Sei un direttore creativo pluripremiato, un noto scrittore e un fotografo, eppure hai scelto di presentarti con l’appellativo di contastorie. Perché credi sia questa la descrizione che ti dipinge meglio?
I ricordi più cari della mia infanzia sono legati a quelle serate nebbiose e invernali spese attorno al fuoco crepitante del caminetto a raccontarsi. In quelle serate era consuetudine intrattenerci a vicenda con storie inventate al momento. Mantenere viva l’attenzione degli altri ragazzi non era impresa da poco, così ognuno di noi si ingegnava in racconti sempre più assurdi e fantasiosi.
Amavo immensamente lanciare al galoppo la mia immaginazione. E mi considero strafortunato a lavorare in campo pubblicitario, una professione che mi consente di interagire con le persone proprio con le storie, attraverso i formati più diversi: tv, radio, stampa e digitale. Se non mi è possibile raccontare storie con la pubblicità, allora scrivo racconti (il desiderio è pungente). Anche per quanto riguarda la fotografia cerco una storia da raccontare. Dopotutto è questo che rende la foto viva. È per questo che ho scelto il nomignolo “storyteller”. Perché qualunque cosa io faccia, sento il bisogno di avere una storia da raccontare; altrimenti non c’è gusto.

Hai detto: “la magia della fotografia in bianco e nero non può essere definita, solo sentita”. Puoi approfondire?
I colori sono intrattenimento e perfino confusione. Una fotografia di media fattura con generose spruzzate di colore può comunque attrarre l’attenzione dell’occhio. Ma un’immagine priva di ogni colore è crudamente esposta all’osservatore. Se non contiene qualcosa di convincente – la composizione, l’atmosfera, la luce, il soggetto – è come una brutta pubblicità per un prodotto; non impressionerà anche se viene vista dalla gente. Ed è per questo che sono convinto che un bianco e nero eccellente può far emergere emozioni molto profonde. Puoi non essere in grado di descrivere quel sentimento, ma certamente lo puoi sentire.

Come viaggiatore hai assimiliato la capacità di “anticipare i propri impulsi”. Questa abilità influenza il tuo modo di fotografare?
Come tanti fotografi, visitare posti nuovi significa caricarsi di un notevole bagaglio sensoriale, in positivo. In qualche modo si accresce un “senso” di anticipazione. Devi solo aspettare, con un po’ di pazienza. E le storie si riveleranno davanti ai tuoi occhi.

I tuoi ritratti sono particolari e coinvolgenti. Qual è il tuo modo di interagire con i soggetti che fotografi, che spesso sono dei totali sconosciuti che incontri proprio durante il viaggio?
Credo e seguo il concetto di viaggio “slow”. Quando visito un nuovo paese, seguire l’itinerario dei monumenti imperdibili non è nella mia lista di priorità. Per questo credo di non aver mai visitato a sufficienza i luoghi in cui ho viaggiato. Quello che ho ricevuto in cambio però sono state conversazioni personali con i locali. Il “Roadside Artist” di Bali, per esempio: restare in un posto un po’ più a lungo consente di ottenere di più che il semplice classico gesto di saluto con gli autoctoni. E questo è solo un bene.

Credo che ogni immagine racconti una storia. Quando ho visto per la prima volta “The long wait”, la fotografia selezionata per “Dream of Venice in Black and White”, ho provato la magia evocativa del bianco e nero. Puoi condividere il significato di quella particolare foto?
Il significato di ‘The long Wait’ mi tocca in maniera particolare. Era l’ottobre 2017 quando con mia madre abbiamo intrapreso un viaggio dell’anima in Italia. Non le era stato ancora diagnosticata quella che sarebbe poco dopo diventata una malattia moto-neuronale degenerativa piuttosto invalidante e a uno stadio terminale. A quel tempo, comunque, aveva difficoltà a camminare. La necessità era all’epoca una sedia a rotelle. Seppure mia madre fosse incantata da Venezia, si sentiva comunque uno schifo, perché sapeva quanto fossi ansioso di stare sulla macchina fotografica per catturare gli attimi della città, mentre le mie mani erano perennemente occupate dai manubri della sedia a rotelle, la mia macchina fotografica non alla mia portata, chiusa nella borsa a tracolla…
Così ho tirato fuori il meglio dalla situazione: ho esplorato la Venezia di notte. Dopo una giornata impregnata di visite ai monumenti ho riportato la mamma al nostro appartamento di Cannaregio, abbiamo cenato insieme, le ho rimboccato le coperte, e sono uscito solo con la macchina fotografica. Ed è così che ho scattato “The long wait” vicino al ponte di Rialto.
Quasi un anno dopo quel viaggio ho dato a mia madre la copia di Dream of Venice in Black and White. All’inizio ha pensato che fosse semplicemente un libro su Venezia. Poi le ho mostrato la mia foto. Nonostante le sue condizioni fisiche è riuscita a illuminarsi in un sorriso. E non si è sentita più in colpa per non avermi permesso di visitare la città come avrei voluto senza la sua invalidante presenza. Mia madre è mancata nel maggio 2019. Quel viaggio in Italia fu la nostra ultima vacanza insieme e rimarrà per sempre un ricordo prezioso.

Mriganka (Micky) Kalita
Dream of Venice in Black and White
JoAnn Locktov
Manuela Cattaneo della Volta (translation)

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