Se si creano “le circostanze giuste”, “sarei d’accordo a incontrare il presidente iraniano, Hassan Rouhani”. Così dixit Donald Trump nella conferenza stampa conclusiva, tenuta insieme al padrone di casa, l’iper attivo Emmanuel Macron, al termine del G7 di Biarritz. C’è chi ha letto l’uscita di The Donald in chiave minimalista e difensiva: di fronte al coup de théâtre messo in scena dall’inquilino dell’Eliseo con lo sbarco in Costa Azzurra del ministro degli esteri iraniano, Mohammad Zarif, il presidente statunitense doveva fare buon viso a cattivo gioco per non sembrare in balìa del suo giovane omologo francese. Ma questa, per l’appunto, è una lettura fuorviante, che non coglie un punto sostanziale che riguarda l’approccio di Trump, soprattutto in vista delle presidenziali del 2020, ai dossier più caldi di politica estera: un approccio “pragmatico” che, come tale, taglia le unghie ai falchi della sua amministrazione, in primis il segretario di stato Mike Pompeo e, soprattutto, il consigliere, non più tanto ascoltato, alla sicurezza nazionale, John Bolton.
Il tycoon pragmatico parla come chi cerca un punto d’incontro con la Repubblica degli ayatollah, assicurando di non volere un cambio di regime nel Paese.
Stiamo cercando di far tornare ricco l’Iran, facciamolo, se lo vogliono – ha detto a Biarritz. – O possono restare poveri così come sono. Non penso sia accettabile il modo in cui sono costretti a vivere.
Se si creano le condizioni, dice Trump, senza entrare nel merito di quali dovrebbero essere tali condizioni. Ma in politica estera le parole hanno un peso fondamentale, e quelle pronunciate da The Donald sono parole che indicano un’apertura di credito verso il presidente riformatore iraniano sul modello “nordcoreano”.
Trump e Rouhani saranno presenti al Palazzo di Vetro per l’annuale Assemblea generale il prossimo mese, e c’è chi ipotizza che i due leader potrebbero incontrarsi a margine nel tentativo di ridurre le tensioni tra gli Stati Uniti e l’Iran. Un incontro del genere, rimarca The Washington Post, sarebbe in linea con la strategia tipica per un leader americano più focalizzato sugli “affari” che sul “dogma”, sul pragmatismo piuttosto che sull’ideologia, e disposto a cambiare bruscamente la sua politica se ciò può favorire una negoziazione. Trump ha incontrato Kim Jong Un della Corea del Nord dopo mesi di missili e test nucleari l’anno scorso; la sua amministrazione – rileva ancora WP – è stata disposta a parlare direttamente con gruppi “sgraditi” come i talebani afgani e persino la milizia Houthi appoggiata dall’Iran nello Yemen. Ma se Trump dovesse continuare a perseguire l’idea di colloqui diretti con la sua controparte a Teheran, dovrà fare i conti con un grave contraccolpo, e non solo da parte dei sostenitori della linea dura sia in Iran che negli Stati Uniti. La decisione svelerebbe nuovamente la distanza tra un presidente “opportunista”, non dando a questo termine una valenza spregiativa, e i suoi sostenitori ideologici.
Sia Trump sia Rouhani hanno discusso della possibilità di un incontro nei giorni scorsi, con il leader degli Stati Uniti che suona particolarmente positivo.
Se le circostanze fossero corrette, erano giuste, sarei sicuramente d’accordo,
ha per l’appunto detto Trump con a fianco Macron. In seguito, il presidente Usa Trump ha suggerito che un vertice potrebbe svolgersi entro poche settimane: al Palazzo di Vetro, ad esempio. I sostenitori di un incontro sperano che possa fornire una via d’uscita per le tensioni tra gli Stati Uniti e l’Iran. Ma mentre la spinta di Trump al dialogo con Rouhani potrebbe ridurre il rischio di conflitto, essa può entrare in conflitto con il punto di vista di alcuni dei suoi più stretti alleati interni ed esteri. Mike Pompeo, il segretario di Stato sempre leale a Trump, ha fatto il suo nome alla Camera dei rappresentanti opponendosi all’accordo nucleare del 2015 che gli Stati Uniti hanno firmato sotto l’amministrazione Obama.

All’inizio di quest’anno, Pompeo ha stilato un elenco di dodici rigide richieste che l’Iran avrebbe dovuto soddisfare per riprendere i negoziati. Trump ha contraddetto questo, lunedì a Biarritz, suggerendo di poter cercare un accordo “molto semplice” con l’Iran incentrato su armi nucleari e missili balistici.
Le divergenze negoziali di Pompeo e Trump non possono essere ignorate,
sostiene Tom Rogan del Washington Examiner. “Ora sono cristalline.”
Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca John Bolton ha tenuto un discorso in occasione di un evento ospitato da un gruppo di esiliati iraniani noto come Mujaheddin Khalq, MEK o Mujaheddin del popolo, dove ha apertamente chiesto la fine del regime teocratico che governa l’Iran.
La politica dichiarata degli Stati Uniti dovrebbe essere il rovesciamento del regime dei mullah a Teheran,
ha detto Bolton al pubblico.

Trump lunedì ha ribadito un’idea che è esattamente l’opposto della proposta di Bolton: “Non stiamo cercando un cambio di regime in Iran”. È un messaggio che non farà certo piacere al MEK, e neanche a due dei più accesi sostenitori del cambio di regime a Teheran: Bolton e l’onnipotente avvocato di Trump Rudolph W. Giuliani.
Di recente, secondo quanto riferito da Politico, Trump ha autorizzato il senatore Rand Paul, repubblicano del Kentucky della corrente libertaria, a provare ad aprire un canale di dialogo con l’Iran (anche se Trump ha negato di aver fatto di Paul un suo emissario).
Secondo quanto riferito, Paul ha cercato di incontrare Zarif mentre era a New York e mentre Zarif, parlando ai giornalisti, non ha negato che avrebbe incontrato Paul, ha anche descritto il ruolo del senatore come “esagerato”. Se ciò fosse accaduto, il back-channel di Paul e la presenza di Zarif a New York rappresenterebbero la prima strada concreta per i colloqui tra gli Stati Uniti e l’Iran durante una crisi che rischia ancora di trasformarsi in un conflitto dirompente. Un conflitto che The Donald vuole evitare. E non solo perché frenato dai vertici militari, che sanno della potenza militare iraniana. Nel frattempo, i più grandi alleati di Trump in Medio Oriente hanno fondato gran parte del loro sostegno al presidente Usa proprio per la linea dura praticata su e contro l’Iran. Sia l’Arabia Saudita che gli Emirati Arabi Uniti si oppongono alle ambizioni nucleari di Teheran, ma anche alla sua generale influenza regionale – e sebbene temano un conflitto con l’Iran, si preoccupano anche di una sua capitolazione.

L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno speso molto tempo, sforzi e denaro nel tentativo di influenzare l’opinione dell’amministrazione Trump sull’Iran. L’uscita degli Usa dall’accordo sul nucleare del 2015 testimonia un’indubbia vittoria da parte delle petromonarchie del Golfo (e del loro alleato ormai neanche troppo occulto, Israele). Ora, però, Trump non sembra voler calzare l’elmetto, tutt’altro, e ai suoi alleati fa sapere che l’America può semmai svolgere una funzione di coordinamento, sviluppare un lavoro di intelligence, ma se si vogliono proteggere petroliere e interessi legati all’oro nero, beh, gli alleati del Golfo devono pensarci da soli. E qui le cose si complicano, e di tanto. “Da un lato, vogliono dimostrare che i miliardi di dollari di acquisti militari non sono andati sprecati, che possono aiutare a difendersi” dice sempre al Washington Post Henry Rome, analista del Medio Oriente presso l’Eurasia Group di New York.
Ma non vogliono dare l’impressione di poter difendersi da soli, per timore di indurre Trump a fare i bagagli e tornare a casa.
E qui entra in scena Tel Aviv. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, forse il più vicino di tutti gli amici stranieri di Trump, potrebbe aver preso in mano la situazione: i recenti attacchi aerei israeliani hanno colpito obiettivi in Libano, Siria e Iraq negli ultimi giorni, sollevando preoccupazione per una guerra tra forze alleate e iraniane. Poche settimane prima di un’altra elezione israeliana, la riconciliazione tra Stati Uniti e Iran sarebbe disastrosa per Netanyahu. Una cosa appare certa: se l’ipotesi di un incontro Trump-Rouhani dovesse realizzarsi, sarebbe grazie agli sforzi dell’inquilino della Casa Bianca.

Trump è stato chiaro nell’affermare che avrebbe incontrato il presidente iraniano senza condizioni preliminari; “l’incontro dell’anno scorso con il leader nordcoreano – annota sempre The Washington Post – mostra la sua volontà di ignorare il consiglio dei suoi sostenitori nazionali e internazionali per lo “spettacolo” di un vertice”.
Il più grande ostacolo a questo incontro non è a Washington, ma a Teheran, dove la Guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, ha ripetutamente respinto il raggio d’azione della diplomazia personale di Trump. E qui s’inserisce l’altro punto di distanza tra il presidente “opportunista” e gli ideologi della destra radicale interni ed esterni alla sua amministrazione. Per quest’ultimi, l’affermarsi a Teheran dell’ala più conservatrice e radicale del regime, quella dei Guardiani della Rivoluzione e del loro capo Khamenei, rappresenterebbe la consacrazione dell’irriformabilità di quel regime e dunque l’inevitabilità di un suo abbattimento.
Con l’apertura a Rouhani, Trump sembra aver imboccato un’altra strada. Più ragionata, meno “muscolare”. Il tempo, neanche troppo lontano, ci dirà se questa strada sarà percorsa fino in fondo e se alle parole, comunque significative, faranno seguito atti conseguenti. Di certo, però, lo scarto tra The Donald (sostenuto, non a caso, dai vertici militari) e i fautori di una resa dei conti finale con la Repubblica islamica d’Iran è ormai un dato di fatto. Negarlo sarebbe un segno di cecità politica, o di atavico e deleterio antiamericanismo.

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