pubblicato il 2 luglio 2019
Dalle manifestazioni contro il nucleare dopo il disastro di Cernobyl alla lotta in Parlamento per valorizzare i piccoli comuni e con essi l’identità del nostro Paese: Ermete Realacci, presidente onorario di Legambiente e parlamentare con l’Ulivo e poi con il Pd dal 2001 al 2018, è protagonista e testimone della storia recente dell’ambientalismo italiano. Un ambientalismo che, diversamente da quanto accaduto altrove in Europa, fatica a tradursi in un soggetto politico forte.
“Ma l’attenzione per l’ambiente è comunque nei cromosomi del modello produttivo italiano”, spiega Realacci, che dal 2005 s’impegna con la Fondazione Symbola, di cui è presidente, per promuovere la “soft economy”, un “modello di sviluppo in cui tradizioni e territori sposano innovazione, ricerca, cultura e design”.
Ermete Realacci, come mai in Italia la politica ambientale non ha mai dato vita a un movimento o a un partito significativo?
Il problema è culturale. Alexander Langer diceva che “la conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile”. In Italia, purtroppo, l’ambientalismo non è riuscito a farsi percepire come portatore di un futuro che è più interessante per tutti. La cultura media ha preso un’altra direzione.
Ma le cose avrebbero potuto andare diversamente. Ad esempio, ai tempi del disastro di Cernobyl, quando ero presidente di Legambiente, l’Italia fu l’unico paese europeo in cui ci fu una grande manifestazione nucleare. Si utilizzò quell’occasione per dire “no” a una scelta sbagliata, anche economicamente, come si è visto dopo con chiarezza. La manifestazione fece così da premessa alla vittoria dei referendum che segnarono di fatto la fine dell’esperienza elettronucleare italiana.
Negli altri paesi la situazione è diversa?
Emblematico è il caso della Germania, dove i Verdi hanno recentemente sorpreso in Assia e in Baviera. Non va dimenticato che lì gli ecologisti amministrano già da otto anni il più importante Land industriale del Paese, il Baden Württemberg, che è capitale di grandi aziende come Mercedes o Bosch. A governare, in coalizione con i cristiano democratici, è un signore di settant’anni, Winfried Kretschmann, un moderato, segno che non solo i giovani ma anche gli operai percepiscono la prospettiva ambientalista come quella più interessante anche per il loro futuro.
Lei è stato fondatore, presidente e, adesso, presidente onorario di Legambiente. Perché Legambiente non è mai diventato un partito politico?
Perché volevamo un movimento organizzato, in grado di mantenere la propria autonomia, la propria capacità di parlare a tutta la società. Certo, ci chiedemmo se far stare nel partito verde anche l’ambientalismo di movimento. Se avessimo agito in questa direzione, avremmo probabilmente avuto un partito verde un po’ più forte, ma l’ambientalismo non sarebbe stato così esteso. Non credo che il nostro sia stato un errore.
In Germania, nel Baden Württemberg i Verdi governano con il partito di Angela Merkel. In Europa, nel nuovo Parlamento discutono con il centrodestra popolare. Il rinnovato successo dei Verdi passa dalla messa in secondo piano del tradizionale legame con la sinistra?
I Verdi devono saper parlare con tutti. In Germania, alle ultime elezioni europee hanno sottratto un milione di voti a destra, alla Cdu/Csu. Nelle elezioni regionali in Baviera hanno tolto più o meno lo stesso numero di voti sia a destra che a sinistra. Essi mantengono una prospettiva che riprende alcuni valori tradizionali della sinistra su questioni come la coesione sociale, la difesa dei più deboli, i diritti, ma questo viene fatto con categorie nuove, più inclusive, più convincenti. Ridefiniscono il campo di gioco, ma ciò non vuol dire rompere con la sinistra per andare con la destra.
In tal senso, mi auguro che in Europa si formi un’alleanza per il governo del Parlamento che contempli anche i Verdi.
L’Europa ha bisogno dei Verdi?
Se da un lato la crisi climatica ha bisogno dell’Europa, dall’altro l’Europa ha bisogno della crisi climatica. L’Unione europea necessita oggi di una nuova missione, che coincide con l’insieme dei cambiamenti nell’economia, nella società, nella politica, indispensabili per contrastare il riscaldamento globale. È una missione che implica anche la capacità di costruire un’economia più competitiva proprio perché più a misura d’uomo.
L’economia verde è sempre più desiderabile?
A questo proposito, mi ha colpito il fatto che qualche mese fa Xi Jinping, Segretario generale del Partito Comunista Cinese, nella sua relazione al congresso del partito, abbia usato per ottantanove volte la parola “ambiente” e per settanta volte la parola “economia”, surclassando termini come “socialismo” e “comunismo”.
Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, si tratta di un problema molto serio: ci sono città cinesi che l’inquinamento ha trasformato in “camere a gas”. Basti pensare che sono anni che a Shanghai e a Pechino si può circolare solo con scooter elettrici.
Secondo: l’ambiente è un terreno di competizione economica, ovvero chi arriva primo batte gli altri. Penso all’enorme sfida aperta sulle auto elettriche, su cui la Cina sta spingendo con forza. Questo perché essa è il più grande mercato mondiale dell’auto, dove si vendono più o meno quattro milioni di veicoli all’anno. Ora Pechino sta monopolizzando alcuni settori strategici, come quello delle batterie.
Infine, è un terreno di affermazione geopolitica. Chi partecipa a questa partita ha una voce più forte nel mondo. Ecco perché la sfida climatica è un compito dell’Europa.
L’Europa è quel “soft power” che la ha ispirata nel coniare, insieme al giornalista Antonio Cianciullo, il neologismo “soft economy” che ora è entrato anche nel dizionario Treccani. La soft economy potrebbe essere un modello di sviluppo per l’Italia?
Il termine “soft economy” rimanda alla distinzione del politologo americano Joseph Nye tra “hard power” e “soft power”, due tipi di potere, il primo duro, basato sulla forza, anche militare, e rappresentato in particolare dagli Stati uniti, e il secondo, invece, in cui l’elemento importante è la capacità di influenzare, affascinare, convincere, che Nye per questo vedeva più legato all’Europa.
La soft economy è quindi un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione ma anche sull’identità, la storia, la creatività, la qualità. Un’economia in grado di coniugare coesione sociale e competitività e di trarre forza dalle comunità e dai territori.
In particolare, il termine soft economy nasce per leggere in questa chiave la forza dell’Italia: l’Italia è forte quando fa l’Italia, quando incrocia innovazione, cultura, storia, bellezza, coesione sociale e per dirla con le parole di Carlo Cipolla “produce all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”.
Per questo nel 2005 abbiamo creato Symbola, fondazione che nasce per promuovere in tutti i campi e sotto tutte le latitudini la qualità italiana. Una fondazione che già nel nome identifica la sua missione, perché il “simbolo” in greco era la tessera spezzata che permetteva di riconoscere che due cose apparentemente diverse facevano parte poi di una missione comune.
L’accento è quindi sul made in Italy. Possono le nostre eccellenze produttive essere oggetto di una conversione verde?
Lo sono già e non perché ci sia stata una spinta da parte della politica o della legislazione italiana: sull’ambiente siamo molto debitori al ruolo positivo svolto dall’Europa nelle normative.
D’altro canto, è però anche vero che l’Italia per cultura, per cromosomi, per antropologia, è portata a fare cose che sono più rispettose nei confronti dell’ambiente. La stessa sfida enunciata da Cipolla di “produrre cose belle all’ombra dei campanili” significa scommettere sulla qualità piuttosto che sulla quantità.
Ci faccia un esempio…
Pochi lo sanno ma l’Italia è di gran lunga la superpotenza europea dell’economia circolare. In termini generali, recuperiamo già il 76 per cento dell’insieme dei rifiuti, una percentuale che è il doppio della media europea, molto di più anche rispetto alla Germania.
Nelle raccolte differenziate urbane, invece, la situazione è a macchia di leopardo. Ci sono eccellenze, come Milano che, insieme a Vienna, è la città sopra il milione di abitanti con la raccolta differenziata più alta di Europa. In provincia di Treviso ci sono cento comuni che sono sopra l’ottanta per cento di raccolta differenziata. Ma poi ci sono anche aree della Sicilia in cui siamo ancora molto indietro.
Perché l’Italia è così forte nel recupero dei rifiuti?
Questo risultato non è figlio dei decreti legge, è figlio dei cromosomi.
Siamo un Paese povero di materie prime e quindi nel corso dei secoli abbiamo dovuto imparare a utilizzare quella grande energia rinnovabile, non inquinante, che è l’intelligenza umana, per costruire filiere più efficienti. Si pensi ai rottami di Brescia, agli stracci di Prato o alle cartiere di Lucchesia. È stato un processo obbligato che oggi può diventare una carta per il futuro.
Si tratta di un meccanismo di adattamento e innovazione continua che attraversa tanti settori produttivi italiani. Faccio l’esempio delle giostre. Lei sapeva che i bambini di Pechino, Shanghai, Copenaghen e Coney Island giocano su giostre italiane? Questo perché le giostre italiane sono più belle, più flessibili, ma anche perché consumano la metà dell’energia di quelle tedesche, perché sono più leggere.
O si pensi al settore delle macchine agricole, dove siamo leader in alcuni segmenti, perché le macchine agricole italiane consumano meno energia, meno acqua e meno prodotti chimici. O, ancora, al settore dei pannelli truciolati, dove noi siamo leader mondiale anche perché i nostri prodotti sono privi di formaldeide.
Questi sono solo alcuni esempi che mettono in luce l’antropologia del sistema produttivo italiano, più orientato rispetto ad altri alle politiche ambientali.

Torniamo alla politica. È possibile che in Italia la tematica ambientale, la cultura ambientale, innervi le forze della sinistra e del sindacato e non continui più a essere un settore tematico a parte?
Il mio impegno politico nel Pd è legato all’ipotesi che questo accada. Per ora non è stato così. Con Zingaretti è migliorato in parte il registro rispetto a Renzi, però questo non vuol dire che ci sia una cultura diversa all’interno del partito.
Sicuramente aiutano le leadership nuove, più giovani, magari femminili, ma quello non è il punto della questione: si pensi al già citato governatore del Baden Württemberg, Winfried Kretschmann: un uomo di settant’anni, non proprio il nuovo che avanza.
Per avere successo, la cultura ambientale deve essere percepita effettivamente come la chiave attraverso cui viene letta l’economia e si spinge verso una società che è più desiderabile. In questo senso, in Italia l’ambiente si incrocia in maniera forte con il tema dell’identità del paese.
È questo il significato dell’articolo 9 della Costituzione italiana – il più originale, come diceva Carlo Azeglio Ciampi – il quale stabilisce che “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Il fatto che la sinistra abbia trascurato il presidio positivo dell’idea della patria e dell’idea dell’identità delle comunità locali è un errore anche da una prospettiva ambientale ed economica.
Io la mia parte ho provato a farla, riuscendo a far approvare la legge sui piccoli comuni, che contiene una serie di misure per il loro sostegno e la loro valorizzazione. Il mio ragionamento sui piccoli comuni è ispirato da un’idea ambiziosa di Italia, in cui il meglio che sei diventa un ingrediente per il futuro. Per dirla con le parole di Gustav Mahler, “Tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco”.
O, ancora, come affermava Giorgio La Pira “solo gli animali privi di spina dorsale hanno bisogno del guscio”. Una comunità si apre, non costruisce muri, solo se ha un’identità forte. I muri sono infatti figli di un’identità debole o, peggio, calpestata, perché il muro costruisce un’identità contro l’altra.
L’identità forte, invece, governa il rapporto con l’altra.

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