Dal 1991 per otto giorni ogni anno sorge Black Rock City, teatro del Burning Man Festival. Il primo uomo – il gigantesco e iconico fantoccio ritualmente incendiato a conclusione della manifestazione – bruciò nel 1986 su una spiaggia di San Francisco, durante una festa tra amici, ma è il deserto salato del Nevada che ospita da quasi trent’anni il Burning Man Festival, una sorta di esperimento sociale che nell’edizione del 2019, conclusasi il 3 settembre, ha visto coinvolti 75.000 partecipanti.
Black Rock City è una città temporanea – ma indelebilmente presente su Google maps – costruita nel nulla di un ambiente naturale ostile a novecento chilometri da Las Vegas e a seicento da San Francisco, un organismo autosufficiente costruito secondo una precisa pianificazione urbanistica e regolato da poche rigide leggi.

Nonostante il salatissimo prezzo a cui sono venduti i pass di accesso, puntualmente esauriti a poche settimane dalla messa in vendita, a Black Rock City non si svolge nessun festival, come tiene a precisare ogni burner – così si autodefiniscono i membri della comunità. Le attività, le performance e le installazioni artistiche di cui i media diffondono le immagini sono opera completamente autonoma dei partecipanti, svincolati, a Black Rock City, da canoni sociali convenzionali, liberi di esprimersi all’interno della comunità e dello spazio al di fuori di ogni programma o scaletta.
Burning Man sembra inscenare l’utopia dell’Internazionale Situazionista proiettata nell’era contemporanea, un mondo apparentemente anarchico e manifestatamente giocoso, uno spazio urbano in sintonia con i desideri degli abitanti, concepito come prodotto dell’attività sociale, come
momenti di vita concretamente e deliberatamente costruiti mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di eventi.
I situazionisti, come i burners, si proponevano di ampliare il potenziale espressivo e performativo della vita sociale, così che dalla sua manifestazione potessero derivare spazio urbano e forma civica. Allora, Black Rock City appare come una modalità di esperienza dell’immaginario, in cui ciascuno è libero di sperimentare un’identità collettiva modellata dall’ambiente e da ciò che vi accade.

Ogni anno articoli e reportage ricordano al resto del mondo l’esistenza di Black Rock City e del Burning Man Festival, ma il reale successo di questo fenomeno non è determinato dal fascino dell’impronta anarchico-yuppie dipinta dai media: ciò che attrae migliaia di individui nel deserto, ogni estate, è la possibilità di identificarsi in un immaginario e di sentirsi concretamente parte, se pur per pochi giorni, di una comunità virtuale che esiste al di fuori di Black Rock.
Lo stimolo spontaneo a costituirsi in una forma civica, nonostante la natura anticonformista di questa specifica comunità, il desiderio di essere cittadini di Black Rock, conclama l’esistenza dei burners nel mondo, al quale offre uno sguardo su uno schema sociale futuribile, una sorta di sineddoche di una società utopica. Lauren Christos, burner di lunga data nonché ricercatrice alla Florida International University in qualità di Art & History Specialist, durante un’intervista che le feci nel 2016 a Miami sintetizzò così le intenzioni dei burners:
We are just playing Utopia.

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