La Mostra del cinema è finita, i suoi adepti sono andati in pace. E i lidensi si lamentano. I lidensi, in verità, si lamentano costantemente, quasi per professione. Lo dico da lidense con anzianità residenziale di oltre mezzo secolo. Si lamentano ora che tutto è finito, perché si torna alla consueta desertificazione; si lamentavano durante l’evento, per la confusione, l’affollamento e la logistica e viabilità sconvolte; e anche prima, per i necessari preparativi, i conseguenti disagi, ecc. ecc. Vivono la Mostra come un esproprio (tutt’altro che proletario…) del proprio “spazio vitale”, ma anche come un diritto inalienabile. Parecchi anni fa, durante la presidenza Portoghesi alla Biennale, quando le strutture della Mostra letteralmente scoppiavano per l’evidente divario fra la propria esiguità e la crescente domanda di pubblico e addetti, qualcuno tentò di aprire un timidissimo dibattito sulla possibilità di traslocare il festival dal Lido in centro storico (si parlava dell’Arsenale) o addirittura in terraferma, (Mestre o Padova), così da favorire tra l’altro quell’integrazione della Biennale nel territorio veneziano e veneto di cui si avvertiva non solo l’opportunità, ma financo la necessità statutaria, a meno di non voler ribadire il concetto che la Mostra “internazionale” d’arte cinematografica non fosse in realtà altro che un affare interno dell’“Isola Felice”.
Apriti cielo. Ci fu una sollevazione collettiva, si gridò al reato di “lesa lidità”, intere categorie si mobilitarono, e il dibattito fu strozzato nella culla. Poi, fortunatamente e grazie soprattutto all’illuminata e preziosa gestione di Paolo Baratta, la Biennale ha superato molti ostacoli e si è attivata progressivamente e costantemente nell’individuazione e nell’utilizzo di sempre nuovi spazi, così da assorbire in modo più che soddisfacente un’utenza in continuo aumento.
Intendiamoci. I lidensi hanno a ben vedere ottime ragioni per lamentarsi. L’isola ha subìto negli anni una cementificazione crescente e sciagurata (si veda il faraonico terminal dei vaporetti a S. Maria Elisabetta), in parallelo con vicende finite in modo poco lusinghiero sulla stampa nazionale e mondiale. Basti pensare al famigerato “buco” che doveva ospitare il nuovo Palacinema (dopo l’abbandono di un progetto di sopraelevazione del vecchio), per il quale è stata abbattuta una pineta, e che ha dovuto attendere anni per essere finalmente ricoperto, peraltro con una spianata di cemento dal bianco accecante solo in parte recuperato ad area verde; oppure all’incresciosa vicenda dell’ex Ospedale Al Mare, sorta di cimitero edilizio ormai quasi ridotto ad un insieme di rovine pericolanti. E potremmo continuare.
Si tratta comunque di sfregi che non sono riusciti a compromettere l’unicità di un territorio che non a caso era pressoché venerato dallo storico dell’arte Giuseppe Mazzariol, il quale vedeva in quella “striscia tra mare e laguna” un’oasi non solo naturalistica ma quasi spirituale.

Tuttavia, le recriminazioni intorno al “dopo Mostra” ruotano intorno alla sgradevole e perdurante sensazione di essere un territorio preso a noleggio, intensivamente sfruttato per un paio di settimane, e poi completamente abbandonato. Si tentò, in passato, e grazie alle istituzioni pubbliche (Comune e Biennale), di riempire almeno in parte il “vuoto” dei rimanenti 350 giorni all’anno e di utilizzare concretamente gli spazi allora esistenti, che consistevano nel vecchio Palazzo del cinema e nel Casinò inglobante il Teatro La Perla. Ricordo personalmente, anche per avervi partecipato attivamente, una rassegna cinematografica per le scuole nella vecchia Sala Volpi, una rassegna cinematografica alla Perla, una rassegna di film con accompagnamento di musica dal vivo in Sala Grande… Tutte prima o poi esauritesi o per mancanza di fondi o per mancanza di risposte dal pubblico (i famosi lidensi lamentosi).
Ora però le cose, in termini di locations, sono cambiate. Il Casinò è stato recuperato appieno ed offre durante la Mostra due sale interne più due laterali, cui va aggiunta la grande e ristrutturata sala Darsena. E questi sono spazi “permanenti” (a proposito: non si è sempre parlato, per la Biennale, delle famose e vagheggiate “attività permanenti”?), non effimeri: luoghi che restano. Vuoti, ovviamente.

Transitori sono invece il Pala Biennale in via Sandro Gallo, e la Sala Giardino (per capirci: il “cubo rosso”) che sorge vindice laddove avrebbe dovuto ergersi il nuovo Palacinema. E qui sorge una domanda: non sarebbe più intelligente e fruttuoso, invece di sborsare una cifra per tirarli su e poi tirarli via ogni anno, lasciarli (almeno il secondo) dove sono e studiarne un riutilizzo durante i mesi restanti? Estendendo tale utilizzo anche alle strutture fisse? Come auditorium, sale convegni, sale di proiezioni, sedi di eventi… (e non parliamo solo delle poche occasioni di meeting professionali che sporadicamente rianimano il Palacinema). Non contribuirebbe questo a quella rivitalizzazione del Lido da tutti – a parole – auspicata? Ovviamente dovrebbero essere iniziative di qualità (parola magica oggi in disuso, scalzata dalla gemella cattiva “quantità”), categoria che finalmente si è capito essere nient’affatto avversa a quella dell’intrattenimento, come proprio alcuni verdetti di giurie della Mostra dimostrano recentemente; ossia iniziative concordate e orchestrate con la moltitudine di intelligenze e di realtà culturali pubbliche e private che operano in città e che fanno di Venezia quello straordinario, potenziale laboratorio e cantiere di know how prefigurati a suo tempo da Giorgio Lago, grande e lungimirante direttore de Il Gazzettino, ma alle quali è sempre mancato un coordinamento e una capacità sinergica che le vedessero unire le forze, anziché farsi sterile concorrenza.

Checché se ne dica il Lido non è un dormitorio di lusso né solo un resort turistico; è una particolare realtà urbanistica, territoriale e sociale con enormi capacità attrattive sinora largamente sottoutilizzate. Non è un affare per “intellettuali snob” (categoria peraltro rispettabilissima, di questi tempi) ma anche una questione di economia diffusa, di PIL, di benessere collettivo, materiale e non. In altri termini, è la sensazione di “spreco” quella che infastidisce nell’assistere ogni anno al montaggio e allo smontaggio di strutture che in qualunque altro paese del mondo sarebbero custodite e sfruttate con gelosa cura. Ed è per questo che il silenzio che cala sull’isola dopo la Mostra, rotto solo dall’infaticabile pullulare di piccole ma valorose e meritorie iniziative locali, irrita ancora di più.
Sono considerazioni che pochi irriducibili avanzano da anni, se non decenni, già rassegnati alla miriade di obiezioni (alcune magari legittime, anche se i confini del possibile si sono ultimamente piuttosto estesi) che vengono immediatamente sollevate. Ma come diceva Napoleone “la vittoria appartiene ai più perseveranti”. Senza aspirare a tale modello (e ricordandoci di Waterloo…) vale la pena di insistere. Nel frattempo i lidensi, ça va sans dire, continueranno a lamentarsi.

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