Segni dei tempi. Alla voce Ferragni (la trentaduenne Chiara, di professione influencer, qualunque cosa voglia dire), le cronache della Mostra di Venezia segnalano paginate di entusiastica accoglienza. E poco importa che il cinema c’entri poco o nulla: bagatelle, imbarazzanti soltanto per chi voglia ancora imbarazzarsi. Alla contigua (foneticamente parlando) voce Ferrara (inteso come Giuseppe, Beppe per gli amici, regista dimenticato) non Venezia, ma neppure nessun altro festival sembra disposto ad accordare alcunché.
Vi dice niente Il sasso in bocca? Correva l’anno 1969 – orribile sul finire per via di Piazza Fontana – e resta tra le testimonianze più intellettualmente lucide, politicamente puntute e linguisticamente mature di quel cinema che ha voluto e saputo fare i conti con la mafia e con la realtà che ne era sottesa. Cinema del reale, s’usa dire oggi, per molto meno. Cercasi restauro disperatamente, ma che ve lo dico a fare?
Fortuna che non tutti dimenticano. E pazienza se la memoria resta minoritaria. Complimenti piuttosto al giornalista e critico veneziano Roberto Pugliese, gran specialista di musica da film, che al toscanaccio del citato Sasso in bocca (e di tanti altri lavori memorabili, se la memoria dei più non facesse per l’appunto difetto) dedica ora Vita agra di un ribelle permanente. Il cinema di Giuseppe Ferrara, in libreria con Falsopiano, monografia d’altri tempi e digesti, con apparati bibliofilmografici come gli dèi comandano.

Vita agra, alla Bianciardi e oltre. Basti dire che il nostro Beppe, che era del 1932, nativo di Castelfiorentino, persona sempre elegante ma combattiva, giacca con foulard a chiudere la camicia, modi cortesi a compensare il carattere coriaceo, se ne va dopo prolungata malattia a Roma nel 2016, in condizioni di indigenza tali da sollecitare e infine ottenere, due anni prima di lasciare, i benefici della legge Bacchelli. Merito del governo Renzi, ma bella anche l’iniziativa della solitamente bistrattata sindaca Raggi di allestire la camera ardente in Campidoglio, con toccanti parole di commiato: “Ha dedicato la vita a capire l’Italia”.
Capire l’Italia, mica uno scherzo. L’Italia del secondo Novecento, uscita dalla Liberazione ma con ferite eternamente aperte: intrecci mafiosi e cupole capitoline, servizi deviati e stragi di stato, terrorismo nero e poi rosso, piste fasciste e poteri forti vaticani, scandali bancari e agenti della Cia in servizio permanente effettivo, quando il collante e il grande alibi era l’anticomunismo, che ogni nefandezza consentiva, qui e altrove (Grecia, Cile, Sudamerica).
Formatosi nel documentario di impronta post neorealista, con diploma di regia al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 1957 e una ottantina di titoli tra la fine degli anni Cinquanta e la fine del decennio successivo, Ferrara si afferma nella narrazione a soggetto con uno stile molto personale, che deve al documentario di partenza l’ostinazione dell’attenersi ai fatti (per l’appunto lungamente studiati e documentati) e alla finzione la capacità di rimodularli sul piano di una narrazione a suo modo anche avvincente.
Cinema politico, certamente, non smette di osservare Pugliese inoltrandosi nella lettura testuale dei film, ma non ideologico. E dunque critico ma non aprioristico, piuttosto un’incessante detection, che se qui da noi scaturisce dalla lezione di Francesco Rosi, sul versante d’oltreoceano presagisce certi scenari alla Oliver Stone. E un cinema, in ogni caso, anche d’attori (su tutti Gian Maria Volonté) e di azione, pensato più per il pubblico che per la critica, che infatti non lo amerà mai troppo. Per quella di sinistra, l’eterno eccesso di didascalismo (che in effetti, riconosce l’autore, talvolta s’annida nelle pieghe narrative), per gli altri il solito copione, mentre a destra e nei Palazzi ogni film è atteso come una sciagura.
Il cinema di Ferrara – scrive Pugliese – ha infatti un carattere prettamente investigativo, inquirente, pur non pretendendo mai di sostituirsi alle autorità di polizia o giudiziarie e nemmeno alla specifica qualità del lavoro giornalistico: il regista utilizza infatti tutti i materiali che provengono da queste fonti con una puntigliosità che rasenta l’acribia, solo che li assembla e li collega non tanto secondo un filo probatorio conclamato o asseverato quanto secondo un filo “logico-politico” che ne ribadisca o addirittura ne enfatizzi l’evidenza.

Rinfreschiamoci la memoria. Dopo il citato Sasso in bocca, l’investigazione prosegue con Faccia di spia (1975), che racconta di come gli americani “sistemavano” le cose nel mondo, Panagulis “Zei” (1980), su un personaggio chiave della Resistenza greca al regime dei colonnelli, Cento giorni a Palermo (1984), il generale Dalla Chiesa, ottimo Lino Ventura, mandato al macello nella Palermo di una “cosa nostra” in via di profondo restyling, Il caso Moro (1986), con Gian Maria Volonté efficace “doppio” dello statista democristiano rapito e poi ammazzato da Brigate che di rosso non avevano più neppure la vergogna. E ancora Giovanni Falcone (1993), Segreto di stato (1995), Donne di mafia (2001), l’irritante più che mai I banchieri di Dio – Il caso Calvi (2002), Guido che sfidò le Brigate Rosse (2007). L’’ultimo – Roma nuda (2010) – rimane inedito, lasciando alle cronache di Mafia Capitale il compito di svolgere il tema intuito e in parte già prefigurato dal nostro regista.
In esergo al libro un paio di significative verità, o avvertenze se preferite. “Quando il capitale è in poche mani, esso genera la mafia” viene dal Sasso in Bocca e sta chiaramente ad indicare il carattere marxianamente “strutturale” di ciò che per troppo tempo è stato insulsamente mescolato a folklore e localismo, quando invece di “leggi” criminali del mercato occorre parlare. L’altra è un classico di Godard, più citato che agito: “Non bisogna fare film politici, ma fare politicamente i film”, nel senso che – ovviamente – un tema, un contenuto, sia pure importante e scomodo, di per sé non disturba né modifica alcunché, mentre occorre modificare le modalità stesse di produzione, a cominciare dall’assoluta indipendenza (anche “economica”) di giudizio.
Ferrara ci ha provato e in parte c’è riuscito, pagando prezzi che un più “sereno” declinarsi del suo fare cinema gli avrebbe certamente evitato. E non si pensi a certa semplicità o prolissità narrativa che oggi è moneta corrente, specie in epoca di serialità spinta. Il fare “politicamente” risiedeva anche nelle forme, nella sperimentazione dei modi, in quell’eterno ritorno al montaggio delle attrazioni che vivifica il raccontare, persino all’uso accorto, tutt’altro che conciliatorio, del soundtrack, che un fine musicologo come Pugliese non poteva non notare, dedicandogli un apposito capitolo.

E si va dagli echi della ricerca novecentesca (Darmstadt, volentieri persino il renitente Nono) alle licenze di un Pino Donaggio, che per Ferrara compone le partiture di cinque film, finalmente sottratto al melodico e/o orrifico per cui va giustamente famoso e celebrato sugli schermi grandi e piccoli.
Al “ribelle permanente”, sempre all’erta anche sul piano critico e teorico, con ampia propensione agli aspetti didattici (come puntualmente documentato in apposita silloge del volume), è restituita la coerenza di un percorso filmico che davvero aiuta a “capire”. E pazienza per chi andando di fretta, magari alla ricerca di followers, parrà d’essere finito in un mondo alieno. Forse gli alieni veri, oggi, siamo tutti noi.
In copertina Gian Maria Volonté interpreta Aldo Moro ne Il caso Moro (1986)

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