[TOKYO]
Che fine ha fatto il Giappone? Come ha fatto un paese che sino a una ventina di anni fa era in corsia di sorpasso, da tutti ammirato per il suo popolo umile, educato e onesto, grande innovatore e lavoratore, protagonista di una riscossa economica e sociale senza precedenti nella storia, a diventare sempre meno importante, sempre più “periferico”, sempre meno amato (per usare un eufemismo…), rispettato e considerato a livello internazionale? All’indomani dell’ultima vittoria elettorale della “balena gialla” – che in realtà ha rappresentato una sonora sconfitta politica (la perdita della supermaggioranza, come la chiamano qui, per l’attuale coalizione allontana definitivamente il progetto di riforma costituzionale, cavallo di battaglia dell’attuale premier) – e a un anno dall’arrogante scommessa delle Olimpiadi*, non solo è legittimo ma forse doveroso chiedersi dove sia finito il Giappone, dove lo stia portando l’apparentemente interminabile, noiosa e forse persino un po’ pericolosa, leadership di Shinzo Abe.
Accreditatosi – più all’estero, in realtà, che in patria – come un grande e determinato leader, Shinzo Abe non solo non sta risolvendo le numerose emergenze nazionali (invecchiamento della popolazione, deficit pubblico, progressiva insostenibilità del sistema pensionistico, riforma del sistema fiscale, approviggionamento energetico): sta di fatto isolando sempre di più il Giappone non solo all’interno del continente asiatico (per trovare sinergie strategiche, per quanto labili, Abe ha dovuto corteggiare il leader indiano Modi) ma dell’intera comunità internazionale. Dal quale il Giappone, a livello di “presenza” politica, sembra davvero sparito. Incapace non solo di far sentire la sua più che legittima voce sulle grandi questioni che assillano il pianeta (cambiamenti climatici, emergenza demografica, migrazioni, scambi commerciali) ma anche di risolvere le piccole e grandi questioni “regionali” e bilaterali, come quella, in questi giorni di nuovo esplosa, dei rapporti con la Corea. E non parliamo del Nord, verso il quale il Giappone è rimasto incredibilmente fermo, incapace di elaborare una sua strategia per il “nuovo corso” di Kim Jong Un, ma anzi tentando di sabotare quella portata avanti, tra alti e bassi, dal suo alleato e protettore Trump.

Parliamo dei rapporti con il comune alleato: la Corea del Sud. Paese al quale il Giappone deve la sua “civilizzazione” (è dalla penisola coreana che sono arrivati gli “insegnamenti” cinesi, compresa la lingua scritta) e che ha invece più di una volta invaso e colonizzato, sottoponendo il suo popolo a sanguinose repressioni e umilianti deportazioni. Un passato che non passa, e che continua a pesare nei rapporti tra i due paesi e i due popoli. Negli ultimi giorni sono volate di nuovo parole grosse tra Tokyo e Seoul, con l’attuale, solitamente moderato, ministro degli esteri giapponese Taro Kono che ha insultato in pubblico l’ambasciatore sudcoreano a Tokyo e chiesto – mostrando scarsa sensibilità non solo diplomatica ma anche giuridica – al presidente Moon Jae-in di intervenire personalmente per bloccare l’esecuzione di una sentenza della Corte suprema che riconosce definitivamente il diritto al risarcimento per alcuni cittadini coreani ridotti in schiavitù durante gli anni della occupazione e costretti a lavorare gratis ed in condizioni disumane, per le aziende giapponesi. Una vicenda antica e complessa, che si trascina da anni e che in assenza di una figura come Willy Brandt, il cancelliere tedesco che nel lontano 1970 ebbe il coraggio di inginocchiarsi nel ghetto di Varsavia, dovrebbe e potrebbe trovare risoluzione solo in sede di arbitrato internazionale. E che una persona saggia e intelligente come Taro Kono, figlio tra l’altro di Yohei Kono, uno dei politici più coraggiosi del dopoguerra, autore di una storica, e mai ritrattata formalmente, dichiarazione di assunzione di responsabilità a proposito della infame vicenda delle “schiave del sesso”, la tratta di donne coreane deportate e costrette a “ristorare” i soldati giapponesi al fronte, non avrebbe dovuto affrontare in questo modo. Ma sono in molti a ritenere che l’inusuale aggressività e rigidità di Kono – che ha accettato di fare il ministro degli esteri di un governo di cui non condivide una delle politiche fondamentali, quella energetica (Kono è da sempre contro l’energia nucleare, che invece Abe continua, quanto meno formalmente, a sostenere) – siano in realtà una forma di sontaku, l’atteggiamento di cieco sostegno e assecondamento che gli “ufficiali” giapponesi assumono prima di “tradire” il loro capo. E speriamo sia così: un Giappone guidato da Taro Kono, guadagnerebbe sicuramente in immagine e prestigio, e potrebbe finalmente sperare di riconquistare il posto che gli compete nella comunità internazionale.
Ma per il momento, c’è ancora Shinzo Abe. Sempre più forte, sempre più arrogante. Sempre, secondo alcuni, più pericoloso.

IL FALCO SENZA ARTIGLI
Chi l’avrebbe mai detto: uno dei leader meno popolari e meno “performante” del dopoguerra (nulla di paragonabile ad alcuni suoi recenti predecessori, come Kakuei Tanaka, Yasuhiro Nakasone e soprattutto Junichiro Koizumi) rischia di diventare il premier più longevo della storia parlamentare del paese. Un altro segno che è la mediocrità, oggi, a garantire sopravvivenza e longevità politica. A conti fatti, ben poche delle promesse dell’Abenomics sono state mantenute. Il Giappone, con la sua crescita attestata da anni sullo “zero virgola” non è uscito dalla lunga stagnazione economica, il deficit pubblico continua a essere il più alto del mondo industrializzato (oltre il 230 per cento, il doppio dell’Italia) e la politica ultra-espansiva della Banca centrale non ha prodotto l’effetto desiderato sui consumi. Il che, come dire, ci sta: non bisogna essere dei bocconiani, basta conoscere un tantino i giapponesi – ma penso che il principio possa applicarsi universalmente, eccezion fatta forse per gli Usa – per capire che in assenza di una politica di aumento dei salari, di welfare garantito e di contenimento della spesa pubblica la gente non compra. Risparmia. C’è da dire che nemmeno altre “promesse” di Abe, da molti considerate minacce, sono state mantenute. La riforma costituzionale è sempre più lontana e il ritorno al nucleare si è rivelato un bluff: a sette anni dalla sua promessa di decommissionare Fukushima, far ripartire tutte le altre centrali e costruirne addirittura di nuove non è successo nulla. I tre reattori di Fukushima andati in meltdown sono ancora lì, in attesa che qualcuno capisca come fare a “spegnerli”, dei 54 reattori in funzione prima del 2011 solo nove sono stati, e a singhiozzo, riattivati e nessuna nuova centrale è in costruzione. La percentuale di energia elettrica prodotta dal nucleare – a costi sempre più elevati (il costo di costruzione/manutenzione di un reattore, grazie alle nuove norme imposte dal governo di Naoto Kan, sono triplicati), che nel 2011 era di circa il trenta per cento, oggi è scesa al tre per cento. Solo Abe e i media che controlla non lo dicono: ma che il Giappone esca definitivamente dal nucleare, come da tempo ha deciso la Germania, non è più un’ipotesi o un auspicio. È una certezza. E chissà che non sia proprio il già citato ministro degli esteri Taro Kono, possibile successore (anche se non immediato) di Abe, a dare al mondo la lieta notizia.

MEDIOCRITÀ GARANZIA DI LONGEVITÀ
Nonostante il fallimento delle sue politiche – qualcuno dice invece proprio grazie a questo – Abe è giunto al suo quarto mandato ed è in vista del quinto. Superando non solo suo nonno Nobusuke Kishi (uno dei pochi politici dell’Asse ad essere sopravvissuto politicamente alla guerra, rivestendo cariche governative sia prima che dopo), ma anche suo zio Eisaku Sato, il controverso premier che negli anni Sessanta, prima di ottenere il Premio Nobel per la Pace, era stato colpito da un mandato di cattura per corruzione. Poche ore prima della sua notifica, tuttavia, il procuratore capo che dopo mesi di indagini l’aveva emesso fu raggiunto da una telefonata dell’allora ministro della giustizia, che gli ordinò di stracciarlo. Cosa che lui fece, dimettendosi e ritirandosi a meditare per il resto della vita in un tempio.
Un bell’esempio d’indipendenza della magistratura. Che tuttavia potrebbe succedere – e forse di fatto succede – anche oggi. Solo che oggi non c’è bisogno né di stracciare mandati di cattura, né di “aggiustare” eventuali processi. Grazie al potere discrezionale – che sfocia nell’arbitrarietà assoluta – dei procuratori di esercitare o meno l’azione penale le indagini vengono fermate in fase istruttoria. Archiviare è molto meno mendokusai (problematico, complicato, fastidioso) che portare avanti un’indagine “delicata”. Lo stesso Abe è stato in questi ultimi anni coinvolto in vari scandali, e in almeno un caso c’erano gli estremi per aprire quanto meno un’indagine formale. Ma con la magistratura saldamente legata al potere esecutivo non se n’è fatto nulla. In Giappone la separazione dei poteri è uno dei numerosi principi (come il “famoso” art.9, quello che impedirebbe al Giappone non solo di esercitare il diritto di belligeranza, ma addirittura il possesso di forze armate, di fatto violato dal 1956 e che Abe vorrebbe formalmente modificare con il suo progetto di revisione) solennemente enunciati in una Costituzione scritta e imposta dagli Stati Uniti all’indomani della sconfitta nella guerra, ma di fatto ignorati.
Nella fattispecie, in Giappone non solo non esiste la separazione delle carriere, ma il combinato congiunto tra strapotere della polizia (il “fermo”, fase durante la quale si può essere detenuti in isolamento e interrogati per ore e ore senza la presenza di un difensore, può arrivare a 23+23 giorni, per singolo addebito), discrezionalità dell’azione penale (potere che le procure esercitano di fatto in un regime di assoluta arbitrarietà) e assenza di un organo di autogoverno (nomine, trasferimenti e promozioni vengono gestite direttamente dal ministero della giustizia) hanno prodotto, e continuano a mantenere, un sistema giudiziario a dir poco medievale, come il caso Ghosn, l’ex CEO del gruppo Renault/Nissan/Mitsubishi, detenuto in isolamento preventivo per oltre cento giorni, ha di recente mostrato al mondo.
E non sono certo le uniche lacune di un sistema tutt’altro che impeccabile: a leggere le statistiche ufficiali, infatti, sembrerebbe che la giustizia in Giappone funzioni come un orologio svizzero, con il novanta per cento dei responsabili dei delitti individuati ed il 99,9 per cento dei processi che termina con una condanna. Peccato che “a giudizio” arrivino solo il quindici per cento dei reati denunciati e che il tasso di errore giudiziario sia tra i più alti del mondo industrializzato: oltre il venti per cento. Alcuni di questi casi sono diventati “famosi” in tutto il mondo. Come quello dell’ex pugile Iwao Hakamada, detenuto per 46 anni nel braccio della morte (sì in Giappone c’è ancora – ed è praticata – la pena di morte, quindici esecuzioni del 2018) per poi essere scarcerato. Per non aver commesso il fatto. Potete immaginare in che condizioni sia uscito dal carcere.

IL RITARDO DEL GIAPPONE
Il ritardo – sia esso doloso o solo colposo – con il quale governo e più in generale le istituzioni giapponesi hanno storicamente affrontato le “sfide” che l’evolversi della società di volta in volta pone è noto. Basti pensare alla fine dell’Ottocento, quando ci vollero i cannoni puntati del Commodoro Perry per convincere lo shogun a riaprire il paese, rimasto di fatto segregato per quasi due secoli. Ma oggi siamo arrivati davvero a un livello inaccettabile per un grande paese democratico, come alcuni, pochi per la verità, intellettuali giapponesi denunciano.
Siamo rimasti fermi, immobili, indietro in tutti i campi – sostiene Yuichi Kaido, uno dei più combattivi legali del Giappone, già presidente della Federazione nazionale degli avvocati – dalle tematiche LGBT alle droghe leggere, dalla giustizia penale ai diritti umani, dell’infanzia e più in generale dei deboli e diversi. Viviamo in una società proiettata nel futuro regolata da leggi vecchie e inadeguate, direi medievali.
È vero. Pensate: a differenza di Corea (del Sud), Taiwan e perfino le cattolicissime Filippine, il Giappone non ha ancora una legge che regoli le sempre più diffuse e variegate forme di convivenza more uxorio. Non solo niente matrimoni gay (che Taiwan ha invece riconosciuto da due anni), ma neanche una legge che tuteli le unioni civili. E questo in una società che da sempre è estremamente tollerante nei confronti delle scelte, o anche semplici tendenze, sessuali. Ma questo in privato, pubblicamente il Giappone è più bacchettone, e discriminatorio, dell’Italia. Basti pensare che per ottenere alcuni diritti (eredità, accesso alle case popolari, diritti di visita in ospedali e carceri) le coppie di fatto ricorrono all’adozione, o yoshiengumi.
Il Giappone è uno dei paesi che adotta di più al mondo: ottantamila l’anno. Peccato che nel 95 per cento dei casi si tratti di adozione tra adulti: per garantire un erede maschio (il maggiorasco, proibito dalla legge, è di fatto ancora molto praticato), ed in questo caso si adotta, se c’è, un genero o si ricorre al ricco mercato “on line” dei mukoyoshi, o generi virtuali. Oppure si adotta per essere sicuri che in caso di ricovero il tuo partner possa venirti a trovare ed essere informato sulle tue condizioni, possa ereditare un contratto di locazione, un conto in banca, mantenere la custodia di eventuali figli. Dei quarantamila bambini senza famiglia, o perché non l’hanno mai avuta o perché ne sono stati allontanati, s’occupano, con poche risorse e poco entusiasmo istituzionale (compensato dalla generosità dei volontari, spesso stranieri) piccole e inadeguate strutture. Dove è relativamente facile entrare ma molto difficile, se non impossibile, uscire. Chi ci entra da piccolo ci resta, se è fortunato, fino alla maggiore età (che in Giappone scatta a vent’anni). Dopodiché ha poche opzioni: sopravvivere onestamente in qualche modo nel difficile mondo del precariato o entrare nel variopinto mondo della yakuza, la mafia locale.
Pochi, pochissimi vengono adottati. Poco più di seicento l’anno, dicono le statistiche ufficiali, che includono anche le tokubetsu yoshiengumi, equivalente dei nostri affidamenti. A differenza dell’Italia, dove peraltro alcune tendenze stanno cambiando, il rapporto domanda offerta è ribaltato quasi specularmente: in Italia per ogni minore dichiarato adottabile ci sono sette famiglie disponibili, in Giappone quasi l’inverso.
Le poche coppie che vogliono ancora avere dei figli (sono quasi quindici milioni le coppie senza figli, il tasso di natalità è il più basso del mondo industrializzato, assieme all’Italia, dove però ci sono gli immigrati che alzano la media) li fanno direttamente, a nessuno viene in mente di adottarne uno, men che meno straniero.

ADOZIONI RECORD: MA SOLO ADULTI
L’adozione di minori, in Giappone, non solo è estranea alla cultura della ie, della “famiglia” o “casato”, per quanto umile, di origine, ma è anche mendokusai (complicato, fonte di guai) sia per le incertezze e le lacune legislative: solo di recente, infatti, è stata modificata la legge che consentiva ai genitori biologici di “rivendicare” in qualsiasi momento il minore, anche se dato in affidamento o persino adottato, sia per le discriminazioni sociali (soprattutto a scuola) che i bambini “diversi” – ed essere adottati è una diversità – subiscono non solo dai compagni, ma spesso anche dai docenti. Per non parlare del dramma dei bambini figli di separati/divorziati, sempre più numerosi e senza specifica tutela giuridica. In Giappone il concetto di famiglia “allargata”, e di affidamento congiunto non esiste: l’85 per cento dei figli dei separati perde, di fatto, ogni contatto con il genitore non affidatario. Una realtà drammatica e crudele, che viola il diritto del minore a coltivare relazioni con entrambi i genitori (sancito dalle convenzioni internazionali che pure il Giappone ha firmato e ratificato) e che è emersa a livello internazionale a seguito del sempre maggior numero di casi che coinvolgono genitori stranieri che dopo il divorzio, o la semplice separazione, non riescono più a frequentare i loro figli. Anche in presenza di sentenze, nazionali o internazionali, che ne sanciscono il diritto e ne disciplinano l’esercizio.
Purtroppo qui in Giappone i bambini non sono considerati soggetti autonomi, intestatari di precisi diritti – spiega l’avvocato Akira Ueno, che ha vissuto in prima persona questa situazione e difende molti genitori stranieri (compresi alcuni italiani) cui il coniuge giapponese ha sottratto i figli e si rifiuta di farglieli vedere – da noi è ancora molto diffusa la mentalità in base alla quale non siano altro “oggetti”, di proprietà dei genitori, e che quindi possano essere “usati” a piacimento, anche per portare avanti vendette e ripicche personali.
Con la scusa di tutelare l’interesse supremo del bambino, rappresentato dalla “stabilità” logistica e affettiva (continuare a vivere nello stesso posto e con le stesse persone) le autorità giapponesi, che già hanno un concetto molto particolare della privacy, finiscono per avallare comportamenti illegali che in altri paesi (compreso il nostro) sarebbero penalmente perseguiti e porterebbero alla perdita della custodia. Come il mancato rispetto delle sentenze. O peggio.
Qui i bambini si rapiscono come niente fosse – racconta Tommaso Perina, della cui triste e complicata vicenda si stanno da tempo occupando le nostre autorità diplomatiche, senza peraltro ottenere alcunché – mia moglie un certo giorno ha detto che andava a passare qualche giorno dai suoi, e che avrebbe portato i bambini. Da allora è sparita, rifiuta ogni accordo, e non mi fa più vedere i bambini. Mi sono rivolto al tribunale, ho ottenuto il diritto di visita ma per un motivo o per l’altro lei si rifiuta di ottemperare. In due anni e mezzo ho visto i miei bambini tre volte, per pochi minuti, e sempre al chiuso, in presenza di un assistente sociale.
Non sono nemmeno autorizzato a farmi una selfie con loro,
conclude Tommaso, che di recente, in occasione del G20 svoltosi in Giappone, ha spiegato il suo caso anche al presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che pare ne abbia poi parlato direttamente con Abe. Senza grande successo.
DROGHE LEGGERE: NESSUNO SPIRAGLIO
Il cahier des doleances sarebbe ancora lungo: tralasciando le varie emergenze che il Giappone condivide con altri paesi (discriminazioni e abusi contro le donne, crisi dei valori sociali e culturali, pubblica istruzione sempre più costosa e meno efficace) non possiamo non citare la questione delle droghe leggere. Anche qui, chiusura assoluta. E non solo nei confronti del cosiddetto “uso personale e/o ricreativo”, ma anche di quello terapeutico, oramai riconosciuto nella maggior parte del mondo industrializzato. In Giappone il semplice possesso di pochi milligrammi di marijuana è trattato come un grave crimine: con rinvio a giudizio e condanna garantiti. Sono tremila le condanne emesse per questi tipo di reato, che è il secondo in assoluto, dopo il furto.
Qualcuno ovviamente penserà che sia giusto così, che è questo il modo di affrontare la piaga sociale delle droghe e proteggersi dalla microcriminalità. Peccato che le droghe, quelle pesanti e quelle chimiche, in Giappone circolino eccome e che migliaia di cittadini ne siano regolari consumatori e vittime. Ma il tutto avviene in modo ordinato e organizzato, grazie agli accordi con la yakuza. Libertà di spaccio e di imporre il pizzo, in cambio di tenere le strade pulite ed intervenire al primo segno di violenza.
L’intransigenza che le autorità mostrano nei confronti delle cosiddette droghe leggere non è frutto di una precisa politica di prevenzione – sostiene provocatoriamente Tetsuya Aoyama, un coltivatore di Hokkaido che da anni sfida il sistema nel tentativo di ottenere una regolare concessione per la produzione di cannabis a scopo terapeutico – ma del micidiale mix di ignoranza e pigrizia mentale della nostra classe politica e burocratica.
Forse proprio la liberalizzazione delle droghe leggere potrebbe contribuire a rilanciare l’immagine del nostro paese – continua Aoyama – con le Olimpiadi alle porte e l’invasione di turisti già in corso ne avremmo proprio bisogno.
Chissà. Per ora la creatività delle autorità giapponesi continua a essere molto limitata. L’ultima è quella della “storica” riforma delle scale mobili. Dal 15 luglio è infatti “sconsigliato” (eufemismo locale che precede di alcuni mesi l’imposizione di un vero e proprio divieto) continuare ad avere due file, come da sempre avviene in Giappone. Quella a sinistra, destinata alle persone che restano ferme e quella a destra, riservata alle persone che vanno comunque di fretta, e che spesso provocano piccoli incidenti. A giudicare dalla reazione dei cittadini qui a Tokyo, sarà dura. Il “suggerimento”, per ora, completamento ignorato. Che il Giappone stia diventando un paese normale?

REIWA, LA NUOVA ERA
Di fronte al decadimento della classe politica, alla sua incapacità di far fronte alle nuove sfide, alle nuove emergenze i giapponesi reagiscono con grande umiltà e pazienza. Le manifestazioni di protesta ci sono, ma molto limitate ed episodiche. Nessuna forza politica, di governo o di opposizione, è più in grado di mobilitare “le masse”. E la politica è guardata con sempre più distacco: lo si è visto alle ultime elezioni politiche, per il rinnovo di metà della Camera Alta. Ai seggi si sono presentati meno del trenta per cento degli aventi diritto. La percentuale di votanti è poi salita grazie al voto anticipato, per posta, ma si è comunque attestata sotto il cinquanta per cento, il risultato peggiore dal dopoguerra. Nel frattempo, crescono invece il rispetto e la stima per l’istituzione imperiale, che l’attuale Costituzione – imposta dagli americani – ha privato di ogni potere politico ma che di fatto continua a mantenere unito il popolo giapponese come ha fatto per secoli. Ma questo è un altro discorso, che abbiamo già affrontato in passato e che sicuramente riaffronteremo nei prossimi mesi, in occasione delle solenni – quanto controverse – cerimonie di incoronazione previste il prossimo ottobre.

*Ad un anno esatto dall’inizio dei Giochi, ottenute grazie alle bugie di Abe circa la fine dell’emergenza nucleare a Fukushima, dove sono previste anche alcune gare, la situazione è molto tesa. Anche se il Comitato Organizzatore giapponese ed il CIO fanno di tutto per non far trapelare perplessità e polemiche, sono molte le squadre che si rifiutano di pernottare nella zona e che stanno organizzandosi per pesanti trasferte in giornata. Il tutto sotto l’incubo che un forte terremoto possa provocare nuovi danni e ordine di evacuazione

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!
2 commenti
Bellissimo articolo.
Mai visto un articolo così superficiale, fazioso, che cerca di gettare discredito su un Paese meraviglioso come il Giappone. Gentile sig. Emilia chi conosce e ama quella terra ed il suo Popolo si rende conto di quanto i teoremi che Lei con meticolosità costruisce nel corso di queste povere pagine siano falsi e cerchino di gettare ombre e discredito. Ma se lei odia tanto i Giapponesi che cosa ci sta a fare in Giappone. Perché non se ne torna in Italia di cui avrebbe tanto di cui scrivere e di cui fare paragoni rispetto ad un bel passato ormai andato? Penso che prova della grandezza di quel popolo sia tollerare la presenza di un “giornalista” come Lei sul suo territorio. Torni in Italia. C’è bisogno di censori del suo valore.