a Palo Alto, ho avuto l’opportunità di incontrare Steve Jobs che abitava poco lontano sulle colline, in un villaggio chiamato Los Altos. Ora, siamo di fronte a dei personaggi che dal punto di vista tecnico e applicativo tanto di cappello ma sono modelli del nulla.
Ho anche incontrato Bill Gates di Microsoft che ha fatto una grande fondazione. Sa, per mettersi la coscienza in pace a buon mercato fanno i filantropi, sentendosi vagamente in colpa.
Quindi lei dice che tutte queste operazioni di filantropia sono essenzialmente per mettersi a posto la coscienza? In effetti l’interpretazione che se ne da è quella molto di natura anglosassone del restituire un po’ di quello che si è ricevuto.
Sì, perché non toccano la base giuridica, e lo sa qual è questa? La vera base giuridica è che oggi una grande impresa ha una funzione sociale che come tale deborda, tracima e va oltre la base giuridica privata. Nel momento stesso in cui le grandi imprese multinazionali prendono decisioni pubbliche che incidono sul destino di intere popolazioni sono ancora considerate, a vergogna dei giuristi di oggi, dei domicili privati.

Questo lei e Adriano Olivetti lo avevate capito, già allora?
Vede, Adriano Olivetti univa alla capacità tecnica imprenditoriale l’aver capito che il profitto e quindi l’azienda che nasce e che dà origine al profitto ha una molteplicità di radici che non si riassumono né nel Chief Executive Officer, oggi, né nella massa degli azionisti privati ieri e ancora oggi. È in realtà qualcosa che chiama in causa tutti quelli che le girano attorno, incluso il territorio. Olivetti è scomparso nel momento giusto perché quando è morto gli hanno trovato in tasca un biglietto. Me l’ha raccontato la figlia del secondo matrimonio, Lalla Olivetti. Questo biglietto diceva “chiamate con urgenza Ferrarotti per la questione plurale”.
Cos’era la “questione plurale”?
Era molto semplice. Olivetti aveva accettato una mia vecchia idea su un’inedita concezione della proprietà. Il diritto di proprietà veniva a fondarsi su una base di quadruplice legittimità. Un quarto del potere azionario al Politecnico, in quel caso di Torino per il contributo che da esso proveniva in termini di ricerca scientifica e applicazioni pratiche; un quarto al territorio; un quarto agli operatori, dall’amministratore delegato allo “spazza cessi”; un quarto ai vecchi proprietari come consolazione per evitare inutili spargimenti di sangue. Olivetti ne era entusiasta. In questo modo si evitavano sia le angustie e i limiti della proprietà privata, che diventava privatistica di un bene comune com’è il caso di una grande azienda, sia la pura e semplice giurisdizzazione nazionale, cioè la nazionalizzazione, che significa una statalizzazione di aziende che diventano carrozzoni burocratici per cui viene meno il profitto privato che è un indice importante della razionalità della gestione dell’impresa stessa. Alla fine i passivi delle imprese statali sono in realtà pagati dalla collettività. Veda il caso Alitalia, tanto per citarne uno.
Per quanto riguarda la prima componente di legittimità, anche se non esattamente nei termini da lei proposti, si può dire che sia quella legata a chi genera l’innovazione tecnica?
Sì, ma l’innovazione tecnica è un valore strumentale mentre oggi le società più avanzate hanno scelto l’innovazione tecnica come principio guida del loro orientamento. Questo da solo non porta da nessuna parte perché la tecnica è una perfezione priva di scopo. Non dice da dove veniamo, non dice cosa siamo.

E allora cos’ha d’importante per le aziende?
Ha un grande merito che è quello di aiutare a correggere e controllare l’esattezza delle proprie operazioni interne. Oggi il grande problema, secondo me, è la confusione tra valori strumentali – la tecnica vista com’è – e i valori finali che sono la giustizia, il riconoscimento degli esseri umani come tali e alla fine anche il limite, ossia la morte. Invece le società di oggi, anche le più avanzate, scegliendo come principio guida del loro sviluppo la tecnica non sanno dove andare. Sono disorientate. Sono ansiogene. La gente si muove, corre per correre non per accorrere. Siamo come i viaggiatori di Marco Aurelio che hanno dimenticato lo scopo del viaggio lungo la strada.
Adriano Olivetti aveva accettato la sua questione plurale forse perché il suo destino imprenditoriale era iniziato dal fatto di essere figlio di Camillo Olivetti che era un socialista?
Camillo Olivetti, io non ho potuto incontrarlo, ma ho avuto tutte le confidenze del figlio. Quando ha dato le redini dell’azienda al figlio gli disse: “Te l’affido. Un solo principio: questa azienda non potrà mai licenziare nessuno”. Attenzione però, non inteso come pensano i marxisti solo come la conservazione dell’acquisto della forza lavoro. Qui non solo non si può licenziare nessuno, ma parte del salario deve essere anche una biblioteca nei vari villaggi, devono esserci servizi sociali efficienti perché la fabbrica non vive nel vuoto sociale. La fabbrica è parte, vive e si sviluppa insieme alla comunità.
Come intendere il profitto mi sembra uno dei grandi equivoci di oggi. Lei lo ha definito un indicatore di buona gestione. Cosa intende esattamente?
Bisogna riconoscere che, oggi come oggi, l’idea di profitto, a sinistra e non solo a sinistra, è vilipesa. Il profitto è fondamentale! È il grande scarto positivo tra costo di produzione e prezzo di vendita. Ma che scherziamo! Il problema è come nel caso del valore strumentale della tecnica. Il profitto di per sé non è solo a vantaggio dell’azionista privato che deve essere polverizzato. Il così definito “parco buoi”. E non è neppure a vantaggio dei dirigenti di oggi che si fanno le gratifiche. Il profitto è uno strumento comunitario. Bisogna che il profitto diventi un fatto integrativo e non privatistico. Il grande Joseph Aloïs Schumpeter, nella sua Teoria dello sviluppo economico, scrive che se non c’è profitto non c’è niente. Il profitto è fondamentale. Ma è fondamentale strumentalmente. Non c’è nessun Savonarola che viene a dire di bruciare le automobili! Sono comode, uno si sposta stando seduto. Più comodo di così. Però l’automobile non ti dice dove vai: devi saperlo tu.
Quindi, c’è secondo lei una confusione tra mezzi e fini. I mezzi sono diventati fini.
Non è così semplice. Questo è un discorso addirittura di sapore machiavellico: i fini giustificano i mezzi. No. Si tratta di lucidità intellettuale, concettuale che poi ha un peso sulla prassi molto forte. Ma la destinazione del profitto e, direi anche, la capacità di vederne le radici, da dove nasce, questo è Adriano Olivetti.
Allora mi pare di capire che il pensiero sul profitto di Adriano Olivetti non sia facilmente interpretabile come alcuni commentatori con cui lei è entrato in polemica hanno proposto, come quello di un “padrone illuminato” ma abbia una sua grande attualità oggi dove qualche centinaio di multinazionali hanno nelle loro mani il destino del pianeta.
Le multinazionali oggi non si rendono conto che esercitano un potere strettamente politico. Allo stesso tempo sono al di là di ogni possibilità di controllo e di autocontrollo. Noi rischiamo di dare ragione ad una delle poche, credo, fondate previsioni di Marx, e cioè il famoso cortocircuito fra sovrapproduzione e sottoconsumo. Perché, in fondo, dei tre fattori produttivi, terra, cioè le materie prime, lavoro e capitale, il più comprimibile è il lavoro. E allora io abbasso salario e stipendi per avere più profitti ma poi chi compra? Perché il lavoratore è anche il cittadino, è anche quello che fa la spesa. Ma Marx poi non ha visto, in realtà, in pieno, e non poteva dal suo punto di vista vederlo, perché lui dopotutto era un idealista hegeliano rovesciato, che la soluzione non era in quello che lui chiama la teoria della rottura finale complessiva, in tedesco Zusammenbruchstheorie. Non è quella la soluzione, perché dalla Zusammenbruchstheorie c’è solo il disastro. Il profitto è una sigla riassuntiva della razionalità della gestione e nello stesso tempo dello sforzo collettivo che è tecnico, comunitario e lavorativo e come tale va considerato.

Oltre al lavoro e il capitale lei ha citato l’impatto delle attività produttive sulle risorse della terra. Come può aiutare la chiarezza di un’analisi intellettuale a interpretare quello che sta succedendo oggi con la crisi climatica?
Mi fa piangere quando penso ai poeti dell’età inglese elisabettiana come Coleridge e Wordsworth che, agli albori della rivoluzione industriale, si preoccupavano delle foreste inglesi che venivano bruciate per il carbone. E tutti a dire: ah questi sentimentali! Nel Manifesto del 1848 di Marx e di Engels non si menziona mai la parola Natura perché le risorse naturali erano considerate inesauribili. Oggi sappiamo che non è così e tre secoli dopo dobbiamo riconoscere che questi poeti avevano ragione.

Nel 1964, quattro anni dopo la morte di Adriano Olivetti, fu chiamato come amministratore delegato di Olivetti Aurelio Peccei, che fu fra i fondatori del Club di Roma. Ha avuto modo di conoscerlo?
Sì. Sono contento che lo ricordi alla fine di questa intervista. Aurelio Peccei, intanto, era, rispetto alle mie posizioni, persona di buon senso e non di rotture. Era soprattutto un grande diplomatico. Lo definirei così. Che vedeva le cose giuste da fare. Era fiorito alla corte degli Agnelli, non so poi come. Qualcuno potrebbe dire di me lo stesso rispetto agli Olivetti, però.
Era poi stato chiamato in Olivetti che navigava in acque tempestose e perdeva soldi.
Sì, la Olivetti ha avuto questa crisi di liquidità anche dovuta al fatto che per la Underwood nessuno si è mosso. Adriano Olivetti è morto l’ultimo giorno di febbraio del ’60 andando a Ginevra. Mi aveva telefonato prima di partire. È stata l’ultima telefonata. Una telefonata un po’ ansante come faceva lui. Io ero a Roma. Mi telefona e mi dice: “Parto da Milano e vado a Ginevra”. Io domando: “Come sta?” “Sto bene ho fatto i fanghi a Ischia, all’hotel Isabella di Rizzoli. Sono stato molto bene. Adesso vado a Ginevra. Si tenga pronto che il 7 marzo, quando torno, andiamo insieme ad Harford nel Connecticut dove io ho ormai in mano la maggioranza delle azioni della ditta Underwood. Hanno 18 linee di produzione tutte passive, ne teniamo solo tre e usiamo loro per distribuire i nostri prodotti. Manderò a Harford da Ivrea i dieci migliori ingegneri”. Morto Adriano non si è mosso niente. Anzi lui poi è stato tacciato di imprevidenza. A parte queste malinconie e tornando al mio ricordo di Aurelio Peccei con cui ho parlato un paio di volte e l’ho anche citato una volta, purtroppo non abbiamo potuto proseguire la collaborazione perché poi è morto anche lui prematuramente.
Egli vedeva il grande pericolo di uno sviluppo eccessivo che diventasse, usando un termine medico che gli sentii pronunciare, un inviluppo cancerogeno. Il problema interessante è che lui con il Club di Roma parlava solo dei limiti dello sviluppo. Non si rendeva conto che occorreva ridistribuire i frutti di questo sviluppo laddove aveva raggiunto un grado avanzato. Non so se posso spingermi a tanto, ma ha nociuto a lui il senso stesso della misura che applicava a se stesso nella vita. Cioè mentre Adriano Olivetti e io stesso eravamo un po’ utopisti, profetici e apocalittici, il nostro Aurelio Peccei restava una persona di grande razionalità, e più ancora di grande ragionevolezza. Era un grande diplomatico. Ma, sa, la diplomazia e le buone maniere hanno un limite preciso. A volte per fare la frittata bisogna rompere le uova.
Nella foto d’apertura il Negozio Olivetti, in piazza San Marco, a Venezia, progettato nel 1958 da Carlo Scarpa su incarico di Adriano Olivetti.

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