Se mi si chiedesse – lo dico poiché ne ho sentito parlare da poco – quale possa essere il colore del buio, probabilmente penserei al nero; ma credo non saprei spiegarmi l’origine di tale argomento. Lo fa Alessandro Carrera, docente di Italian Studies e di World Cultures and Literatures della Houston University, Texas, nel libro Il colore del buio (ottavo della serie della casa editrice bolognese Il Mulino Icone – Pensare per immagini diretta da Massimo Cacciari) il cui protagonista è un pittore di fama mondiale, Mark Rothko, nella cappella interconfessionale da lui realizzata a Houston.
Parliamo prima di lui.
Nato nel 1903 a Dvink (oggi Daugavpils), in Lettonia, si chiamava Markus Rothkovich, trasformato in Rothkovitz quando la sua famiglia si trasferì negli Stati Uniti, nel contesto delle massicce emigrazioni degli ebrei orientali verso l’Occidente; non aveva che dieci anni. A questo riguardo, in età adulta rifiutò le prese di posizione esplicite, rivelando tutt’al più una determinata attenzione per la morte. Il segno di ciò fu, negli anni risolutivi della sua attività, l’uso forse premonitore di bruni tenebrosi, di grigi e di neri.
A parlare per lui, pittore del silenzio, rimane la sua opera.

La parte della sua produzione più significativa consiste di tele talvolta enormi, fatte di rettangoli sfilacciati dentro a un rettangolo più grande, di scale cromatiche graduali, di intervalli previamente definiti che, verso la fine, si facevano a mala pena distinguibili.
Fu vicino nel momento più opportuno al gruppo di pittori americani che conferivano a New York il primato di essere il centro motore dell’arte mondiale. E non accettò mai di essere considerato un artista di successo: volle essere un genio.
Toccato dalla grazia della fortuna, condusse però una vita spirituale tormentata.
Fondamentale nella sua poetica fu il concetto di chiarezza, mirante a eliminare tutti gli ostacoli tra il pittore e l’idea e tra l’idea e lo spettatore. Era alla base del suo lavoro: un lavoro che per vent’anni – metà del suo intero arco operativo – fu l’espressione della sua più ascetica e intransigente essenzialità; con una semplicità portata quasi al limite dove l’elementare confina con l’assoluto; o meglio, con un Assoluto, la cui iniziale maiuscola induce a meditare sulle cose che attengono al divino.
Si diceva, nel suo ambiente, che il lessico delle frasi brusche da lui rivolte direttamente o scritte a critici, amici, parenti, visitatori avrebbe potuto riempire un’antologia da intitolare “Parole di un irascibile”. Questo, per esempio, è un suo “complimento”, diciamo così, rivolto a cubismo e astrattismo:
I quadri non mi piacciono. Il cubismo non mi ha mai interessato. L’astrattismo non mi ha mai detto nulla. Io sono un realista. Ciò che dipingo oggi è realistico. Non sono un formalista.
Ma come la mettiamo con il fatto che il realismo nasce con Courbet, e il formalismo con la remotissima nascita della disciplina estetica?
Comunque quest’antologia si potrebbe riassumere con considerazioni radicali del tipo “Nessun bravo pittore, che io conosca, ha mai studiato pittura”; “Odio e disprezzo tutti gli storci dell’arte e i critici. Sono una massa di parassiti che si nutrono del corpo dell’arte”; e infine “Se incontrassi il mio successore, lo ucciderei”. In fondo, però, era timido, un tantino goffo, sempre poco sicuro delle proprie capacità, ansioso dei giudizi a lui indirizzati.
Il libro di Carrera (centoventicinque pagine, con cinque parti intitolate “La luce invisibile e la consistenza del buio”, “Parole di un irascibile”, “Un’ecologia della pittura”, “Il coniglio cieco e il campo dello sguardo” e “Il ritorno della luce”, che leggono l’artista sotto prospettive diverse) inizia senza preamboli, affermando che
La cappella prende alla gola, costringe a una reazione, non la si dimentica nemmeno se la si rifiuta.
La commissione a Rothko era stata data da una coppia di collezionisti celebri, John de Menil e Dominique Schlumberger de Menil, uniti
nel petrolio, nell’arte, nella fede cattolica e nella devozione alle cause umanitarie, dentro e fuori dai consigli d’amministrazione d’innumerevoli società e istituzioni come la vicina University of St. Thomas della quale la cappella con i dipinti di Rothko doveva in origine far parte.
La sede delle loro eccezionali collezioni fu realizzata da Renzo Piano; quanto alla cappella, preferirono affidarne la realizzazione all’architetto post-modernista Philip Johnson, che la concepì a pianta ottagonale, combinata, con la croce greca, cioè con quattro bracci di uguale misura, per indicare l’uguaglianza tra profondità e larghezza, ma senza accennare ad alcun motivo decorativo. Che Rothko, tuttavia, non avrebbe assolutamente accettato. E decisero di destinarla non al solo culto cattolico, bensì di presentarla come non denominational e aperta a tutte le fedi, immanenti, trascendenti e trascendentali.
Carrera porta l’attenzione sul sentire e il volere di Mark Rothko, cominciando con il suo bisogno quasi religioso di una luce naturale cadente dall’alto, attraverso un oculus ottagonale a vetri; idee non collimanti con quelle di Johnson, che passò il testimone ai colleghi Howard Barnstone ed Eugene Aubry, disposti a sottoporsi alle direttive dell’artista.
L’ingesso guarda il Sud e si affaccia a una vasca dal cui mezzo spunta il Broken Obelisk (l’obelisco spezzato) di Barnett Newman – uno dei tanti amici che Rothko aveva fatto diventare ex, senz’altra ragione che la sua insicurezza – dedicato alla memoria di Martin Luther King.

La cappella fu completata nel febbraio del 1971. Lui era morto suicida l’anno prima, il 25 dello stesso mese, senza mai vedere i suoi pannelli installati.
L’esterno della costruzione è povero: muri color mattone, tetto piatto; un tutto che sembra un non voler alludere a un contenuto da esibire ma a un mondo personale da nascondere, per un sentimento coincidente con l’astiosità dell’autore. L’interno ottagonale è grigio, con panchine disposte a quadrato; alle pareti, quattordici pannelli di 3,35 x 4,50 metri, imponenti, muti, cupi, neri, o a seconda dell’incidenza della luce dal soffitto, anche porpora, con guizzi di marrone, o blu, viola, grigio o verde scuro.
Rothko li aveva progettati tra l’autunno del 1964 e la primavera del ’67 ed elaborati con l’aiuto di tre assistenti, affidando loro gli sfondi e le tele color prugna, da appendere nella zona absidale e, dipinti di sua mano, tutte le nere disposte a trittico per le pareti Est e Ovest, meno una destinata al muro del vestibolo. Per smorzare l’eccessiva luminosità diurna proveniente dall’oculus, sotto quest’occhio centrale del soffitto aveva fatto applicare un apposito diaframma. A causa dell’aneurisma che lo aveva colpito nel ’68 non poté dirigerne l’installazione, che fu compiuta come concordato con i de Menil.

Per il critico Barry Goldwater i dipinti di Rothko trovavano lo spazio più adatto proprio in un edificio religioso; e lui, Rothko, ne fu sempre convinto: “Ho dipinto tutta la vita templi greci, senza saperlo”, diceva. Ma qui era la sua anima che si poneva al servizio della preghiera, rinunciando alla violenza che di solito contrapponeva alla serenità. E deve averlo fatto ascoltando il suo Mozart, nessun altro che il suo Mozart.
Il prodigio qui compiuto è di farci vedere il buio.
Le questioni sulla cappella che il libro lascia volutamente aperte sono se le opere, con i loro toni cupi, e le loro immobilità e imperscrutabilità, siano atte a far capire che il tempo di risposta di chi le osserva è imprevedibile. Bisogna darne loro quanto ne vogliono, aveva detto Rothko. E di ciò molti dei visitatori non tengono conto. In altre parole, entrarci solo per uno sguardo fugace tutt’attorno lascerà loro il nulla. Credo sia sostanzialmente questo, ristretto ma fondamentale, il senso del messaggio contenuto in quest’opera magistrale di Rothko, che Alessandro Carrera ha chiesto ai lettori di assimilare, a mio parere riuscendoci pienamente.


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