Con l’intervista che qui pubblichiamo inizia una serie di conversazioni con giornalisti che seguono la politica italiana, molti dei quali con una lunga esperienza. L’idea è di ragionare sulla relazione tra politica e stampa e su come quest’interazione abbia caratteristiche peculiari in Italia, influendo sull’una e sull’altra (g.m.)
Augusto Minzolini ha attraversato le diverse ere geologiche della politica italiana, prima, seconda repubblica, e l’attuale, come cronista parlamentare e analista, ma anche con un’esperienza da senatore. È stato in agenzia, l’Asca, alla Stampa, quindi al Giornale e Panorama, dov’è tornato a scrivere dopo la parentesi parlamentare e un periodo tumultuoso alla guida del TG1. Per tante ragioni, Minzolini meriterebbe più di un libro. Se l’incontri in Transatlantico – ti raccontano colleghi e politici – è sempre lui, intatta la passione per il mestiere e per la politica degli inizi della carriera, e un’invidiabile miscela di umiltà professionale e di spavalderia e di simpatia che gli consente di accedere ai peones come ai protagonisti principali della scena politica.

Con ytali ha ripercorso i cambiamenti che hanno segnato la storia recente della cronaca politica italiana e che, inevitabilmente, s’intrecciano con il suo singolare percorso di cronista parlamentare.
Augusto Minzolini, hai cominciato la carriera di giornalista nel 1977 e da allora hai seguito e raccontato quattro decenni di vita politica italiana. Come sono cambiate le cose in questi anni?
Una volta c’era più professionalità, più cultura. La classe politica veniva scelta attraverso un lungo cursus honorum all’interno dei partiti – una sorta di selezione naturale dei leader. Inoltre i politici della prima repubblica avevano vissuto la seconda guerra mondiale e combattuto il fascismo. Il compito principale del giornalista era “decriptare” una realtà caratterizzata da un alto livello di raffinatezza politica, che aveva addirittura fondato un suo lessico, il famoso politichese, un modo di parlare forse lontano dalla gente ma che rispondeva alle esigenze della mediazione e della tattica politica.

Le cose cambiarono dopo Tangentopoli, con la transizione dalla prima alla seconda repubblica: si passò da una realtà in cui i soggetti principali erano i partiti (c’erano i capi politici, ma esisteva anche un elemento di collegialità) a un contesto molto più incentrato sulla figura del leader, sia nel centrodestra, con il ventennio berlusconiano, sia, in maniera diversa, nel centrosinistra, con i vari Prodi e D’Alema. Soprattutto Berlusconi si fece portatore di un cambiamento nel linguaggio, con un modo di parlare più diretto, lo studio del marketing e l’applicazione dei sondaggi alla politica, un po’ sul modello anglosassone. Il giornalista non doveva più seguire i partiti, ma il cosiddetto “inner circle”, l’area intorno al capo, gli strateghi, i ghostwriter.
E pian piano siamo arrivati al declino della seconda repubblica…
Rispetto al passato oggi abbiamo un grande magma. Se prima dovevi decriptare un linguaggio particolare, ora invece devi dare forma al caos. Gli stessi soggetti politici hanno difficoltà a fare ordine, afflitti come sono da mille contraddizioni.
C’è una grande contrapposizione con, da un lato, il sovranismo e, dall’altro, le altre forze in campo. Il sovranismo usa un lessico immediato, che non lascia spazio a compromessi. Esiste solo il leader carismatico e non c’è spazio per la categoria del dubbio. Sull’altro versante vi è una grande difficoltà ad attrezzarsi di fronte a questo tipo di fenomeno. Solo nell’ultima fase, in seguito al tentativo di Salvini di ottenere elezioni anticipate, i suoi avversari politici sono riusciti, grazie alla tattica parlamentare, a evitare che il capo della Lega si prendesse tutto. Il merito è di quelli che hanno una maggiore esperienza politica, che vengono dalle scuole. Gli altri, i grillini, sono stati totalmente colti di sorpresa da Salvini e sono arrivati quasi per caso a questa ciambella di salvataggio – il governo con il Pd – che è stata loro offerta.

Tu sei noto per i tuoi modi ingegnosi di andare a caccia delle notizie. Si racconta ad esempio che agli inizi di carriera ti appostavi nel bagno antistante alla sala del Psi per ascoltarne di nascosto le riunioni. È vero?
Sì, era il bagno delle donne!
Da allora com’è cambiato il modo di accedere alle informazioni e di fare cronaca politica?
Prima c’era una difficoltà logistica, dovevi stare appresso al politico, inventarti questi stratagemmi, avere una fonte dentro. Per creare il retroscena dovevi decriptare una situazione apparentemente chiara, svelando meccanismi e obiettivi non immediatamente riconoscibili. La politica non è matematica ma ci si avvicina. Ci sono cose che uno comprende, come le forze in campo e le loro strategie razionali.
Oggi però i soggetti politici non fanno più queste valutazioni complesse: non c’è una dirigenza all’altezza, sono rari coloro che, come negli scacchi, cercano di fare una mossa riflettendo già a quelle successive. Molto spesso è a questo che tu come giornalista devi dare un significato. In alcuni casi puoi addirittura influenzare il corso degli eventi. Vedi il caso Salvini: dopo le europee lui non voleva andare al voto, allora la maggioranza degli osservatori (e questo la dice lunga sulla loro qualità) ha cominciato a dire che senza elezioni anticipate perdeva una grande occasione – la Lega non sarebbe mai tornata ai livelli che le venivano accreditati dai sondaggi. Alla fine Salvini ha ceduto a questo tipo di interpretazione della realtà, ha cercato di forzare la situazione e si è ritrovato all’opposizione. Questo significa che rispetto al passato c’è una minore attenzione, professionalità, direi addirittura saggezza, sia dalla parte dei soggetti politici sia dalla parte degli osservatori.
A proposito di quella che tu definisci “minore professionalità” degli osservatori, cosa pensi del modo in cui oggi i cronisti politici italiani fanno ricorso al virgolettato?
Nel grande mare magnum che è la politica, in un sistema parlamentare il giornalista deve sempre mettere in conto che può essere usato. Fare ricorso al virgolettato secondo me serve a evitare questo rischio. Anche se il mio interlocutore mi dice una cosa che poi si rivela non vera, già nel momento in cui me la dice mi apre un mondo sulle sue intenzioni, sulle logiche che lo muovono.
Ma per non essere strumentalizzato, il giornalista deve citare il nome della persona responsabile delle affermazioni. A questo proposito, nell’ultima fase del governo gialloverde c’è stata una situazione drammatica, con articoli che riportavano sei, sette virgolettati con soggetti anonimi, come “il leghista”, il “ministro importante”, o addirittura la Lega, come se questa fosse un soggetto in sé. Questo è un modo estremamente rischioso di rapportarsi al nostro mestiere. Equivale a trasportare nel giornalismo quelle che una volta erano le veline, introducendo modi di vedere o notizie del tutto da verificare e permettendo così a un soggetto politico di attaccarne un altro senza assumersene la responsabilità.
Se mi viene passato un documento, nascondo la fonte. Lo stesso faccio se mi viene raccontata per filo e per segno una riunione – mi è capitato pure che mi tenessero aperto il telefonino durante una riunione per farmela sentire direttamente. In questi casi la fonte resta segreta anche sotto tortura. Ma lo stesso non vale per i giudizi: il giudizio ha una sua soggettività. Un giudizio non è tale senza soggetto, perché diventa un modo per far passare il proprio sentire senza metterci la faccia. Quindi, anche se nella vulgata generale l’atteggiamento di mettere sempre i soggetti in prima persona può essere considerato una scorrettezza, per me è invece un elemento di trasparenza, perché il gioco politico prevede la bugia e noi giornalisti non dobbiamo esserne strumento.

Parliamo del modo in cui la stampa italiana s’interessa alla vita privata dei politici. Nel 1994, intervistato da Repubblica, tu ti dichiaravi contrario a ogni tipo di privacy per i politici, affermando: “Oggi penso che se noi avessimo raccontato di più la vita privata dei leader politici forse non saremmo arrivati a tangentopoli, forse li avremmo costretti a cambiare oppure ad andarsene.” Alla luce di quanto è successo negli ultimi decenni, con riferimento innanzitutto alle vicende private di Silvio Berlusconi, sei ancora d’accordo con quanto detto nel ’94?
In quel periodo ero alla Stampa e parlavo spesso di queste vicende. Feci un pezzo in cui raccontai che per fare carriera in Rai bisognava passare dal salotto di Ania Pieroni, che era all’epoca l’amante di Craxi. Il risultato fu che non mi mandarono al congresso socialista successivo.
Allora aveva un senso interessarsi alla vita privata dei politici. Tuttavia, quando sono stato direttore del Tg1 ho avuto un atteggiamento diverso rispetto alle vicende di Berlusconi. Fino a quel momento non era mai stata raccontata la vita di un uomo politico dalla cintola in giù. Nessuno diceva niente quando Aldo Moro andava allo stadio dei Marmi mano nella mano con la cantante Rosanna Fratello. Lo stesso valeva per le storie di Craxi. Improvvisamente si cominciò a parlare delle vicende di Berlusconi.
Quando la cosa entrò nella sfera giudiziaria io raccontai tutto, ma all’inizio ciò che mi interessava non era scoprire quello che Berlusconi faceva nel suo privato ma capire perché questo tipo di notizie partite dall’estero colpì un presidente del Consiglio che si trovava in una situazione complicata, nel mezzo di un dissidio tra due politiche economiche diverse: una che si rifaceva alla dottrina Obama e puntava ancora allo sviluppo, e l’altra che era imperniata sul rigore e animava i grandi paesi europei. Il flusso di notizie andò avanti fino a quando Berlusconi lasciò Palazzo Chigi e la cosa più “divertente” è che su quella vicenda Berlusconi fu pure assolto.
Quindi in quali casi è rilevante scrivere sulla vita privata dei politici?
Se parliamo di soldi, è evidente che da questo punto di vista non dovrebbero esserci riserve a pubblicare a riguardo. Lo dico con la consapevolezza che anche con tangentopoli ci furono strumentalizzazioni: l’Italia è un paese che ha spazzato via un’intera classe dirigente sul finanziamento ai partiti, dopo che nel 1989, quando quel reato coinvolgeva anche la sinistra nei suoi rapporti con l’Urss, fu amnistiato. Prima dell’ 89 erano tutti santi, dopo erano tutti banditi!
In ogni caso, è difficile trovare una linea di demarcazione. La vita privata, soprattutto se soggetta a interventi giudiziari, si presta a essere uno strumento politico di offesa o condizionamento. Senza questa variabile in testa non comprendi la storia. Se prima il riferimento a vicende personali era un elemento per cambiare un sistema che aveva subito le sue mutazioni nocive, oggi bisogna interessarsi non solo a quello che fa il politico, ma anche agli scopi e alle intenzioni di chi utilizza l’informazione per metterlo alla berlina.
Come te, sono molti i giornalisti che hanno avuto un’esperienza in politica. Come te lo spieghi?
Premetto che a me ricordano spesso il mio passato da politico ma si dimenticano degli altri colleghi che hanno fatto lo stesso percorso: Eugenio Scalfari, Michele Santoro, Lilli Gruber, Antonio Polito, solo per fare alcuni nomi. Per non parlare dei leader politici che sono stati giornalisti, come, ad esempio, Walter Veltroni, Massimo D’Alema, Gianfranco Fini.
Per me l’esperienza politica è nata in modo particolare. All’epoca lavoravo in RAI come responsabile delle sedi internazionali, un lavoro decisamente amministrativo, che non mi piaceva. Buttarmi in politica è stato un modo per tornare a occuparmi di ciò che mi interessava. Da parlamentare ho teorizzato l’impeachment di Napolitano, ho denunciato Grasso alla corte dei diritti dell’uomo durante il dibattito sulle riforme renziane – perché aveva a mio avviso compresso i diritti dell’opposizione – e mi sono opposto al patto del Nazareno. Sono stato coerente con il mio modo di pensare e ne ho pagato tutte le conseguenze negative.

Cosa spinge un giornalista a diventare politico? È una sorta di attrazione?
Sì, è attrazione. Questa esperienza mi ha arricchito come giornalista, perché mi ha aiutato a verificare dall’interno cosa succede nella realtà che descrivo da anni, a comprendere meccanismi che prima non avevo colto.
Un esempio?
Questa estate erano tutti convinti che si andasse al voto. Io la pensavo diversamente perché da senatore avevo provato a innescare elezioni anticipate e non ci ero riuscito. Perché? La stabilità del sistema politico ha poco a che vedere con le riforme costituzionali o con il maggioritario. Ciò che ha dato stabilità al sistema è una norma di carattere amministrativo: se non fai almeno quattro anni e mezzo di legislatura, perdi la pensione. Da quando questa legge è stata applicata, le legislature sono durate cinque anni, dal 2008 al 2013 e dal 2013 al 2018. Questo lo capisci solo se fai politica.
Ti sei opposto al patto del Nazareno e al dialogo tra Renzi e Berlusconi. Ora Renzi ha fondato il suo movimento, Italia Viva, e ammicca alla parte moderata del centrodestra. Pensi che riuscirà a fare presa sull’elettorato tradizionale di Forza Italia?
Questo non lo so ma in politica parto da un presupposto: ci vuole una coerenza nella ratio che metti in una determinata strategia. In questo momento sono i due Matteo, Renzi e Salvini, ad avere le idee più chiare.
C’è un filo logico nel tentativo di Salvini di andare a elezioni anticipate: è il nuovo leader della destra italiana, se ci fosse stato un nuovo voto, probabilmente avrebbe vinto e radicato così il sovranismo nel paese. Meno logico era l’accordo che Nicola Zingaretti aveva stretto con il capo leghista: chi è quel segretario di partito che fa un accordo con il suo avversario per andare a elezioni e perderle?
Tant’è che chi invece applica un po’ di ratio – Matteo Renzi – è riuscito a imporsi anche se fino a quel punto era in posizione marginale. Renzi ha capito la portata della posta in gioco. Se le elezioni politiche si fossero tenute in ottobre, si sarebbe subito dopo votato alle regionali in Umbria ed Emilia Romagna. Pensa se sull’onda del successo alle politiche il centrodestra avesse vinto in Emilia? Il Pd si sarebbe sciolto. Salvini, poi, avrebbe indicato anche il nuovo presidente della Repubblica e determinato tutte le nomine dei grandi enti pubblici. Il potere politico e finanziario sarebbe stato tutto nelle sue mani.
Di fronte a ciò Renzi ha avuto il coraggio di cambiare completamente, di aprire ai Cinque stelle, evitando il voto e portandosi dietro anche il segretario del suo partito, che aveva un’altra idea. Dopodiché ha scelto di giocare la partita del proporzionale, perché in questo momento con il maggioritario è difficile battere il sovranismo. Con il proporzionale invece si creano le condizioni dove per governare il paese ci vuole il 51 per cento, non basta il 33/34 per cento. Se si riesce a far passare un sistema del genere, è probabile che l’epilogo per Salvini sia l’emarginazione, un orizzonte simile a quello di Marine Le Pen in Francia.
Infine, se vuoi il proporzionale, vuoi un sistema che ti consente di incidere autonomamente, e quindi il terzo passaggio consequenziale è che ti fai un partito. Ciò ti dà infatti la possibilità di ampliare verso un elettorato di destra la rappresentanza di quella che sarà probabilmente la tua futura coalizione di governo.
Centrodestra permettendo…
Faccio fatica a comprendere le attuali contraddizioni nel centrodestra. Dopo che Salvini ha rotto con i grillini sull’elezione del presidente della Commissione europea – che è espressione diretta del Partito popolare europeo, gruppo politico a cui appartiene Forza Italia – come ha potuto Forza Italia immaginare di riprendere, senza alcun chiarimento, il discorso di un’alleanza con la Lega?
È in questo senso che la situazione è magmatica ed è per questo che serve maggiore razionalità. Se sei più coerente, forse perdi nel breve termine, ma nel tempo la gente può anche capire e crescere. Se invece perseveri con queste operazioni, che si fa fatica a raccontare anche a causa delle loro contraddizioni, allora non c’è da stupirsi che la scena – al di là dei numeri che hanno a disposizione – venga presa da quei soggetti che hanno le strategie più chiare, un Matteo a destra e un Matteo a sinistra.
L’immagine d’apertura, con due estimatori, è tratta dall’account @maxkarmaroma
Politica e media. Parla Nino Bertoloni Meli

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