Paolo Franchi, “Il tramonto dell’avvenire. Breve ma veridica storia della sinistra italiana”, Marsilio. Il saggio è stato presentato al Festival della Politica con l’autore ed Emanuele Macaluso. Moderatore Guido Moltedo.
Quello che abbiamo di fronte è la storia della sinistra, a partire dal 1976, in cui i partiti e i gruppi rappresentativi di quello che allora si chiamava “il movimento operaio” ottennero il più straordinario successo elettorale, un 44,5 per cento; fino al 2002 dettagliatamente, e fino ai giorni nostri o quasi più sommariamente. Una storia scritta in modo molto piacevole e “conversevole” (se possiamo permetterci di usare per lo scritto una parola riferita alle persone), in cui il racconto critico degli eventi, delle mosse politiche e delle figure dei protagonisti è spesso intervallato da ricordi e riferimenti a rapporti personali, che lo rendono anche più piacevole ed interessante, diremmo “umano”. Lo consiglierei ai giovani che vogliano informarsi. La ricchezza del volume è tale che mi si scuso subito perché riuscirò a darne soltanto una pallida idea.
Il titolo non è incoraggiante, per chi sull’avvenire è sempre proiettato e pensa che si possa sempre fare di più e meglio, se ci si mette un po’ di buona volontà. Il contenuto è già più incoraggiante, se non altro perché ogni singola fase, ogni singola storia viene letta nelle sue ragioni e nelle sue cause, il che lascia pensare o almeno sperare che si possa fare diversamente, che si possa imparare dagli errori. Le ultime due pagine condensano quello che non c’è e quello che servirebbe – perché esista ancora un partito della sinistra – sul piano dell’organizzazione e su quello delle idee e della proposta politica. A cominciare da un partito pesante, solido, e da un sindacato non soltanto dei pensionati. Viene da replicare, nulla di impossibile. Difficile sì, impossibile no. Impossibile probabilmente, se si accarezza l’idea di far rivivere una sinistra socialista, categoria del ‘900. D’altra parte lo stesso Autore nelle pagine iniziali lo riconosce: difficile, difficilissimo, non necessariamente impossibile. Ma su questo ritornerò brevemente.
Uno dei primi approfondimenti riguarda il termine “sinistra” usato nel titolo, la sua origine, il suo uso nella storia italiana dei partiti. Dopo un brevissimo omaggio a Gaber (fare il bagno nella vasca è di destra, fare la doccia invece è di sinistra), e non permettendoci di discutere qui il saggio di Bobbio, ritorniamo a Paolo Franchi, il quale osserva che “sinistra”- come area politico sociale composita che si candida al governo – è espressione usata poco o nulla fino agli anni Sessanta, se non altro perché l’idea che la sinistra potesse governare da sola era fuori del mondo. Si comincia ad usare il termine sinistra nel 1968 (la sinistra extraparlamentare rinviava ai partiti della sinistra parlamentare), e Lombardi arriva a proporre “un’alternativa di sinistra alla Dc”. La prima Repubblica non si fondava sulla polarità tra destra e sinistra, ma sull’antifascismo (che definiva l’area della legittimità costituzionale) e sull’anticomunismo (che definiva l’area della legittimità a governare (Vacca). Negli anni Ottanta si sarebbe dovuta costruire una sinistra nuovissima, invece negli anni Novanta la sinistra si sdoppia, tra riformisti e radicali, senza che ne sia chiara la fisionomia. Anche quando poi si riunisce.
Secondo l’Autore, già allora era in corso – nella sinistra – quell’opera di rimozione della propria ragione sociale che negli anni sarebbe andata sempre più a fondo. È questo uno degli aspetti più stimolanti in questo excursus storico: fa toccare con mano che alcuni fenomeni che si constatano oggi hanno radici molto risalenti nel tempo. Senza giungere a giudizi estremi come quello di Marco Revelli (1994), secondo il quale c’erano due destre, una populista e plebiscitaria, e l’altra tecnocratica ed elitaria, con l’obiettivo comune di liquidare quel che sopravviveva del nostro particolarissimo compromesso socialdemocratico (tra cui rientrava ad esempio il pensionamento con 14 anni, sei mesi e un giorno), è probabilmente corretto osservare che la sinistra si è progressivamente allontanata dalla regola aurea della conoscenza della realtà, a partire dalle persone e dai territori che stanno peggio (conoscere la realtà ed aderire ad ogni piega della società civile), in modo da produrre per quanto possibile uguaglianza, e che il processo secondo questa ricostruzione è iniziato già a metà degli anni Settanta. E nel 1992 Bobbio dice che la sinistra aveva archiviato la lotta per l’uguaglianza.

Il distacco della sinistra dal suo popolo è un altro dei temi che percorrono questa rilettura storica. Diverso ma parallelo è quello del distacco della sinistra dal movimento del ’68 e poi, in termini molto diversi, del ’77. Se il ’68 non era stato visto con favore – tranne da personaggi come Terracini, Trentin, Parri, Revelli – e si rifiuta di leggerne realisticamente la genesi, il secondo periodo si presenta con un volto inquietante (fascismo rosso). Ed è in questa fase che per la prima volta si rileva e si denuncia un cambiamento radicale, qualcosa di profondo che si era spezzato nel rapporto tra il Pci e un pezzo di società italiana, ma non si capiva cosa. La diagnosi la fa Asor Rosa, ci dice Franchi: vi sono due società contrapposte, i garantiti (classe operaia, Pci e sindacati compresi), e i non garantiti, che i comunisti non erano in grado di capire né di rappresentare. Siamo soltanto nella seconda metà degli anni Settanta. A distanza di quaranta, cinquant’anni tocca ripetere la medesima diagnosi, ma dopo che il mondo è cambiato a grande velocità e tutto si è fatto più complicato. Altro filo conduttore che ci consente di riflettere sulle lontane origini dell’oggi, il disprezzo per le classi dirigenti che si riflette nella svalutazione delle istituzioni. Il Parlamento illegittimo, di Ferdinando Camon, il lancio delle monetine contro Craxi, persino forse l’uscita dei tre ministri – Barbera, Visco, Rutelli – dal governo Ciampi.
Il terremoto del 1992-1994 non è stato soltanto inchieste giudiziarie (circa seicento in due anni, che hanno riguardato il Parlamento degli inquisiti), anche euforie referendarie, il popolo che riforma in luogo del sistema che non sa autoriformarsi. Ci si libera dei partiti forti del passato, gli editoriali sono imbevuti di antipolitica.
Abbandoniamo il riferimento alla sinistra nel suo complesso, e parliamo del Pci che è il protagonista di gran parte del libro, insieme al Psi, e in specie il Pci di Berlinguer.
L’analisi inizia come si è detto dal 1976. L’Italia era afflitta da una crisi economica e finanziaria gravissima, con l’inflazione al sedici per cento. Il governo è Dc-Pri presieduto da Moro, i socialisti fanno parte della maggioranza. Nelle elezioni anticipate di quell’anno, volute da De Martino segretario del Psi, la Dc recuperò voti al centro, il Pci stravinse. Con Psi e demoproletari raggiunse il 45 per cento. Con Pri e Psdi si superava il cinquanta per cento. Fortunatamente i vincitori erano due, Dc e Pci. Che reazioni ci sarebbero state dagli americani se i comunisti avessero addirittura vinto le elezioni? Il Pci non rivendica certo il governo, neppure, dice Franchi, usa il successo elettorale per contrattare con più forza con la Dc. In altri termini, quello che non succede è che il Pci non fa nulla per andare nella direzione indicata dagli elettori, che con quel voto avevano voluto un’alternativa. Alternativa che richiedeva al Pci di cambiare profondamente se stesso e decidere le alleanze (non potendo certo governare da solo).
Preoccupazione per i rapporti internazionali? Per il Cile? Quel che è certo è che per Berlinguer l’unica prospettiva per modificare l’assetto del governo in un paese come l’Italia era essere associati al potere con la Dc e il Psi (le grandi componenti popolari, comunista, socialista e cattolica). Secondo Franchi, non vi è stato nessun indizio che Berlinguer considerasse in prospettiva, dopo la fase della collaborazione, anche una fase dell’alternativa “di sinistra”. Mentre Moro non la escludeva, anche se la considerava lontana nel tempo (come risulta dalla pubblicazione postuma dell’intervista data a Scalfari).
Questa posizione non cambierà mai. Berlinguer non penserà mai ad un approdo socialdemocratico. Semmai alla terza via, che non fu mai definita. Neppure in seguito alla frattura con il Psi di Craxi sul caso Moro vi fu una riflessione sui propri fondamenti ideologici (il leninismo, il rapporto con l’Urss, il centralismo democratico, temi posti polemicamente dal Psi). Il Psi viene accusato di volere soltanto la redistribuzione dei voti dentro la sinistra, di non volere il socialismo (ma una neo socialdemocrazia neo liberale). Perfino di essere un pericolo per la democrazia. Pur, diremmo oggi, di non fare una riflessione su se stessi.
Se il Pci avesse fatto la svolta di Occhetto tredici anni prima, la storia della sinistra in Italia sarebbe stata diversa, dice Paolo Franchi. Ma appunto, la svolta non è stata fatta quando sarebbe stata ormai matura.
Archiviato il compromesso storico, Berlinguer individua la questione morale come la questione nazionale più importante. Per cui un governo si sarebbe potuto fare con le forze migliori e più oneste dei vari partiti. Come disse qualcuno, un bicolore Pci-Pri, con l’appoggio esterno della Banca d’Italia e dell’Arma dei Carabinieri. Era una linea che si spiegava con l’impossibilità di un’alleanza con il Psi, derivante a sua volta dall’idea che i socialisti, se si sottraggono all’unità di classe, divengono pericolosi per la democrazia. Ma era una linea che portava il Pci fuori dall’azione politica.
Secondo Paolo Franchi, a dividere i due leader non vi era soltanto la questione morale. Per Berlinguer la crisi del capitalismo mondiale era sempre più profonda, il compromesso socialdemocratico non aveva messo in discussione il capitalismo e portava con sé clientelismo e corruzione, si dovevano introdurre “elementi di socialismo”. Per Craxi era la sinistra che in Italia si doveva assumere il compito di liberare gli spiriti vitali del capitalismo, su una linea liberaldemocratica. E poi l’uno diffidava dell’altro nei rapporti con la Dc.
In questa fase – siamo nei primi anni Ottanta – ci racconta Franchi che Craxi attraverso Tatò mandò un messaggio a Berlinguer: il Psi subalterno mai più, ma un Psi autonomo può aprire al Pci. Naturalmente sostenendo Craxi presidente del consiglio. Risulta che Berlinguer non portò la proposta in direzione. La ragione? Va probabilmente trovata nella posizione sempre più netta assunta nei confronti della questione morale (tra l’altro erano state da poco ritrovate le liste della loggia P2). In un’intervista a Scalfari (28 luglio 1981) pronuncia infatti una condanna definitiva e senza appello nei confronti di tutti gli altri partiti, a suo giudizio impegnati ormai unicamente in un’occupazione e in una spartizione del potere che erano all’origine del dilagare della corruzione, divenuta ormai un sistema di governo. Questa posizione di Berlinguer viene letta da D’Alema come un modo di mettere in salvo un partito e il suo gruppo dirigente, come riserva della Repubblica, nel caso previsto, meglio che da altri, di un crollo generalizzato dei principali partiti (come poi avvenne).
Noi oggi non possiamo non pensare, come dice l’Autore, che queste vicende, cui si è aggiunta di lì a poco tangentopoli – e queste critiche radicali – abbiano oggettivamente contribuito alla creazione dell’antipolitica prima e del populismo poi. Così che oggi è difficilissimo ricostruire un rispetto per le istituzioni e le persone che le incarnano, senza di che non si può né amministrare né assumere decisioni politiche.

Il Pci non è stato un partito innovatore. Ad esempio, di fronte alle proposte di “grande riforma” istituzionale avanzate da Craxi, formulate da Giuliano Amato ed altri intellettuali, sostanzialmente la proposta di una democrazia governante (contrapposta ad una democrazia discutidora), assume una posizione di chiusura netta, come un attentato alla democrazia parlamentare. Promuove un referendum suicida contro il decreto di Craxi di correzione della scala mobile, senza comprendere gli orientamenti del paese. Quando il sistema politico cambia, scompare il centro moderato e nasce la destra con una geniale doppia operazione al Nord (con Bossi) e al Sud (con Fini) sotto la guida di Berlusconi, la sinistra, a cominciare dal neonato Pds, non ha un candidato da contrapporre. Ma soprattutto non ha individuato le idee-forza con le quali avrebbe dovuto competere con la destra.
La storia recente è la storia del centro sinistra scritto come parola sola, ma con trattino o senza trattino. Del tentativo di introdurre un bipolarismo ed anzi un bipartitismo, e quindi un maggioritario, o di restare o ritornare al proporzionale. In sintesi, del partito democratico o del partito socialista. La ricostruzione che ne fa l’Autore è per chi scrive perfettamente condivisibile. Tutto si spiega con il prima, con gli anni Sessanta e Ottanta, una volta riconosciuto che la famosa svolta, per quanto tardiva e pasticciata, la si deve ad Occhetto, e a nessun altro. Non si può negare che vi sia stata continuità.
Il riformismo della sinistra, del Pds, dei Ds e del Pd, che negli anni Novanta è stato determinante, è stato anche un riformismo senza popolo e per questo non ha avuto gli esiti che avrebbe dovuto avere.
Una osservazione per chiarire: questo excursus storico – attraverso le insufficienze di un partito e di tutta la sinistra – potrebbe essere letto come una condanna sommaria di tutta la storia repubblicana. In cui il Pci prima e poi i suoi continuatori hanno svolto invece un ruolo molto rilevante. È chiaro che il tema del libro è circoscritto ai problemi propri dei due partiti della sinistra, a quello che sono stati e avrebbero potuto diversamente essere.
Un’osservazione per concludere, ritornando all’ultima pagina del libro. Là dove Paolo Franchi scrive:
se davvero il partito organizzato è morto…e se davvero il sindacato è destinato ad estinguersi….allora è morta anche la sinistra…una sinistra che considera il socialismo alla stregua di un cane morto e vive solo in un eterno, gramo presente il suo avvenire lo ha dietro le spalle.
Siamo d’accordo che occorre un sindacato che non tuteli soltanto i garantiti. Sono d’accordo che occorre un’organizzazione, ma, penso, un’organizzazione molto diversa di quella del passato, così come una comunicazione molto diversa. Nella linea, aveva ragione il Partito socialista e torto il Partito comunista, il quale peraltro diceva di se stesso che i comunisti volevano il socialismo e i socialisti no. Sarebbe da ridere se non fossero state cose serie e gravide di conseguenze.
Ma perché oggi, negli anni Venti degli anni 2000, ai giovani che questa storia non conoscono, e se anche la conoscessero la conclusione sarebbe la medesima, dovremmo parlare di socialismo (se non della sua storia)? O chiamare così un partito?
L’uso di questa parola oggi susciterebbe soltanto equivoci e confusione, ne è una dimostrazione la complessità di tutto quanto ci è stato raccontato in questo libro. Oggi ci sono problemi da risolvere, soluzioni da proporre, di questo e solo di questo conviene parlare, come dice il Movimento 5 Stelle (verso il quale non ho nessuna indulgenza). Le soluzioni aiuteranno gli uni o gli altri e qualche volta tutti. Che la lotta di classe ci sia sempre, come dice Macaluso, è certo, ma non è il momento di fare delle teorie, e anche il Movimento lo capirà, quando si sarà abituato a governare. In questi termini capisco che si rifiutino le etichette destra sinistra. Troppo grave è il peso della storia alle nostre spalle perché ci si preoccupi di catalogare scelte che non sono state chiaramente classificate neppure nel nostro passato.
In questi termini, la parola “democratico” va benissimo.


Nell’immagine di apertura Comizio di Giulio Turcato

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