Sandro Nardo ci ha lasciati. A Castello teneva il suo magazzino in calle Drio del Campaniel, nell’isola dove sorgono la chiesa di San Piero e la fabbrica dell’antico convento. Un tempo il centro del cuore pulsante della Venezia religiosa che ospitava la sede patriarcale. L’ultimo baluardo di una città popolana e fiera di mantenere le sue tradizioni, rinnovate ogni anno con la festa di San Piero di Castello, uno dei più partecipati e veraci appuntamenti del calendario civile cittadino.
Nardo era l’epigono di un mestiere che un tempo ha sfamato i suoi abitanti. Faceva il pescatore di professione. Per ytali ho avuto modo di intervistarlo nel maggio di un anno fa [qui di seguito ripubblichiamo l’articolo], e mi è impossibile dimenticare quei suoi occhi acquamarina da cui traspariva la consapevolezza di rappresentare irrimediabilmente un glorioso passato, in cui gli elementi naturali, nel suo caso l’acqua, le nuvole, le correnti, i venti e le maree, costituivano ancora il perno attorno al quale organizzare, giorno dopo giorno, la propria esistenza. Quel che colpiva in Nardo era la sua costante attenzione ai messaggi provenienti dalla natura. Lui di certo non era vittima della presunzione catastrofica della nostra contemporaneità che la natura ha preteso trasformarla in suo strumento.
In passato ha avuto problemi di cuore, e durante il nostro incontro si scoprì il petto mostrandomi la traccia di una lunga cicatrice. Era sicuro di essere stato messo a nuovo dopo l’intervento. Così alla fine purtroppo non è stato. Si è aggravato e in tre settimane se n’è andato ad appena sessant’anni. Parenti e amici lo ricorderanno nella chiesa di San Piero il 17 settembre alle 11. Per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo passare in calle dove teneva il magazzino non sarà più come prima. (c. m.)
Dice che la passione della pesca l’ha avuta da sempre, e che dopo un periodo di lavoro in officina ha smesso la tuta quarant’anni fa per fare il pescatore. Sandro Nardo, che tutti nel sestiere chiamano col cognome, non è figlio d’arte. A Castello ha il suo magazzino dove tiene un po’ di tutto in calle Drio del Campaniel, nell’isola su cui sorge la chiesa di San Piero e l’attiguo ex convento, già sede del patriarca fino al trasferimento in basilica a San Marco.
Graziosa decisione di Napoleone, desideroso di far occupare dal rappresentante del potere spirituale lo spazio che già era stato cappella privata del massimo esponente di quello temporale. Tanto per rendere il messaggio ben chiaro, se qualche tentazione di restaurazione fosse mai venuta a qualcuno di quei tremebondi nobili.
Che avevano codardamente abdicato alle truppe francesi che bivaccavano in terraferma, messi in fuga dai primi tiri di schioppo degli schiavoni mentre in riva si imbarcavano felici di far rientro sull’altra sponda. Tutti a casa, schiavoni e nobili, all’arrivo del corso.
Mia mamma si è lagnata per anni per lo spavento di vedermi andar per mare, mandando a ramengo il vecchio Bieli, Gabriele, che in calle dove vivevamo aggiustava le sue reti e che lei credeva mi avesse trasmesso l’amore per la pesca.
Nardo così oggi racconta, in piedi sull’uscio del suo magazzino, guardandomi con occhi celeste profondo, lo sguardo che a momenti si smarrisce in se stesso, velandosi forse di ricordi e nostalgie.
Nella luce rotonda del pomeriggio, a tratti mi ricorda il Tiziano dell’autoritratto, solo un bel po’ più giovane, con barba più corta e senza lo zucchetto scuro che proteggeva la pelata al cadorino. Per il resto, lo stesso carattere schietto e deciso che s’intuisce dallo sguardo, che non a caso accomuna montanari e chi va per mare.
A due passi da San Piero, nella calle che sbuca in fondamenta Quintavalle dove sono ormeggiate le sue due barche, una sanpierota vecchia di quarant’anni fatta dai fratelli Schiavon a Portosecco di Pellestrina, che non usa più per lavorare. E la barca dal fianco alto e più sicura, con scafo di vetro resina e la coperta di un legno sofferto color blu, munita di albero a crocetta ammainabile di acciaio, che Nardo rizza in mare per tirar su i pesanti “cogoi” delle seppie.
Confesso che con i suoi quaranta cavalli mi comunica un’idea di robustezza che mi tranquillizza al confronto della fragilità dello scafo in legno, che immagino, avendone più volte fatta personale esperienza, lottare con infinita pena tra le onde, le correnti e gli scontri di marea in bocca di porto.
“Non è andata bene la stagione delle seppie che si è appena conclusa, mi dice Nardo. Se ne pesca sempre meno in mare.” Una pesca che si pratica con un tipo di reti chiamate “cogoi” o, come trascrive Giuseppe Boerio a metà dell’Ottocento nel suo meraviglioso Dizionario, cogoli, essendo la elle muta in veneziano.
Una rete lunga fissata al fondo con ancore è segnalata da bandiere, composta da varie parti che i valligiani hanno suddiviso in “chiara”, fatta di rete a maglia chiara o rada. In “busto”, che unisce la “chiara” alla “mezana”. A maglia ancor più piccola del “busto”. Per giungere finalmente all’ultima parte della cogolaria, che prende il nome di “pelèla”, fitta e forte in cui, dopo il passaggio, le seppie e i bisati, le anguille che hanno ripreso a popolare la laguna da cui erano spariti, entrano e giungono finalmente nell’ “enca”, l’entratura strettissima a forma d’imbuto che impedisce alle prede di tornare indietro.
Pescatore di cagnoleti, branzini, orate, sfogi, schie e di tutto quanto è pescabile, quella di Nardo, a cinquantanove anni compiuti a maggio, è la passione. Pesca ovunque, in laguna e in mare, avendo cominciato negli anni Ottanta con la sanpierota. Mi confessa che qualche volta ha avuto paura, “ma è bello”, e i suoi occhi guizzano. “A volte quando prendo brutto tempo, mi chiedo chi me lo fa fare. Ma mi piace”, a tal punto che gli è impossibile rinunciare all’impagabile libertà.
D’inverno peschiamo schie, il gamberetto bruno. Più il tempo è brutto e più peschiamo, non c’è nessuno in mare. Da quando hanno fatto il Mose stringendo il porto la corrente è ancora più forte. Facevamo già fatica ed era pericoloso uscire in mare con la “dozana” quando l’acqua cala, ora è un fiume. In laguna invece in maggior parte pesco branzini con le reti. Ma con tutti i nuovi regolamenti e i canali navigabili è sempre più difficile farlo. In poche parole saresti sempre fuori legge.
Pesca con le reti, al “giro dell’acqua”, quando la marea si blocca prima di invertire il suo corso e per una mezz’ora si ferma.
In quel momento puoi pescare, racconta, prima che l’acqua riprenda a correre, riempiendoti le reti di alghe, quello che noi chiamiamo lo sporco.
Sul problema del moto ondoso in laguna ha idee chiare,
è un fenomeno impressionante, dice, se non si danno una regolata… Stamattina ho tirato su un cogolo in laguna, nemmeno in mare ci sono onde simili, e facevo fatica a stare in piedi. E da quando hanno deviato i lancioni turistici alle Fondamente Nuove è ancora peggio in bacino.
Non fa la pesca con la seragia, le reti infisse con paletti sul palugo in acqua relativamente bassa che si vedono in laguna sud e nord da primavera a fine estate. E ha smesso da poco la pesca al ghiozzo, il go in veneziano, fatta con canne di bambù che alla estremità che va piantata nel fango hanno una gabbietta dove viene messa della polpa di granchio, quale esca per i pesci.
Ho appena dato via tutta l’attrezzatura perché i go erano mancati. Ma quest’anno ce ne sono diversi. È una bella pesca,
precisa.
In laguna va a pesca ovunque
dove c’è il pesce, mi dice, e sempre al “giro dell’acqua”, che dura una mezz’ora. Ma il lavoro lungo è quello di mettere in ordine le reti una volta finito di pescare, specialmente quando prendo lo “sporco” perché l’acqua comincia a camminare. Non è una cosa tanto semplice e può durare anche ore.
Il pesce, Nardo lo vende al mercato ittico all’ingrosso, all’asta, con gli altri pescatori professionisti che, come lui, costituiscono il ristretto popolo delle barchette o della piccola pesca. Per loro non vale il fermo pesca come per i pescherecci in epoca di riproduzione del pesce.
Pesco tutto l’anno. Branzini d’inverno, seguiti dalle seppie e dai cagnoletti. Poi arriva la stagione delle orate in porto. Per le schie uso i cogoli ancorati fuori in mare. E qualche volta la corrente me li porta via, perché a differenza del cogolo da seppie, quello da schie è ben fisso sul fondo. E quando fa mare, tutti i sacchetti e altro sporco che la corrente trascina con se vanno sui cogoli, e fanno vela. Tant’è vero che per andare a schie aspettiamo che passino i primi maltempi, per evitare di prendere un sacco di sporco. Cominciamo ad andare dopo le prime acque alte, che puliscono tutta la spiaggia.
Quando ha cominciato a pescare a Castello del suo mestiere vivevano quattro famiglie.
Ora sono rimasto solo. Sono l’ultimo qui. Alla Giudecca sono rimasti i Bognolo, ma loro sono “molecanti” e pescano anche gamberi e anguelle. Quello del “molecante” è un altro tipo di mestiere. Ho provato un sacco di volte ma non sono capace. Bisogna saper distinguere i granchi e capire quelli che si trasformano in “moeca”. A me piace di più il mare.
Racconta che sono tornati i bisati, le anguille di mare, le cui carni magre sono insuperabili rispetto a quelli di allevamento.
Da un bel pezzo erano spariti, e quest’anno sono tornati. Ce ne sono diversi. I buranelli e i giudecchini che fanno la pesca con seragia ne prendono. Se devo essere sincero, dai tempi in cui ho cominciato mi sembra che ci sia più pesce ora. C’è meno inquinamento. Qualche volta vado verso porto San Leonardo, vicino agli Alberoni, e trovo le stelle marine, che vivono solo in acque molto pulite.
Spariti invece i passarini, le passere di mare.
Sono stati sterminati negli anni in cui in molti andavano a “fagia” con la lampada e la fiocina prendendone trenta quaranta chili per notte. Spesso danno la colpa ai pescatori professionisti per la diminuzione delle seppie perché usano i cogoli. Ma non bisogna dimenticare che i pescatori sportivi usano le totanare artificiali e ne pescano quaranta chili al giorno. Centinaia di barche tutti i giorni. Quando c’è la stagione delle seppioline che sono grandi come una mia unghia, ne prendono venti chili alla volta, e le vendono. Vendono tutti.
Gli chiedo se il suo lavoro gli piace. La risposta è secca e senza tentennamenti:
Sì. Ora come ora col mio lavoro si vive. Mia moglie spesso mi dice di cambiare occupazione, ma ormai ho sessant’anni. Capita che vai a pescare e non prendi niente, ma le volte che pesco faccio “musina”, risparmio, e così ce la faccio. È un lavoro che mi piace.
Alla festa di San Piero di Castello, una delle più sentite sagre cittadine, Nardo da anni porta una cesta di pesce al patriarca in visita per la messa solenne. Pesce che poi va alle suore del Betania che lo usano per la loro mensa.
Ricordo bene il vecchio patriarca Marco Ce. Era un bel vecchietto, simpatico. Ma tutto quello che faccio dura un attimo. Anche con l’attuale patriarca Moraglia. Salgo sul palco e ci diamo la mano, e poi appena posso scappo a casa a togliermi camicia e pantaloni lunghi. Mi vedi vestito di tutto punto a seguire la messa cantata?
Effettivamente qualche difficoltà a vedercelo ce l’ho pure. “Ma sono ormai anni che mi hanno coinvolto. È una bella tradizione”. Nardo ha due figlie, la maggiore delle quali era appassionata alla pesca, tanto che a volte ha dovuto portarla.
Una volta la guardia di finanza mi ha fermato con lei a bordo, e ricordo che i militari che ben mi conoscevano si erano stupiti che andassi a pescare con la bambina. Spesso da fuori in mare la trainavo fino a qua a San Piero legando un paiolo della barca su cui lei montava. Ora per una cosa del genere vai in grane.
In fondo una volta tutti i ragazzi nuotavano nei rii, la gente arrostiva il pesce alla griglia fuori della porta di casa. E le vecchiette sedevano a ciacolare assieme in calle. Quello di arrostire il pesce è una cosa che è invece sparita. Si vedono ancora le donne tra le case e il campanile di San Piero sedere nei pomeriggi d’estate, in quel posto dove circola più aria. Ma il sestiere è profondamente cambiato. Ci sono case per turisti ovunque. Solo in questa calle ce ne sono tre quattro.
Il mestiere, tornasse indietro, lo rifarebbe. Su questo non ci piove.
Lo farei anche meglio, con l’esperienza di adesso. Certo che avevo imparato delle cose e poi col Mose è cambiato tutto. Forse bastava fare la lunata. Hai mai visto il mare montato a scirocco che frange contro la diga? È uno spettacolo meraviglioso. Poi il Mose a San Nicoletto è in disarmo, ci sono solo due guardiani. Agli Alberoni fanno dei lavori. E purtroppo nessuno toglierà mai tutto quello che hanno fatto.
Tra i cambiamenti positivi, Nardo elenca la sparizione della mucillagine che ha intossicato la laguna per anni.
È aumentata la violenza dei fenomeni atmosferici. Quando arriva un temporale pesta più duro. Ora d’estate esco meno a pescare le orate. Le pescano tutti e poi le vendono, così che non vale la pena. La pesca sportiva non esiste più, ora sono tutti professionisti, tanto che bisognerebbe introdurre dei limiti come esiste nella caccia.
Ma è d’inverno che Nardo ama andare a pescare in mare, quando più fa maltempo. E quando conseguentemente più si pesca. Del freddo che si mangia andando fuori delle bocche di porto per mettere le reti poco sembra gli importi.
All’andata sei ben coperto e una volta fuori ti scaldi lavorando. È quando torni sudato col freddo che è un tormento.
Le reti che usa fanno bella mostra nel suo vasto magazzino con le travi di legno bianco a vista, una specie di old curiosity shop che ospita un po’ di tutto e rasenta l’incredibile. Dai servizi antichi da tè e caffè, a una piccola galleria di quadri e stampe, a crocefissi e immagini religiose, agli uccelli di legno colorato. Disorienta all’inizio, poi per qualche strana ragione si finisce per pensare che alla fine dei conti non stanno così male con reti da pesca e ancore accatastate ordinatamente sugli scaffali.
Le reti le compra a peso a Chioggia e poi se le prepara lui, come ogni buon professionista.
Qualche volta, ricorda, ho pescato anche roba un po’ grossa, come delle verdesche e un pescespada. Ma siamo pieni di meduse. Stamattina ne avevo i cogoli pieni e ho faticato un bel po’ a tirarli in barca. Mi piaceva una pesca che si è un po’ persa e che facevo così con gli amici. Non per vendere. Andavamo a triglie e lucerne, lasciandoci trasportare fuori dalla “dozana”. Ora pesco col trimaglio.
Chiedo fino a quando pensa di andare avanti, e mi mostra il segno di una lunga cicatrice che gli corre perpendicolare sul petto.
Come vedi non dovrei più fare nulla. Avevo una pensione ma me l’hanno tolta due anni fa dopo otto che la percepivo. Sono guarito dalla mattina alla sera. Delle due valvole e la macchinetta che mi hanno messo con l’operazione non ho nessun ricordo.
servizio fotografico di Giovanni Vianello

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2 commenti
Bellissimo questo articolo, che dà onore a un uomo della laguna e del nostro mare.
Bello e interessante perchè dà un resoconto dei cambiamenti del nostro ambiente (il Mose, il moto ondoso abnorme) e della sensibilità per la natura che tutti i veneziani sanno essere propria dei pescatori, e della loro saggezza.
Inoltre bisognerebbe riflettere sulle limitazioni dei regolamenti sulla pesca e sul fatto che i pescatori sono sempre meno.
Ho apprezzato inoltre il fatto che Sandro portasse con sè a pescare sua figlia… purtroppo ancora oggi il mondo dei pescatori è un mondo maschile.
A questa figlia e alla sua famiglia dico che devono essere fieri di lui, e certo lo saranno senza che io lo dica.
Quanta nostalgia..per chi ha vissuto quella vita ….e atmosfera quasi magica”paragonandola alla vita di oggi” sig.