Le Banche centrali (Bc) vivono tempi difficili dovendo navigare tra Scilla (la politica) e Cariddi (i mercati finanziari) che chiedono, incuranti delle conseguenze di lungo periodo, il metadone della “moneta facile”. Che resistere sia difficile lo dimostra la recente decisione del presidente della Federal Reserve (Fed) di abbassare di 25 punti base (0,25 per cento) il tasso target sul quale dovrebbero assestarsi nel mercato i federal funds (prestiti a breve nell’interbancario).
Inoltre, la partita che le Bc ora sono chiamate a giocare ha una posta alta pure dal lato istituzionale: perché in palio è la loro, ovviamente mai totale, indipendenza. Il tema è assai delicato in relazione all’equilibrio dei poteri, dunque toccando i valori ad esso sottostanti, nelle democrazie costituzionali.
In questo contesto di rapporti tra Bc, mercati finanziari e autorità politiche opererà Christine Lagarde, già direttore operativo del Fondo monetario internazionale (Fmi), come nuovo presidente della Banca centrale europea (Bce). Lecito chiedersi, pertanto, se ci sarà continuità con l’era Draghi, ormai a fine mandato. Certo le spinte per tassi d’interesse bassi e/o azzerati come per le politiche monetarie non-convenzionali del post 2008 permarranno, attraendo i politici di entrambi i lati dell’Atlantico, anzi, dell’intero globo.
Di più, tali spinte troveranno probabilmente adesione, se si considerano le Bc (così suggerisce la scuola del public choice) come “burocrazie attente al consenso”, pure all’interno delle Bc medesime. La Presidente Lagarde, anche per formazione, qui come si collocherà?
D’altronde, la bassa inflazione (sotto i desiderata delle Bc) nonché le incertezze economiche spingono per continuare con la “moneta facile”.

Non a caso la Bce annuncia ancora politiche espansive come fanno la Fed, la Bank of England e la Bank of Japan, come testimonia l’ampliamento dei loro bilanci (acquisizione di attivi a fronte dei quali, al passivo, sta la creazioni di riserve detenute dagli istituti di credito presso le Bc) a partire dallo shock del 2008. Ma con una specificità per l’Eurotower che ha dovuto agire in presenza di una particolare condizionalità: evitare il collasso dell’Eurozona. La qualcosa dà una particolare caratura alla presidenza Draghi che, agendo in stato d’eccezione, ha interpretato in senso innovativo, forse al limite, la “filosofia monetaria” di Maastricht.
Se, dunque, l’eredità di Draghi è di avere salvato l’euro mostrando come la sola parola (“faro tutto il necessario”) di un banchiere centrale, in quanto credibile, abbia evitato che la sfiducia dei mercati abbattesse l’Eurozona (o quantomeno, riuscendo, pure con ulteriori decisioni conseguenti, di allungarne la vita), ora la sfida per il presidente Lagarde sarà di valutare se tale particolare emergenza sia finita o se permanga, rendendo l’Eurozona particolare rispetto alle altre aree monetarie.
Da un lato, difatti, Christine Lagarde dovrà considerare come un possibile cambio di rotta della Bce potrebbe incidere sulla fragilità politico-istituzionale dell’euro; e, dall’altro, come banchiere centrale di una delle principali banche centrali del pianeta, considerare il rischio che un’economia che navighi a tassi azzerati (nominali e reali che siano), oltre ad indurre più finanza a rischio che investimenti produttivi, possa deragliare pericolosamente.
Insomma, una bella sfida per Christine Lagarde, la signora che a novembre prenderà il timone dell’Eurotower portando così a circa diciotto le donne finora giunte al vertice delle centosettantasette Bc del pianeta. Il giudizio è positivo, prima che da un punto di vista economico/monetario (difficile immaginare differenze di genere nell’arte del banchiere centrale), soprattutto sotto l’aspetto sociopolitico: nel senso che è bene che ai vertici istituzionali cada ogni possibile assurda preclusione.
L’altra novità, rispetto ai suoi predecessori in Bce (ma il presidente della Fed Powell ha una formazione analoga) è che Christine Lagarde, invece che dalle banche centrali o, comunque, dal mondo delle professioni (sebbene presiedette il cda dello studio legale Baker&Mackenzie) e/o dell’università, entrambi relativamente separati da quello politico, sia all’opposto in contiguità a quest’ultimo. Infatti, prima della guida del Fondo monetario internazionale (Fmi), ebbe in Francia più portafogli ministeriali.
Inciderà questo sull’alea d’indipendenza, peraltro mai senza vincoli, della Bce? Sarà, probabilmente, tra i punti dirimenti nelle valutazioni, specie tedesche, del presidente Lagarde. Conterà, oltre al suo approccio, la rete di alleanze che saprà costruire dentro la Bce. Sfida complessa che, però, riguarda (al di là della particolarità della questione “euro” che tocca la sola Bce) tutte le banche centrali esponendole al sospetto di essere “prigioniere” sia della politica che dei mercati (difatti iperreattivi ad ogni possibilità di loro aumento), entrambi favorevoli a continuare all’infinito quelle politiche di espansione monetaria, viceversa concepite come “strumenti non convenzionali” per emergenze come fu il crack del 2008.

Nell’immediato, dunque guardando specificatamente all’Eurozona, il quesito è se l’alleggerimento monetario di Draghi vada mantenuto tuttora camminando l’Euroarea su ghiaccio sottile? Oppure se l’euro-emergenza sia ormai alle spalle ed è quindi tempo che la Bce di Lagarde, ma in questo caso il discorso va fatto di concerto con le altre banche centrali, cambi, magari anche un po’ scontentando politica e mercati? E ciò, in termini di cultura politico-economica e approccio operativo, sarebbe nelle sue corde? E, più in generale, in quelle delle consorelle autorità monetarie?
A questo proposito merita notare che la Banca dei regolamenti internazionali, nel suo ultimo rapporto (Annual Economic Report, June 2019), nota come ben presto la politica monetaria, per i suoi effetti sul debito e, conseguentemente, sulla stabilità del mercato finanziario, potrebbe trovarsi dinnanzi a scelte contraddittorie dove “ciò che è bene oggi non necessariamente avrà esiti positivi in futuro”. Un bel dilemma per le banche centrali e, in particolare, per Christine Lagarde. Insomma, il quantitative easing, per dire solo dello strumento più famoso, andrà ancora rinnovato?
Nel caso, ciò porrà un ulteriore problema all’Eurozona. Lo si coglie bene se si tiene a mente che l’Eurotower, in assenza degli eurobond tuttora politicamente inagibili, compra sul mercato secondario i titoli sovrani dei vari stati dell’Eurozona in relazione al capitale versato in Bce (esibendo così l’inevitabile barocchismo costitutivo dell’Unione monetaria).
La conseguenza è che ora Francoforte, senza modifiche ai criteri d’acquisto dei vari bond sovrani, può trovarsi a “raschiare il fondo del barile” per quanto attiene alla disponibilità dei bund tedeschi. Quindi ad essere in difficoltà nel proseguire la sua politica monetaria non-convenzionale. Ma se tale questione appare come un problema “europeo”, cioè specifico per Bce e Lagarde, pur tuttavia, come detto, se continuare o meno con la “moneta facile” è tema che tocca tutte le banche centrali.
Il quesito è se le politiche monetarie espansive “non-convenzionali” del post 2008 ormai abbiano dato tutto ciò che potevano. Certo, nell’immediato simili considerazioni non dispiacciono sia alla politica (perché le rendono meno oneroso fare budget in deficit) che ai mercati (la nuova liquidità traducendosi in acquisto di asset ne alza il prezzo e ne abbatte il rendimento però con rischio “bolla”).
Tuttavia, a parte la considerazione che ulteriori tagli a tassi già minimi o negativi appaiono sempre più un’arma scarica (solo gli Stati Uniti, come mostrano le bordate di Trump contro la Fed, avrebbero tuttora margini di diminuzione), questi presentano anche conseguenze negative: ad esempio, incidono sui margini di assicurazioni, fondi pensione banche (Rapporto Bce sulla stabilità finanziaria 2018).
Inoltre, meglio ripeterlo ancora, la “moneta facile” può alterare i valori nei mercati finanziari, separandoli dai risultati “reali” dei bilanci. Il guaio, per le banche centrali, è che questo le pone dinnanzi ad un pessimo dilemma: perché, se abbandonano le “politiche non-ortodosse”, rischiano di far esplodere la bolla venendone imputate per le conseguenze recessive; viceversa, se perseverano, facilmente innescano una bomba/bolla ad orologeria. Qui le banche centrali, al di là dei diversi assetti normativi di riferimento, più che autonome e indipendenti, paiono prigioniere della situazione. Potevano fare diversamente dopo il 2018?
Difficile, realisticamente, dovendo il banchiere centrale – come ricordava, peraltro i un contesto diverso – Guidi Carli già governatore di Bankitalia – evitare scelte magari valide in via di principio, ma nell’immediato destabilizzanti l’ordine monetario affidatogli (Guido Carli, Intervista sul capitalismo italiano, Laterza, 1977).

E, con tutta probabilità, nel fatidico 2008 il mancato ricorso a politiche monetarie non-convenzionali sarebbe stato, appunto, destabilizzante. Altra cosa, invece, trasformarle in una nuova ortodossia, come pare oggi accada osservando parole e intenzioni delle banche centrali. Ciononostante, forse merita riconoscere che, almeno teoricamente, le preoccupazioni della Bundesbank (la banca centrale della Germania) qualche fondamento l’avevano sia per i pericoli di un loro eccessivo proseguimento che, essendo facile per le banche centrali restarvi imprigionate, per gli effetti sulla loro indipendenza da politica e mercati. Poi, a rendere più drammatico il dilemma, come la cronaca di questi giorni dimostra, c’è il rischio che le politiche monetarie non-convenzionali, sebbene pensate dalle leadership delle banche centrali a fini interni delle singole entità politiche, abbiano un impatto sui cambi capace di innescare vere e proprie guerre valutarie.
Insomma, si prospettano momenti difficili per le banche centrali intrappolate nelle sabbie mobili della “moneta facile”. Neppure le aiuta la diffusa l’illusione che l’alchimia monetaria, per dire con Mervyn King, ex governatore della Banca d’Inghilterra (Mervyn King, La fine dell’alchimia, Il Saggiatore, 2017), cioè che la sola manovra della moneta possa fare la magia di avere una sana economia.
Molte, dunque, guardando all’Eurozona, le sfide dinnanzi alla Presidente Lagarde e al board della Bce in più, come detto, condizionati dalla costitutiva (in senso politico) fragilità dell’euro. Nell’affrontarle che rapporto vi sarà tra Realpolitik e logica del banchiere centrale? Insomma, come sarà l’Eurotower da novembre? Comunque sia, inciderà sui nostri destini.

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