Arabi d’Israele. Un successo che si riverbera su tutto il Medio Oriente

Per la politica araba quello delle elezioni israeliane è da considerarsi un nuovo inizio dopo che panarabisti e panislamisti sono riusciti ad affogare nel sangue la primavera libanese, tunisina, libica, egiziana, yemenita, del Bahrein, siriana, yemenita, algerina. Un inizio che sceglie di affermare i propri diritti e non negarli, come è accaduto in gran parte dei casi della storia recente.
RICCARDO CRISTIANO
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Quasi tutti i commenti all’esito delle elezioni israeliane hanno evidenziato l’importanza di un dato che pochi si aspettavano, la massiccia partecipazione al voto di quelli che tutti chiamano gli arabi israeliani. Questo segmento della popolazione di Israele non è solita partecipare in modo così rilevante al voto, e questa volta – fatto non del tutto nuovo ma neppure usuale – l’ha fatto aderendo a una lista unica che evidentemente è riuscita a rappresentarli e a esprimere il loro desiderio di contare, portandoli ad avere più del dieci per cento degli eletti.

Questo dato è stato letto, correttamente, in chiave di politica interna israeliana, nel suo rilevante significato per l’esito complessivo e per gli equilibri parlamentari. In effetti le implicazioni da molti evidenziate sono considerevoli per gli equilibri e l’esito complessivo, che ha penalizzato il premier uscente Netanyahu, ha certamente visto tra i fattori che lo hanno determinato anche questo. 

Se si considera che la loro situazione era molto difficile a fronte della politica interna del governo uscente e delle sue scelte si può considerare questo esito naturale. Ma visto che la situazione interna degli arabi israeliani non è mai stata facile, il fatto che oggi fosse pericolosamente difficilissima non rende per nulla scontato che la risposta fosse questa. Poteva essere “boicottiamo le urne del nemico sionista”, o “scioperi, non voto”. Dunque c’è un valore anche “arabo” in questo risultato? 

Da molti decenni la politica araba è stata caratterizzata da espressioni negative: “rifiuto”, come ad esempio il famoso “fronte del rifiuto” che univa i paesi più fermi nel respingere ogni ipotesi di negoziato con Israele; “boicottaggio”, termine evocato tantissime volte dai tempi dello shock petrolifero. Questo del “no” è un po’ il dato politico identificativo degli arabi, della cultura politica araba. Lo si potrebbe interpretare così: ogni compromesso è un tradimento, un cedimento, “davanti ai nostri diritti il mondo congiura contro di noi e noi dobbiamo difenderli nella loro interezza, senza se e senza ma”.

“L’incontro con i nostri incredibili liceali è stato piena di speranza. Quella che cresce qui è una generazione che sa bene che siamo noi quelli che devono prenderci i diritti e l’influenza che meritiamo per noi stessi perché nessuno ce li darà”. Il leader di Joint List, Ayman Odeh, in un incontro elettorale

La politica così ha progressivamente perso senso, solo la battaglia aveva senso. L’idea che solo la battaglia avesse senso ha finito però col cancellare la politica, riducendola o ai generali che hanno confiscato il campo laico o ai jihadisti che hanno confiscato quello religioso. Panarabismo e panislamismo sono diventate due malattie totalitarie che hanno finito col rappresentare tutto lo schieramento arabo. Malattie contrapposte, nemiche l’una dell’altra, ma che entrambe sembrano espresse bene dallo slogan nasseriano “nessuna voce si levi sopra la voce della battaglia.” Nessuna voce, neanche quella che vuole affermare i propri diritti, la propria intenzione di vedere migliorare i servizi pubblici, la sanità, la distribuzione interne delle risorse, la sicurezza sul lavoro e così via.

Tutto questo ha pietrificato la politica araba, cancellato la politica interna, finendo col far apparire normale a tutto il mondo che un paese affogato dai debiti e dalla crisi economica spenda miliardi per “combattenti” all’estero.

Ai mondi politici del “no”, classica rappresentazione del panarabismo e del panislamismo, non hanno infatti mai corrisposto azioni per risolvere i problemi della popolazione, ma solo una rappresentazione ideologica e globale dei problemi, attribuiti di norma all’America e al colonialismo da entrambi, mai alla propria cleptocrazia e tirannia. A tutto questo la prima risposta compiutamente e collettivamente araba è stata la cosiddetta Primavera.

I primi sono stati i libanesi nel 2005, dopo che i panarabisti laici insieme ai jihadisti panislamisti uccisero il premier libanese Hariri. Poi, nel 2011, sono arrivati tunisini, egiziani, libici, yemeniti, siriani, iracheni, più recentemente sudanesi e algerini. Tutti questi popoli hanno deciso di dire di no a che cosa? Alle diverse interpretazioni totalitarie e sprezzanti del vecchio slogan nasseriano “nessuna voce si levi sopra la voce della battaglia.” No, quei popoli hanno chiaramente espresso il loro desiderio di far sentire la loro voce in modo nonviolento, di farla sentire più di quella della battaglia, ritenendo che la vera battaglia debba essere politica e culturale. “Basta usare il rifiuto per dominarci!”: questo sembrerebbe il messaggio della Primavera, che ha portato dunque a galla una volontà di compromesso, nel senso nobile della parola, di confronto interno. Detto in un’espressione sola, “di liberalità”.

Un comizio elettorale di Ayman Odeh

Oggi questo dato emerge dal segmento più negletto di mondo arabo, quello degli arabi israeliani. Non hanno scelto i razzi, il boicottaggio, il rifiuto, no. Hanno detto al mondo arabo che come la Primavera anche loro scelgono la politica, l’assunzione di responsabilità, la voglia di esserci e di non delegare ad altri la propria vita. 

Se questa lettura fosse fondata potremmo dire che per la politica araba quello delle elezioni israeliane sia stato un nuovo inizio dopo che panarabisti e panislamisti sono riusciti ad affogare nel sangue la primavera libanese, tunisina, libica, egiziana, yemenita, del Bahrein, siriana, yemenita, algerina (del Sudan speriamo di no). Un inizio che sceglie di affermare i propri diritti non negandoli, come è accaduto in gran parte dei casi della storia recente. Perché, se ci si pensa bene, non è fondato il sospetto che panislamismo e panarabismo abbiano pensato da decenni che solo aggravando i problemi li si sarebbe potuti usare per negare il libero confronto, il libero voto e qualche appropriazione indebita in meno?

Arabi d’Israele. Un successo che si riverbera su tutto il Medio Oriente ultima modifica: 2019-09-20T14:40:17+02:00 da RICCARDO CRISTIANO
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