Il linguaggio segreto della poesia, la musicalità delle sue assonanze e rime e i suoi nascosti “nodi di luce”, la sua potenzialità di evocare e generare emozioni, “capaci di tradursi in sentimenti e in idee”. In una conferenza tenuta al Teatro Flaiano di Roma nel lontano 1982, e ora pubblicata su carta Palatina dalla piccola e raffinata casa editrice Italo Svevo, Giorgio Caproni affronta l’enigma identitario della “poesia”, sorella incompresa del variegato mondo letterario.
Il poeta è un minatore: è poeta colui che riesce a calarsi a fondo in quelle che il grande Machado definiva “le segrete gallerie dell’anima” (“las secretas galerias de l’alma”),
scrive Caproni suggerendo come la lettura di una poesia ci riveli, come in un specchio, le emozioni profonde che albergano nel nostro inconscio. Le difficoltà che molti incontrano ad avvicinarsi alla poesia si traducono spesso in una vera e propria diffidenza per quanto viene ancora oggi vissuto come “alieno”, come qualcosa di diverso, di “romantico” o del tutto incomprensibile nella sua sintassi libera dai condizionamenti della logica e della razionalità e perciò, appunto, più arduo da capire.
La metrica e la rima, quando ci sono, facilitano sicuramente l’approccio del lettore, ma il grande mistero del linguaggio poetico non si risolve se non si sgombra la mente dai condizionamenti di un rigido processo mentale del pensiero critico che si liberano solo nei sogni e, appunto, nella poesia. Ma non c’è solo la vicinanza all’universo musicale. Consideriamo infatti come anche nelle arti figurative, ormai, si cominci a registrare una certa familiarità e un crescente interesse nei confronti di pittori assolutamente informali come, solo per fare alcuni esempi, Rothko, Fontana, Burri o Pollock. Eppure la totale assenza di una sia pur minima grammatica figurativa nelle opere di questi grandi pittori dovrebbe suscitare una certa incomprensione nel pubblico.
Forse, per quanto riguarda la pittura, si sta cominciando a capire quanto Paul Klee aveva scritto in un suo diario, e cioè che “il vero pittore, non dipinge ciò che si vede ma ciò che non si vede”. Per avvicinarsi al mondo dei versi, dunque, la lezione del livornese (ma genovese d’elezione) Giorgio Caproni può costituire un utile strumento per imparare a decodificare i segnali dell’inconscio, e i suoi “nodi di luce”, le cui tracce possiamo trovare nel linguaggio enigmatico dei versi.

Caproni non fa poi mistero del problema posto dalla traduzione delle poesie che necessariamente impoverisce la parola, e la successione di parole in un verso, quando tradotta in altra lingua, ancorché il significato lessicale sia mantenuto, “almeno fino ad un certo punto”. Nel verso dei poeti da Dante fino ai contemporanei, c’è il tesoro nascosto dell’idioma nazionale fatto di sfumature armoniche e di inespressi rinvii all’etimo di ciascun lemma che di conseguenza rimanda alla storia del paese (in questo caso l’Italia) così come, ovviamente, nel caso in cui la lingua in cui si scrive sia un’altra.
Nello smilzo libriccino amorevolmente curato dal filologo e critico letterario Roberto Mosena, il poeta livornese sottolinea anche
il valore metaforico, analogico, allegorico e diciamo pure simbolico, o meglio emblematico, che la parola assume in una poesia anche quando in apparenza appartiene al più trito linguaggio quotidiano.
E cita Proust che avrebbe detto, “quando uno legge un poeta, in fondo non fa che leggere se stesso”.
Quel poeta, argomenta Caproni, ha raggiunto in se stesso una verità che vale per tutti e che già, come la bella addormentata nel bosco, sonnecchiava in tutti in attesa di essere svegliata.
La lezione del poeta prende spunto dall’analisi di una sua lunga poesia sul progressivo inurbamento della gente di un paese montano che, piano piano, abbandona le proprie case per andare in città, in pianura. Ma ad una prima lettura, la poesia in questione appare come una metafora della vita e della sua fine, come d’altra parte era già avvenuto nel suo celebre Congedo di un viaggiatore cerimonioso, poesia che l’autore dedicò all’attore Achille Millo. Alla conferenza al Teatro Flaiano era presente nel pubblico un altro attore, il fiorentino Pietro Tordi che registrò su un suo vecchio magnetofono (come faceva quasi di regola in altre, simili occasioni) l’intera conferenza di Caproni rendendone possibile ora la pubblicazione, grazie anche a Roberto Mosena. Di quella poesia trascriviamo di seguito alcuni versi.
Son vecchio.
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?
Meglio – lo so – è ch’io vada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.
La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte, direi, se anch’essa
– da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.

L’immagine di copertina è di Dino Ignani.

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1 commento
Ma Caproni è Livornese, non ligure.