L’intervista che qui pubblichiamo è la seconda di una serie di conversazioni con giornalisti che seguono la politica italiana, molti dei quali con una lunga esperienza. L’idea è di ragionare sulla relazione tra politica e stampa e su come quest’interazione abbia caratteristiche peculiari in Italia, influendo sull’una e sull’altra (g.m.)
Nino Bertoloni Meli è uno degli osservatori più attenti degli ultimi quarant’anni di storia della sinistra italiana. Firma del Messaggero, è stato protagonista e testimone dei cambiamenti che hanno interessato il giornalismo politico italiano, dagli ultimi anni della prima repubblica a oggi.
Nino Bertoloni Meli, hai cominciato la carriera di giornalista nell’ultima fase della cosiddetta prima repubblica. Com’era fare il cronista politico in quel periodo?
La prima repubblica era fondata su partiti veri, che avevano moltissimi tesserati ed esercitavano un’influenza su milioni di persone. C’erano i giornali di partito, che oggi non esistono più, e c’erano dei veri leader. A questa situazione corrispondeva un giornalismo politico molto documentato: per praticare la professione erano necessarie nozioni di storia e di politica.
Nel periodo pre-68 e poco dopo, l’informazione politica era in mano alla figura del “pastonista”, che scriveva articoli molto lunghi, di centocinquanta righe, dove si rendeva conto di tutto quello che era successo nella giornata, dall’attività del governo a quella dei partiti. In questo senso, non c’era una cronaca differenziata tra i vari partiti.
Con l’avvento di Bettino Craxi, nei primi anni Ottanta, le redazioni cambiarono profondamente: i pastonisti furono superati e sostituiti da giornalisti specializzati sui vari partiti. Io appartengo a questa generazione di cronisti parlamentari.
Tu seguivi il Partito comunista…
Sì, ti racconto un aneddoto a riguardo: si diceva che i giornalisti che seguivano la Democrazia cristiana e il Partito socialista riuscivano a fare carriera, magari anche a finire in Rai. Non era così, invece, per chi come me seguiva il Pci, perché quel partito stava sempre all’opposizione. Più in generale, era un periodo in cui c’era una grande concorrenza: se uno era specializzato su Ciriaco De Mita o Giovanni Spadolini i giornali se lo contendevano. I giornalisti che seguivano Craxi, poi, erano sulla cresta dell’onda: in quel periodo c’erano i “tre Paoli” – Paolo Franchi, Paolo Mieli e Paolo Passarini, che seguivano Craxi e Claudio Martelli. Quest’ultimo era la longa manus del craxismo rispetto all’informazione.

Con la caduta del muro di Berlino cambiò tutto?
Nell’ ’89 nella sinistra cambiò proprio tutto, non solo a livello di equilibri internazionali. L’Urss era finita e con lei la cosiddetta conventio ad exludendum. Balzarono in prima fila i giornalisti che seguivano le vicende del Pci. Da quel momento eravamo tutti uguali: anche per chi si occupava di sinistra c’era la possibilità concreta di andare a Palazzo Chigi e seguire il governo.
Cinque anni dopo la caduta del muro, Achille Occhetto sfidò Silvio Berlusconi: era la prima volta che la sinistra italiana andava alle elezioni con la possibilità di vincerle. Prima questo scenario non esisteva: si andava a elezioni soltanto per constatare quanto la Dc manteneva il suo consenso e quanto il Pci lo aumentava. Nel ’96 la sinistra arrivò finalmente al governo, con l’Ulivo di Romano Prodi, che aveva dietro il Pds e tutta l’altra sinistra.
L’‘89 non fu quindi solo uno sblocco politico. Cambiò l’importanza del giornalista che si occupava di sinistra…
Fu innanzitutto un cambio di prospettiva. Un conto era seguire Enrico Berlinguer e Alessandro Natta, con le loro iniziative sempre e comunque finalizzate all’opposizione. Altra cosa era invece vedere come un insieme di forze si attrezzava ad andare al governo dopo quarant’anni ininterrotti di opposizione.
Questo comportò importanti novità anche per il giornalismo dell’epoca. I giornali vicini alla sinistra non potevano più solo dire che “la colpa era di chi stava al governo”, ma dovevano attrezzarsi culturalmente e giornalisticamente per seguire il nuovo corso che puntava a Palazzo Chigi.
Il Pci cambiò il suo modo di comunicare?
Il Partito comunista era molto chiuso, anche perché prima dell’ ’89 era destinato a stare all’opposizione. In generale considerava il mondo dei mass media come avversario. Per un politico comunista, il semplice fatto di finire sul Corriere della Sera o sulla Stampa, giornali della borghesia, era di per sé negativo.
Ti faccio un esempio. Una volta, quando Walter Veltroni era responsabile per il Pci della stampa e della propaganda, mi chiamò per propormi di intervistare Aldo Tortorella. Era stato partigiano ed era tra gli uomini più vicini a Berlinguer. Aveva fatto tutta la vita il dirigente del Pci. Insomma, un rivoluzionario di professione. Al momento dell’intervista, dopo la seconda o terza domanda Tortorella prese il telefono e chiamò Veltroni per dirgli: “Veltroni, io non volevo fare un’intervista! Cos’è questa storia? Perché proprio io?”. Nella sua testa si era convinto che l’intervista avrebbe potuto diventare una trappola e così non se ne fece nulla.
Tutto cambiò con Achille Occhetto, che diede vita alla svolta della Bolognina e trasformò il Pci in Pds. Il gruppo di Occhetto teorizzò il fatto che il Pci doveva non solo aprirsi, ma anche interloquire direttamente con la stampa.
Occhetto era un innovatore tremendo: aveva rotto tutte le liturgie di partito e proprio per questo spesso finiva in minoranza, perché l’apparato era sempre quello. In quei casi lui bypassava tutti gli organismi di partito attraverso la stampa.
Andò così quando annunciò il nuovo nome e il nuovo simbolo del Pci. Prima della conferenza stampa, Occhetto era riunito con la direzione del partito. I vari dirigenti si alzavano e gli dicevano: “Lascia perdere, aspettiamo”. C’era chi gli suggeriva: “Chiamiamoci Partito dei lavoratori”, chi gli proponeva altri nomi. Ad un certo punto Occhetto disse: “Devo andare, c’è la stampa giù che mi aspetta”. E chi si è visto si è visto… Occhetto annunciò alla sala gremita: “Ci chiameremo Partito Democratico della Sinistra e il nostro simbolo sarà la quercia”.
Nessuno dei giornalisti in conferenza stampa sapeva del caos che era successo in direzione. Da quella volta fu sempre così: quando Occhetto voleva fare una cosa e vedeva che la burocrazia interna era contraria, lui la raccontava ai giornali e così smuoveva le acque.

Un altro aneddoto?
Un giorno, prima che il Pci cambiasse nome, Tortorella andò da Occhetto e gli disse: “Perché non ci chiamiamo Partito dei comunisti democratici”. Occhetto gli rispose: “Ma scusa, ho fatto tutto questo casino per un aggettivo?”. Dopodiché Occhetto mi chiamo e mi raccontò tutta la storia. Il giorno dopo io uscii sul Messaggero con un articolo che riprendeva la battuta “ho fatto tutto questo casino per un aggettivo?”. Tortorella se la prese a morte e convocò un’indagine interna, ma non seppe mai che era stato Occhetto. Al partito gli dissero: “Dovresti fare attenzione ai tuoi uomini, il responsabile della fuga di notizie potrebbe essere uno di loro”.
Con Occhetto cambiò anche la macchina di comunicazione del partito…
Ai tempi di Berlinguer l’ufficio stampa era tutto nelle mani di Tonino Tatò, soprannominato Suor Pasqualina – dal nome dell’attendente di papa Pio XII – per la sua devozione. Quando con Occhetto si verificò questa apertura, l’ufficio stampa del Pci e poi Pds divenne una cosa enorme. Ci lavoravano da cinque a dieci persone, la carica di capo ufficio stampa era diventata importantissima e organizzavano addirittura cene e riunioni per conoscersi meglio.
E l’Unita, come cambiò?
Radicalmente. Se prima era un giornale di propaganda che arrivava ai militanti e agli elettori più stretti, con Occhetto diventa un giornale interessante da leggere per comprendere il dibattito interno al Pci – che prima era cosa segreta. Ci si trovavano addirittura resoconti di scontri interni. Quando si aprì il Pci, si aprì anche l’Unità. Questa dinamicità venne un po’ meno con D’Alema: lui era più uomo di partito, che il dibattito interno finisse sull’Unità non era nelle sue corde.

Sull’altro fronte, la novità fondamentale fu l’ingresso in politica di Silvio Berlusconi…
Con l’avvento del berlusconismo nel sistema politico italiano nacque ufficialmente quella che viene chiamata la seconda repubblica. Con lui si fece strada una sorta di “giornalismo televisivo”, meno riflessivo e più di spettacolo, attento più ai leader che ai partiti in quanto tali.
Berlusconi inaugurò la categoria della cosiddetta “politica spettacolo”. Dopo la vittoria nel ’94 egli portò con sé in parlamento una serie di homines novi. La sua struttura organizzativa era Publitalia, i suoi uomini erano quadri e dirigenti di Mediaset. Il parlamento non era più composto da politici di professione, ma da persone che puntavano molto su come erano vestite, su come facevano lo slogan e su come andavano in televisione. Berlusconi introdusse addirittura una lista con cui determinava chi nel suo partito poteva andare in tv. La scelta non veniva fatta sulla base della bravura, ma sulla capacità di bucare lo schermo, di presentarsi bene.
Va però notato che, nonostante il berlusconismo e nonostante tangentopoli fosse scoppiata in quel periodo, il parlamento in quanto istituzione, in quanto luogo della rappresentanza, non venne messo in discussione.
La seconda repubblica segnò anche il passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario. Questo ebbe un impatto sul modo di fare cronaca politica?
Ci fu un cambiamento innanzitutto tra gli elettori. Con il passaggio dal proporzionale al maggioritario, la gente si abituò a votare non più per il partito ma per la coalizione. Da quel momento il singolo voto contava di più perché non si votava solo per il soggetto politico a cui si era affezionati, ma anche per una coalizione che se vinceva andava al governo.
A livello giornalistico questo si tradusse nel fatto che anche i giornalisti dovevano studiare bene cos’era una legge elettorale. Si creò una piccola ma agguerrita sezione di giornalisti istituzionali, esperti di costituzione e delle famose bicamerali. Di bicamerali ce ne furono tre: Bozzi, De Mita – Iotti, e D’Alema. Io le seguii tutte.

Con la seconda repubblica ci fu un’impennata in termini di giornalisti prestati alla politica. Cosa ci dice questo fenomeno del rapporto che esisteva tra politica e informazione?
Con l’avvento delle coalizioni aumentò l’influenza dei giornalisti politici e questo determinò un aumento importante dei colleghi che diventarono parlamentari. La lista è lunghissima. All’Unità era quasi normale. Reichlin, Macaluso, D’Alema, Veltroni, Caldarola: da direttori della testata divennero tutti parlamentari. O penso a due miei direttori al Messaggero, Gambescia eletto con i Ds ed Emiliani con i progressisti. E tanti altri ancora…
In questo periodo Guido Quaranta, storico collaboratore dell’Espresso, aveva diviso i giornalisti tra “tonni” e “squali”. Gli squali erano i giornalisti che si appostavano, che scrivevano tutto quello che veniva detto loro, anche se questo poteva danneggiare una parte politica. I tonni invece, sempre secondo la descrizione di Quaranta, raccoglievano le notizie ma le “mediavano”, le “attutivano”, quando c’era il rischio concreto di danneggiare il leader che seguivano. Inoltre, i tonni si muovevano in gruppo per cercare le notizie, mentre gli squali di solito agivano da soli.
Secondo Quaranta, gli squali erano di fatto lui e quello che considerava il suo discepolo, Augusto Minzolini.
I due erano giornalisti che azzannavano. C’è un famoso episodio in cui Quaranta si finge commesso della Camera, entra in una stanza in cui c’era una riunione della Democrazia cristiana, fa finta di spolverare i paralumi mentre in realtà ascoltava. O ancora, si racconta di Minzolini che si appostava dietro una parete nella sede del Psi a Roma che era talmente sottile da consentire di ascoltare le riunioni.
Questa divisone tra tonni e squali infastidì non poca gente, fino a quando un giorno Minzolini si candidò con Forza Italia. Diciamo che allora perse molto del suo essere squalo.
Arriviamo al periodo odierno: qual è il principale elemento di rottura?
Questa triste terza repubblica vuole aprire il parlamento come una scatoletta di tonno. I parlamentari sono considerati dei delinquenti impudenti e dei mascalzoni, ai quali va tagliato il vitalizio per il semplice fatto che hanno fatto i parlamentari. Adesso vogliono anche ridurre il numero di deputati e senatori. Perché? Perché così liberiamo le poltrone. A forza di vedere i parlamentari come gente che occupa poltrone si mette fuori gioco la loro vera funzione, quella di rappresentanti dei cittadini e degli elettori. A quel punto è ovvio che si può chiudere il parlamento.
Che impatto ha avuto questa dinamica sul modo di fare giornalismo?
Le redazioni politiche, che fino a qualche anno fa avevano un peso, sono state sfoltite. Sui giornali l’informazione politica è diminuita, mentre in tv si è assistito a un proliferare dei talk show, basti guardare la programmazione di La7. Il dibattito politico ormai avviene lì e questo la dice lunga sulla sua qualità.
La politica non attira più i lettori dei giornali?
Assolutamente no. Questo non va detto, perché dirlo è l’anticamera del qualunquismo e della destra. Guarda nei bar, nei treni o negli altri luoghi di raccolta… La gente parla di politica e, di conseguenza, se ne interessa.
Soprattutto, bisogna finirla di mettere in discussione il ruolo della politica nella gestione della società. Questo genere di atteggiamenti porta alla fine della democrazia, all’uomo solo al comando o ai colonnelli.
L’Italia è passata da un giornalismo riflessivo, che cercava di spiegare le cose, a un giornalismo da stato d’animo. In questo contesto, cosa pensi dell’uso, a volte approssimativo, che viene fatto oggi dei virgolettati?
È un fenomeno che c’è sempre stato. Ricordo un virgolettato attribuito a Fanfani comparso sull’Espresso che provocò ai tempi ilarità perché vi si affermava: “Amintore Fanfani scese dal taxi e pensò:…”
La differenza rispetto al passato sta nei leader politici. Oggi non essendoci dei veri leader, tutto quello che gli viene virgolettato trova il tempo che trova. Una cosa è un virgolettato di Berlinguer, Andreotti, De Mita o Craxi, un’altra è un virgolettato di Di Maio e Salvini. Non voglio sminuire, ma in passato bisognava stare molto più attenti a fare i virgolettati, perché se non andavano bene al leader e al suo apparato erano guai: arrivavano smentite e minacce ai direttori.
Quel che è peggio, con l’avvento al governo di Lega e Cinque stelle l’informazione è stata chiusa – l’opposto di quanto successe nel mondo postcomunista. I politici di oggi non raccontano nulla se a loro non piace o non va bene. Durante il governo gialloverde davano sempre la stessa notizia, ci sono stati giorni di blackout totale, non si sapeva più quali provvedimenti volevano fare.
Il problema vero è che Lega e Cinque stelle hanno messo in piedi enormi macchine di propaganda: quella di Salvini si chiama “la Bestia” ed è gestita da Luca Morisi, mentre quella dei pentastellati è controllata da Rocco Casalino, il quale all’inizio del governo Conte si rese famoso perché diceva al presidente del Consiglio “stai zitto tu”, “basta così”.
Un’ultima domanda su come oggi i giornalisti seguono la sinistra. Matteo Renzi è da molti criticato, odiato e accusato di ogni male, ma ciononostante è oggetto di un interesse quasi ossessivo da parte dei media. Come te lo spieghi?
Renzi ha attraversato varie fasi. Quando prese il comando del Pd i talk show se lo contendevano. Poi però ha dovuto fare i conti con la campagna che gli ha fatto contro il gruppo editoriale facente capo a Repubblica. Questo gli ha fatto perdere una buona fetta di simpatizzanti.
Cosa ha fatto Renzi per essere così poco amato? È una cosa molto terra a terra, che però per i giornalisti è importante: Renzi non chiamava mai i direttori, né per protestare, né per segnalare una notizia. Per un giornalista questa è una specie di offesa. Se poi la cosa avviene con tutti diventa un problema.
In più Renzi ha pestato i piedi ai poteri economici che stanno dietro ai vari gruppi editoriali. Si pensi a La7 che ne accompagnò l’ascesa da rottamatore, innovatore, nel Pd: tutti, a partire da Mentana, se lo contendevano. Ma quando La7 cambiò editore, con l’arrivo di Urbano Cairo, dalla sera alla mattina tutti i programmi divennero anti-renziani. Questo ha suscitato un certo scalpore nel mondo giornalistico.
A ciò si aggiunge la guerriglia da vietcong che gli ha fatto tutto quel mondo che considera sinistra solo D’Alema o Bersani. Una guerriglia durata anni, che ha sabotato il referendum.
Ora Renzi ha fatto quest’operazione. Se ne è andato: può finire come Macron, ma anche come D’Alema, che alle ultime elezioni non è stato nemmeno eletto.
Certo, dal punto di vista giornalistico si può dire che Renzi è tornato a far notizia, anche perché ha trovato il modo di contare nella nuova maggioranza di governo.
Nell’immagine d’apertura Gianni Cervetti, Vincenzo Visco, Stefano Rodotà, Nino Bertloni Meli, Tonino Tatò
Politica e media. Parla Augusto Minzolini

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