L’ estate sta finendo… cantavano i Righeira in un noto ritornello ai tempi dell’edonismo reaganiano ma oggi Roberto D’Agostino fa Dagospia e “cafonal” non è più una rubrica sulle terrazze romane ma rischia di essere la cifra di una politica fatta solo di incontri a cena, sfuriate mediatiche e colpi di scena. La politica ha insomma assunto in pieno i canoni dello spettacolo e sembra davvero difficile riportarla almeno nei termini del buon senso, senza tentare di reintrodurre polverosi canoni di scienza della politica.
Che dire infatti di poco più di un mese che dall’8 agosto al 18 settembre scorso ci ha regalato una crisi politica tra gli “eversori neri moderni” (la Lega) e gli “eversori inconsapevoli” (i grillini dall’impeachment di Mattarella a maggio 2018, al Conte-bis in accordo con il Quirinale per evitare scadenze pressanti europee, per dire); un nuovo governo tra i “c’eravamo tanto odiati” Movimento Cinque Stelle e Partito democratico, favorito da quello dei “popcorn sul divano” (Renzi) e subìto da Zingaretti che aveva passato le primarie a negare che la Regione Lazio si regge in maggioranza sull’ex sindaco di Amatrice, che ha spezzato la destra, e i Cinque stelle che vanno e vengono dall’aula consiliare, a seconda del provvedimento da approvare.
Il fautore del “campo largo” bettiniano ha usato l’accortezza e la prudenza per fare quello che, in fondo in fondo, ha sempre pensato fosse giusto, ovvero “andare a vedere le carte” del movimento di Grillo dove peraltro – lo sappiamo – si sono rifugiati molti militanti della sinistra storica attirati da slogan sulle “spallate” alla casta, che non sono certo ignote al movimentismo non dirigenziale della sinistra italiana.

Infine, la ciliegina sulla torta: la scissione renziana – sembrerebbe “a rate” – invocata sui giornali prima ancora che lo fosse davvero, quasi a furor di popolo opinionista “per fare chiarezza” e occupare un ipotetico “centro”, per ora presidiato dal solo Calenda, tecnocrate col gusto della battuta.
A cercare una logica sequenziale si rischia di ingarbugliarsi nella matassa: oscuro il disegno che ha portato Salvini al gesto dell’8 agosto in presenza di un parlamento eletto da soli quattordici mesi e con il proporzionale; fumoso il cambio di spalla del fucile disegnato da Conte assurto al ruolo, con un solo discorso, di leader; incomprensibile per certi versi la scelta di oggi di Renzi quando avrebbe potuto vivere di una rendita di posizione che ipotizzava perfino la sua presenza alla presidenza del Pd e uno spazio politico interno ed esterno (leggi nomine e varie) di grande spolvero.
Allora guardiamo al futuro per tentare di capirci qualcosa di più. Ammesso che l’estate che finisce sia davvero finita.
Stavolta non c’è un contratto ma almeno due o tre obblighi naturali, fatta la scelta di mettersi insieme. Il governo deve durare, se non vuol lasciare le piazze a Salvini e Meloni, e deve durare facendo cose non solo obbligatorie, come recuperare con l’Europa – la Ue ha già mostrato soddisfazione per il nuovo Conte, la presenza di Gentiloni in Commissione Ue, ministri come Gualtieri e Amendola e soprattutto la moral suasion vincente del presidente Mattarella. Ma anche e soprattutto facendo ripartire l’economia, spendendosi con gli imprenditori e le fasce deboli del Nord e rimaneggiando – ma realizzandola – l’autonomia richiesta a gran voce dalle regioni del Nord e che starebbe bene anche a quelle del Sud.
Nuove politiche post-keynesiane ma certamente lontane dall’austerità tedesca, nazione peraltro a rischio recessione oggi con il manifatturiero in difficoltà per la prima volta in anni, sono il pane quotidiano di Gualtieri che però sarà costretto anche a far quadrare i conti e non sarà facile nonostante l’ex ministo Tria non gli abbia lasciato tabula rasa, con un lavoro certosino e oscuro rispetto alla compagine di cui è stato ministro.
E la chiave per convergere con i presidenti di regione del Nord in una nuova fase di autonomia potrebbe essere, come detto, quello di coinvolgere anche le regioni del Sud e le autonomie locali (si legga i comuni e l’Anci specialmente) in una revisione, anche costituzionale, che allarghi a tutte le regioni i poteri speciali concessi ab ovo a cinque regioni a statuto speciale, Sicilia, Sardegna, Friuli, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta che oggi ad oltre settant’anni dalla Costituzione democratica e quasi cinquanta dalla istituzione delle regioni, ha bisogno certamente di un ammodernamento dettato non solo dal diritto costituzionale ma anche dall’innovazione portata dall’informatizzazione, dall’uso delle banche dati e degli algoritmi, dai regolamenti e direttive dell’Unione Europea, soprattutto alla vigilia dei nuovi fondi 2021-2027.
Parlare agli imprenditori e alle fasce deboli del Nord Italia, allargando gli spazi dell’autonomia delle regioni e ricompattare in un disegno sociale le autonomie locali anche del Sud, significherebbe consolidarsi al Sud e tagliare l’erba sotto i piedi di Pontida e dintorni per giocarsela poi alle elezioni riducendo il peso specifico al Nord di Salvini e al Sud delle varie frange delle destre che, disinvoltamente in questi ultimi vent’anni e passa dalla fine del Msi-Dn, hanno votato Polo, Forza Italia e Alleanza Nazionale, ma poi hanno sempre scelto una posizione da jacquerie offrendo i propri voti in parte alla Meloni ma anche e perfino a Salvini in Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna.

E questo governo deve durare anche per l’altro grande appuntamento, del febbraio 2022, ovvero l’elezione del nuovo presidente della repubblica. In tempi difficili, e in questa transizione mai completamente realizzata dal 1992-1994 a oggi, abbiamo visto che il Quirinale ha rappresentato in tutti i passaggi e al netto dei vezzi e delle abitudini politiche dei singoli, un riferimento certo di garanzia costituzionale e di “tenuta” dell’ordinamento rappresentativo parlamentare. Questo ruolo negli anni si è accresciuto di importanza proprio a causa dei cambiamenti tentati (anche nobili) e che però si sono infranti sempre sulle piccole convenienze delle leggi elettorali che continuano a risultare il massimo livello a cui la politique politicienne giunge, quando prende atto di non avere un disegno complessivo di riforma istituzionale abbinato ad una visione sociale del paese.
Avere una maggioranza, che possa garantire almeno uno svolgimento regolare delle attività parlamentari e un giusto rapporto tra gli organi dello stato, è una condizione minima di garanzia della democrazia. Ma anche una garanzia massima quando per scelta consapevole o inconsapevole si rischia di affossare non una coalizione o un governo, ma il sistema stesso democratico, rappresentativo, parlamentare. I “pieni poteri” non possono essere ammessi e hanno provocato il cambio di governo, perfettamente parlamentare, ma onestamente non costituiscono una prova in positivo ma solo la difesa estrema contro metodi estremi.
In questo Salvini dovrebbe fare tesoro almeno della tattica che un suo sodale, Orbán, ha utilizzato sfidando la Ue e le sue norme, anzi diciamo, proprio violandole, ma prendendosi rimproveri e attacchi senza mai sbattere la porta del Partito popolare europeo, che con la Merkel indebolita non ha avuto la forza di cacciarlo.
Chi però ha reagito ai “pieni poteri” di Salvini non può accontentarsi dello “scampato pericolo” ma mettere in fila oltre alla quotidianità del governo un disegno istituzionale di rinnovamento a cui nel 2022 mettere solo il sigillo finale con l’elezione di un nuovo capo dello stato.
E il governo se deve durare per queste ragioni dovrà anche dotarsi di una maggioranza non raffazzonata.
In questo senso la disamina di Dario Franceschini, che una volta fatto questo passo faticoso tra “ex odiatori” per difendersi dalla “tigre ferita” Salvini sarà necessario anche vincere le elezioni locali, non fa una piega. Potremmo dire che attiene alla scienza della politica, almeno quella tattica, ma senza spingersi fin là, appartiene al buon senso: come lo tieni insieme un governo se i contraenti perdono a favore di Salvini: Umbria, Emilia-Romagna, poi Liguria e Toscana, per esempio? Chiedere lumi a D’Alema in questo caso.
In tutto ciò varrebbe la pena approfondire le coalizioni, cosa che potremmo fare singolarmente in futuro per non appesantire la fatica del lettore (magari fossero ancora i famosi “1500 lettori” di Enzo Forcella, ne dubitiamo). Qui basti dire che Salvini (e Meloni) e Berlusconi perseguono obiettivi contrastanti. Insieme vincono nel locale, ma saranno ancora insieme? Mentre a sinistra la ricomposizione è stata fatta già nel governo, il Pd (storia ed articolo a parte, si vedrà), se vuole vincere le elezioni, dovrà reinventarsi un progetto e anche una gamba “moderata”: che i democratici sappiano governare lo sanno in molti, che lo facciano per mandato degli elettori è accaduto poche volte. Nei fatti solo con Prodi ai tempi dell’Ulivo, e vorrà dire pure qualcosa?
Risponde ad un pezzo di questa logica l’addio solitario di Carlo Calenda prima e di Renzi poi? Qualcuno è arrivato a pensare che Renzi e Zingaretti abbiano costruito le condizioni “quasi in accordo” per svolgere funzioni diverse rivolte ad uno stesso obiettivo futuro. Ci si permetta di dubitare: se il Pd è stato considerato nel tempo, un’amalgama non riuscito di una “fusione a freddo”, questa “pensata” di dividersi l’elettorato per far crescere il centrosinistra sarebbe ancor più fredda di una fusione a freddo.
Non che non ci siano richiami valoriali al “centro”. Ma tutto dipende dalla legge elettorale. Intanto Renzi, che sempre gioca sul fatto di essere “troppo giovane per essere stato democristiano”, in questo caso lo conferma con i fatti: vogliamo ricordare, per esempio, il ruolo di una piccola corrente come Forze Nuove (dieci per cento congressuale nella Dc) che aveva uomini in ogni dove e un leader, storico ministro del lavoro non inviso anche ai sindacati di sinistra del paese? Mai si sarebbe sognato di fare una scissione sapendo di contare sulla legge dell’“utilità marginale” in pieno proporzionale. Ergo, Renzi potrebbe attrarre alcuni moderati, ma per questo e per alcuni suoi connotati “ideologici” non è un richiamo “certificato” per chi viene dalla storia della “balena bianca”
Allora perché l’uscita di Renzi? Si potrebbe dire che in buona parte, più che per “rubare spazio” a Calenda (quale spazio ha Calenda fuori dai giornali, con tutto il rispetto?) serve in termini comunicativi e “reputazionali”: non sta nella calca, non deve più far trattative di corrente (e quindi anche garantire i “suoi”, così garantisce solo se stesso), sceglie quando e come intervenire, acquisisce lo status di “cattiva coscienza” del Pd, quando esso dovrà dimostrare che il partito sa parlare anche ai moderati o a coloro che non vengono dalla sinistra storica italiana, e lo costringe a ragionare sul rientro da Leu di Bersani e D’Alema.

Paradossalmente allontana in questo momento il loro possibile rientro: sarebbe un disastro comunicazionale per Zingaretti e di difficile gestione per il governo coi Cinquestelle. In fondo il fatto che non si voti subito aiuta Renzi, perché la sua forza non sarà realmente misurata e si baserà su armi di comunicazione che altri non hanno o non sanno usare come lui. Inoltre lo libera da ciò che psicologicamente da sempre l’opprime: fare riflessione, fare i conti con il passato, razionalizzare le scelte, vieppiù quelle sbagliate (personalizzazione del referendum e dintorni per cominciare).
Il giocatore di poker non indulge nella mano perdente, freme per quella successiva, che potrebbe – a suo avviso – ribaltare la serata. La leadership tattica esercitata al massimo grado nella crisi di governo l’ha esaltato e convinto che in simili occasioni lui può tenere banco e quindi si ritaglia un ruolo di questo tipo evitandosi la fatica che Zingaretti da dirigente “diligente” ha fatto: le direzioni, le telefonate, le riflessioni con i lontani, le trattative pratiche su numeri e nomi. Questo in buona parte “libera” anche Zingaretti da una sorta di “tutela”, ma lo costringe a far conto solo su di sé e le proprie forze senza più ipoteche (ma come detto di questo ne riparleremo).
Dunque, l’estate è finita. Vediamo che autunno sarà, sperando di non ritrovarci – come paese – in un nuovo inverno del nostro scontento.

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