Ci sono esistenze che continuano a porre e rilanciare interrogativi. Fatte apposta, si direbbe, per destare la curiosità e stuzzicare la fantasia della narrativa, letteraria e cinematografica. E ci sono scrittori che non si sottraggono al fascino di quelle complesse e a volte irrisolte ambiguità, mettendosi direttamente in gioco per provare a raccontarle. Nel filone di una autofiction dove lo scrittore balza in primo piano nella ricostruzione di personaggi e accadimenti, narrandone autobiograficamente le modalità, si collocano, per dire, Emmanuel Carrère e Javier Cercas, chi accostando fatti e persone ancora in “corso d’opera” e chi setacciando il passato, per riportare in vita figure le cui parabole si perdono nei meandri di contesti che sono per loro conto Storia.
Tra i francesi che si mettono in gioco, Philippe Jaenada, parigino del 1964, fattosi un nome di recente con un paio di romanzi (Sulak, 2013; La petite femelle, 2015; entrambi inediti in Italia) che per l’appunto si occupano di storie “vere”, sia pur ascrivibili al capitolo della série noire. Per inciso, è curioso annotare come nell’era della comunicazione fake, la finzione avverta la necessità di operare sul corpo vivo del “vero”, avvertendo in premessa lettori e spettatori che quanto leggeranno e vedranno appartiene a personaggi e fatti realmente accaduti o ad essi comunque ispirati. Quasi che il verosimile voglia farsi realtà nell’istante stesso in cui quest’ultima scivola nella surrettizia dimensione della percezione, che è pur sempre una rappresentazione.
Jaenada, dicevamo, che ora Sellerio manda in libreria con Lo strano caso di Henri Girard, in originale La serpe, uscito in Francia nel 2017, Prix Fémina, tradotto da Angelo Molica Franco. Parliamo di un tizio volentieri spiazzante e sconcertante, di cui l’autore viene a conoscenza quasi per caso (gliene parla per la prima volta il padre di un amico di suo figlio, nipote del Nostro, o forse del Mostro), muovendosi poi in macchina da Parigi alla volta di un castello isolato della Dordogna, località Escoire, dove nel 1941 ebbe a consumarsi un efferato piccolo massacro a colpi di roncola: tre morti e un solo sopravvissuto, il giovane Henri Girard, che il giorno dopo chiama la polizia ma che di quegli omicidi (il padre, una zia e la cameriera) sarà chiamato in giudizio, giacché non c’è sospetto o indizio che non ricada su di lui. Per tutti colpevole, anche nella memoria di chi c’era o di chi ha solo sentito raccontare. Il giovane va a processo nel 1943 e viene incredibilmente assolto: non è stato lui e mai si saprà chi davvero è stato. Ce n’è a sufficienza, concorderete, per volerne sapere di più, sia pure in chiave squisitamente letteraria. Ma non è ancora tutto…

Henri Girard, il presunto massacratore, è stato nella vita anche Georges Arnaud, romanziere di una qualche fama, autore in particolare nel 1950 di un romanzo destinato al successo: Le salaire de la peur, desunto dai suoi precedenti vagabondaggi in America Latina, la storia di un trasporto impossibile di nitroglicerina sulle strade dissestate di una qualche foresta sudamericana, poi film con lo stesso titolo (qui da noi Vite vendute) per la regia di Henri-Georges Clouzot nel 1953, Gran premio della giuria a Cannes e Orso d’oro a Berlino, memorabile interpretazione – tra gli altri – di Yves Montand. Un film che piace ai critici, addirittura acclamato dalle platee ma disdegnato da Girard/Arnaud per le troppe licenze in sede di sceneggiatura, del tipo “quel film non è più mio”. E da lì in poi un’irreprensibile carriera giornalistica al servizio dei più deboli, dalla parte degli algerini ben prima che scoppi la “battaglia di Algeri”, insieme tra gli altri a Sartre e Prévert, residente per un decennio in quella città “liberata” dopo l’indipendenza (gran scorno per i molti che non avevano mai digerito il ritorno forzato in Francia, pieds noirs e dintorni), sempre in ogni caso dalla parte giusta, sino alla morte, in Catalogna nel 1987, per arresto cardiaco, ma sul corpo di un settantenne afflitto dalla tubercolosi, presa dalla madre, atea, anarchica e decisamente indesiderata in una famiglia con tanti cognomi, d’antico lignaggio, non curata a dovere e lasciata sostanzialmente morire in giovane età. Ecco un buon motivo di rancore per spiegare la roncola di Escoire…
Jaenada, che nel frattempo procede non senza fatica verso il Périgord, a bordo di una macchina presa a noleggio che continua a segnalare pneumatici in via di improbabile dégonflage (maledetti computer di bordo!), non usa mezze misure nel presentarci il Girard prima maniera, il giovane scapestrato che precede le ammazzatine di Escoire:
Il personaggio principale, Henri, il vero demonio, è tanto per cominciare una peste. Viziato, irascibile, violento, cinico e superbo, è l’unico rampollo di una nobile famiglia, come si suol dire: sottrae ai suoi famigliari tutto il denaro che può, lo scialacqua a destra e a manca, s’infuria quando si rifiutano di rimpinguarlo subito e, se si ostinano a non volergli dare tutto quello che chiede, ruba e rivende i loro mobili o i gioielli non appena gli voltano le spalle.
Davvero un bel tipetto: ben possibile che per risentimento o necessità si lasci andare al jeu de massacre, con il movente dell’eredità oltretutto. Una volta assolto, provvederà a dilapidarla in breve lasso di tempo. Eppure, non tutto quadra, e tanto per cominciare c’è dell’affetto autentico e reciproco tra padre e figlio, una delle vittime e il presunto carnefice. Un affetto che non viene mai meno e che è persino condivisione di ideali politici nella Francia frastornata dell’occupazione e della repubblichetta complice di Vichy, per la quale il padre – alto funzionario ministeriale – è costretto a lavorare, ma senza mai condividerne metodi e finalità, vicino piuttosto alla Resistenza. Tanto che, a commento del massacro, c’è chi ipotizzerà la manina del Maresciallo Pétain, dei suoi servizi e accoliti: l’eliminazione di un avversario “interno”, l’improvvida scoperta di un qualche imbarazzante altarino repubblichino e via dicendo.
Davvero uno strano caso, quello di Henri Girard, che Philippe Jaenada si sforza in ogni modo di acclarare, con una puntigliosità di indagine anche sui dettagli, fino alla visita del castello che fu teatro, che obbliga più di una volta il lettore a fare un passo indietro e a rileggere. E l’autore rasenta persino la prolissità nel dissertare, quando non sono le divagazioni del suo stesso vissuto ad allontanarci per un attimo dal cuore del romanzo. Di cui non vi staremo naturalmente ad anticipare le conclusioni, se non per segnalare l’irriducibile resistenza di certa realtà a farsi illuminare dalla verità. E attenzione al titolo originale: La serpe, che facilmente in italiano tradurremmo con serpente, ipotizzando – nell’intrigo di una faida famigliare – la classica serpe in seno. Niente di tutto questo: in francese sta per roncola, falcetto. Ovvero, fattualmente e banalmente, l’arma del delitto. Che poi l’etimo porti al serpent fa parte del gioco. O del destino, fate voi.


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