L’intervista che qui pubblichiamo è parte della serie di conversazioni con giornalisti che seguono la politica italiana, molti dei quali con una lunga esperienza. L’idea è di ragionare sulla relazione tra politica e stampa e su come quest’interazione abbia caratteristiche peculiari in Italia, influendo sull’una e sull’altra (g.m.)
Maria Teresa Meli è una delle firme di punta del Corriere della Sera. La sua carriera inizia a Il Messaggero. Poi l’Adnkronos fino al 1992, per passare successivamente a Il Giorno e poi a La Stampa, dove è rimasta per circa dieci anni. Dal 2003 è nel quotidiano di via Solferino. Con ytali ha parlato del rapporto tra politica e media e di come questo sia cambiato nelle diverse fasi che hanno scandito la lunga transizione italiana dalla fine della prima repubblica a oggi.

Hai lavorato per Adnkronos fino al 1992 quando poi passasti a Il Giorno. Hai vissuto come cronista politica, quindi, la stagione di Tangentopoli. In base alla tua esperienza, quanto il modo di fare politica e i politici di oggi sono diversi?
Sono diversi per due aspetti, secondo me. Il primo, più banalmente, di cultura politica. Tangentopoli eliminò tutto un gruppo dirigente e gettò improvvisamente alla ribalta le seconde file delle classi politiche dei partiti della Prima Repubblica. Scomparve Bettino Craxi. Scomparve Giulio Andreotti, anche se non per Tangentopoli ma per il processo per mafia che cominciò qualche tempo dopo. Una classe dirigente, che senz’altro aveva fatto male, ma che era di un livello politico superiore. Per esempio, quando seguivo le vicende di Craxi e del Psi per Adnkronos, il leader socialista non era solo il malfattore che veniva descritto nei giornali: era un uomo che poteva intrattenerti per ore sulle origini del socialismo. Un uomo che conosceva profondamente la storia politica dell’Italia. Quelli che vennero dopo avevano una cultura politica molto più scarsa.
E il secondo aspetto?
L’irruzione sulla scena politica della Lega Nord e di Silvio Berlusconi. Fu un cambiamento enorme. I giornalisti, che erano abituati a vivere nel “palazzo”, poiché la politica della Prima Repubblica si faceva soprattutto nei partiti e in parlamento, faticarono a capire quello che stava accadendo. Nel caso della Lega, che proprio con Tangentopoli invece fece un balzo elettorale, le istanze e i problemi del Nord esistevano già da tempo ma il giornalismo italiano sembrava non farci caso. L’entrata in politica invece di Berlusconi, che cambiò profondamente il modo di fare politica, era imprevedibile. È vero che le televisioni del gruppo Fininvest parteciparono in maniera attiva a tutto ciò che accadeva attorno ai magistrati del pool di Milano. Però risultava molto difficile immaginare che Berlusconi creasse un suo partito. Ebbene, l’arrivo sulla scena politica di questi due nuovi soggetti, che parlavano un linguaggio diverso da quello dei politici della Prima Repubblica, fu travolgente. Con le loro differenze: Umberto Bossi era più spontaneo e Silvio Berlusconi più costruito. Però irrompono con forme di comunicazione nuove. E nel caso di Forza Italia con strategie di marketing e sondaggi continui. Un’assoluta novità per chi aveva vissuto la Prima Repubblica. E che cambia anche la relazione tra politica e giornalismo.
Come hanno cominciato i giornalisti a raccontare la nuova politica italiana e come vi si sono relazionati rispetto al passato?
Nella Prima Repubblica le decisioni politiche passavano per gli organi di partito. Si seguivano quindi molto le riunioni dei partiti e si stava molto in Parlamento. Non era necessario parlare con Bettino Craxi per sapere quello che, ad esempio, accadeva nel Psi. Ogni settimana c’erano segreterie e direzioni, anche in un partito come il Psi che molti dall’esterno consideravano gestito in maniera autoritaria dal suo leader. Riunioni che diventavano fonti di preziose informazioni per i giornalisti. Perché qualcuno dei partecipanti raccontava quello che era successo o, più semplicemente, perché era possibile ascoltare dietro le porte le riunioni che si svolgevano sempre in luoghi precisi. Ad esempio, molti di noi giornalisti ci ritrovavamo nella stanza di Clemente Mastella, che era adiacente a quella dove si svolgevano di solito le riunioni della direzione della Democrazia Cristiana e da là si poteva ascoltare tutto. Quando arrivarono Bossi e Berlusconi, la politica si è seguita in altro modo.
In quale?
La politica di Berlusconi passava attraverso personaggi che a noi erano sconosciuti e che non facevano parte del mondo della politica: Fedele Confalonieri, Marcello Dell’Utri, Cesare Previti. Il Parlamento diventava quindi meno centrale, c’erano altri luoghi in cui si faceva politica. Esistevano ovviamente le riunioni di partito, anche se in misura minore rispetto al passato. Inoltre sia Bossi che Berlusconi amavano chiacchierare con i giornalisti, ai quali sapevano dare grosse soddisfazioni da un punto di vista meramente giornalistico. Non rifuggivano il contatto, anzi. Come avevano un rapporto diretto coi loro elettori, allo stesso modo l’avevano coi giornalisti. Ora è molto diverso.

Che cosa c’è di diverso oggi?
Oggi accade che la maggior parte dell’informazione politica passa attraverso le “veline” degli addetti stampa, che veicolano l’informazione. L’accesso diretto ai politici e ai leader è ormai rarissimo. Ed è una cosa tremenda per il giornalismo. Questo accade con la Lega, accade col Movimento cinque stelle e accade anche con la presidenza del consiglio. I giornalisti, che non hanno accesso quindi ad altro tipo di informazione alternativa, le accettano e le riportano sui giornali pari pari.
Facciamo un esempio pratico. Se qualcuno desidera intervistare i ministri del Movimento cinque stelle, la maggior parte delle volte deve inviare delle domande scritte e riceve delle risposte scritte. Non c’è alcuna interlocuzione. Le rare volte che rispondono direttamente, si riesce a parlare con loro e gli si invia l’intervista per rileggerla, i ministri del Movimento cinque stelle invitano il giornalista a inoltrare l’intervista direttamente a Rocco Casalino, il capo ufficio stampa della presidenza del consiglio. Una mancanza di libertà incredibile. Quando cominciai questo lavoro le interviste si “rubavano”: non prendevamo nemmeno appunti per non far capire all’intervistato di essere, appunto, intervistato. Era una chiacchierata e, una volta terminata, ci si appartava con carta e penna e si scriveva tutto quello che era stato detto.
Era sicuramente una forma “piratesca” di intervista. Mi ricordo che una volta, in aereo con Achille Occhetto, allora segretario del Pds, io e Augusto Minzolini ci ritrovammo a ascoltarne uno sfogo politico. Cominciò davvero a parlare a ruota libera. Eravamo in piena Tangentopoli e Occhetto denunciava l’esistenza di un colpo di stato perché la magistratura aveva cominciato ad interessarsi delle tangenti “rosse”. Noi chiacchierammo con lui e una volta tornati al nostro posto, cominciammo a trascrivere sui sacchetti per il mal d’aria tutto ciò che Occhetto aveva detto. Tutte cose che il segretario del Pds smentì il giorno dopo, ovviamente. Però siamo passati da queste forme di intervista all’approvazione di Casalino. E i giornalisti purtroppo accettano questo nuovo modo di operare, diventando una sorta di “buca delle lettere” della politica italiana. E temo che oggi sia molto difficile tornare indietro.
Cosa pensi dell’uso dei “virgolettati” che viene fatto oggi nella cronaca politica italiana?
L’uso dei virgolettati è una pratica molto italiana, senza dubbio. Lo è in questo senso: se i giornalisti vengono a conoscenza di dichiarazioni perché appostati nei luoghi giusti o perché viene riferito loro da più fonti, si tende ad utilizzare il virgolettato perché la notizia non ti è stata comunicata direttamente o ufficialmente. Per esempio, se Matteo Renzi incontra più dirigenti politici e questi dirigenti politici poi ti raccontano quello che ha detto, il virgolettato consente di attribuire a Renzi quelle parole, anche se il giornalista non c’ha parlato direttamente. Il buon “virgolettato” dipende certamente dalla capacità del giornalista e dal numero di fonti di cui dispone. Anche se negli ultimi anni ci sono stati dei mutamenti.
Che cosa è cambiato?
C’è una differenza tra il virgolettato come è stato utilizzato nel tempo dai cronisti politici e il virgolettato anonimo. Oggi non esiste l’attribuzione del virgolettato a un politico in particolare, che poteva anche poi anche smentire. Si utilizzano i virgolettati con espressioni del tipo “il ministro importante dice che….”, “l’autorevole dirigente dichiara che…”. Un virgolettato che non è attribuibile a nessuno. E quel che è peggio è che non sono soltanto i giornali a farne uso: le agenzie di stampa, che sono la prima fonte d’informazione per i giornali, utilizzano sempre più di frequente i virgolettati anonimi. Se avessi riportato dei virgolettati anonimi, quando ho cominciato questo mestiere, sarebbero stati i miei stessi capi a rifiutarsi di pubblicare il pezzo.
E perché ora invece si accetta qualcosa che non un tempo non si sarebbe accettato?
C’è meno professionalità dei giornalisti, in primo luogo. C’è, poi, minore autorevolezza e minore forza dei giornali. Qualche tempo fa, se un direttore avesse ricevuto una smentita per un virgolettato, quel direttore l’avrebbe considerata come una medaglia d’onore, perché significava che era riuscito a mettere in difficoltà il politico di turno. Oggi c’è invece una sorta di terrore della smentita. E che cosa ti può tutelare dalla smentita ufficiale? Il virgolettato anonimo. Questa perdita di potere del giornalismo è legato anche alle minori vendite della carta stampata e alla comparsa dei nuovi media: siamo passati da un’epoca in cui i giornali facevano l’opinione pubblica e i leader li ricercavano ad un’epoca completamente differente. Questa accadeva già con Silvio Berlusconi, per esempio, che smentiva pochissimo i giornali. Per una ragione molto semplice: sapeva che, nella definizione dell’opinione pubblica nazionale, i giornali contavano molto meno della televisione. Gli unici politici che ancora oggi fanno molta attenzione a come vengono riportate le dichiarazioni sono i politici della sinistra perché sono legati ancora a modalità, ormai passate, di relazione tra stampa e politica.
Secondo te è possibile invertire questa tendenza?
Personalmente ritengo di no. Anche perché l’Italia è già un paese che in generale legge poco. E la situazione sta peggiorando. Certo forse qualcosa potrebbe essere fatto da parte dei giornali ma, in ogni caso, per una fascia di popolazione, quella che legge i giornali, che è sempre minore. Lo spazio per migliorare ci sarebbe, soprattutto per il giornale on line, sul quale si punta molto poco: qui la possibilità di provare qualcosa di nuovo esiste. Però ci sono sempre delle reticenze da superare: l’idea che un editorialista possa scrivere appositamente sulla versione on line del giornale è ben lontana dall’essere accettata. I numeri, però, delle vendite non cambieranno.

Sei considerata una delle migliori “retrosceniste” politiche. Su questo tema del retroscena, spesso si dice che sia un genere tutto italiano. Perché il retroscena è una delle modalità usate per raccontare la politica italiana?
Il retroscena è legato al contesto politico italiano. Qui la politica è fatta di molte chiacchiere, di molti non detti, di omissioni, di menzogne. Alle promesse elettorali molto spesso non seguono i fatti. Da destra a sinistra. Il retroscena consente di decriptare tutta questa situazione e di raccontare quello che sta realmente accadendo, al di là delle dichiarazioni ufficiali e delle promesse pubbliche. In Italia, purtroppo, non è possibile limitarsi a raccontare soltanto le parole del politico perché si renderebbe ai lettori un cattivo servizio: semplicemente non racconteresti loro quello che accade davvero.
Quanto influenza il retroscena l’attività dei politici? E accade anche l’inverso? Non c’è il rischio che la politica usi i retroscena per far passare dei messaggi?
Il retroscena influenza la vita politica italiana, soprattutto quando i politici sanno che chi scrive quei retroscena ha abitualmente buone fonti e riporta dei fatti veri. Succede anche l’inverso. Accade sicuramente che un politico utilizzi il giornalista e il retroscena per propri fini. Però qui conta la capacità del giornalista di rendersi conto di essere usato oppure no. Spesso non è semplice da capire. Ad esempio, nella vicenda del ritiro di Marco Minniti dalle primarie del Pd, a me capitò di fare una chiacchierata con Matteo Renzi che si lasciò andare ad una serie di dichiarazioni sul partito e sul suo futuro che io riportai in un pezzo. Quel retroscena, che Renzi poi ovviamente smentì, influenzò la scelta di Minniti di ritirarsi poiché comprese che non aveva la fiducia dell’ex presidente del consiglio. È possibile anche che Renzi abbia utilizzato quella chiacchierata per far passare un messaggio che avrebbe condotto all’uscita di scena di Minniti. Talvolta è difficile da capire. L’importante è comprendere quando si tratta di un comportamento che rientra nella lotta politica generale oppure nei tentativi di danneggiare un avversario politico, interno in questo caso. A me capita di leggere dei retroscena e di capire chiaramente chi, con quel retroscena, si volesse colpire e chi c’è dietro. La combinazione del retroscena col virgolettato anonimo spesso impedisce al giornalista stesso di capire il contesto in cui sta operando e di capire se viene usato dal politico. Solo la comprensione del contesto, dei giochi di potere, degli schieramenti interni, consente di scrivere dei retroscena capaci di decifrare la politica italiana. Quasi mai, però, c’è il dolo da parte dei giornalisti.
Il fatto di occuparsi dei retroscena del Partito democratico, soprattutto negli ultimi anni, ha avuto delle conseguenze negative per te come giornalista? È un rischio del retroscena – con tutto ciò che comporta in termini di rapporti personali per ottenere le informazioni – o del giornalismo in generale?
La politica ha sempre attaccato la stampa. E quando un politico attacca un giornalista cerca di colpirlo là dove fa più male. In questo caso ne attacca l’obiettività. Personalmente, queste critiche non mi toccano, fanno parte del mestiere. Il riflesso del politico è quello di considerare che se un giornalista copre un’area politica significa che è espressione di quell’area. E non è così. Forse l’unico caso particolare è quello della Lega Nord dove abitualmente si scelgono giornalisti del Nord (con alcune ottime eccezioni, come Amedeo La Mattina a La Stampa, che è palermitano). I giornali però hanno la tendenza a far seguire le vicende dei partiti sempre alle stesse persone. Nel mio caso, dopo aver seguito il Psi, mi sono occupata di Pds, poi Ds, poi Pd. In qualche modo poi resti ancorata a quell’ambito perché ne diventi un’esperta. Questa modalità che i giornali usano però non è più adatta, a mio parere, alla situazione di oggi.
E il fatto che alcuni politici ti attribuiscano l’etichetta di “renziana” ti ha ostacolata?
Nel mio caso, il fatto che Renzi quando decide di parlare – e non accade così spesso – decida di farlo con molti altri colleghi e con me è anche legato alla personalità stessa dell’ex presidente del consiglio che ricerca interlocutori che gli assomigliano, soprattutto per i modi spicci. Ed è un atteggiamento che gli è anche costato molto: perché se non parli con i direttori dei giornali e con i principali commentatori qualche conseguenza c’è.

C’è anche una questione di linguaggio per quanto riguarda il giornalismo. E di quanto questo incida nel rapporto tra cittadino e politica. Leggevo di esperienze di giornalisti stranieri in Italia e delle loro difficoltà di comprensione della lingua usata dai giornali: per esempio “bunga bunga”, “celodurismo”, “olgettine”, “inciucio”. Sottolineavano che si trattasse di uno slang politico per una comunità ristretta e, quindi, un linguaggio esclusivo. Che cosa ne pensi?
Non sono d’accordo. Ci sono dei termini che le persone comuni conoscono e che vengono utilizzati perché consentono immediatamente di capire di che cosa si sta parlando: penso al termine “olgettine” o “inciucio” o “il patto del Nazareno”. Poi è vero che esistono dei termini che vengono utilizzati e che dovrebbero essere spiegati più spesso: penso al termine “pianista”. In questo senso è vero che c’è un linguaggio autoreferenziale del giornalismo italiano e della politica. Però forse più che la scelta o l’invenzione di alcuni nomi, si tratta della mancata spiegazione di concetti che si danno molto spesso per scontati.
Per concludere, in base alla tua esperienza di cronista politica, quale sarà secondo te l’evoluzione del sistema politico italiano? Si va verso un nuovo bipolarismo, da una parte l’alleanza Pd-M5s e dall’altra il centrodestra a trazione leghista?
Mi auguro come italiana che non ci sia un bipolarismo di questo tipo. Perché vorrebbe dire che il Pd si è completamente “grillizzato” e che il centrodestra è rappresentato soltanto da Matteo Salvini: due opzioni per il nostro Paese che non considero positive. Tuttavia, riflettendo realisticamente, non escludo che tra due anni possa essere questo lo scenario della politica italiana. Ovviamente con tutti i “se” del caso. Sappiamo che in Italia molto spesso accadono degli eventi che hanno la capacità di modificare molto rapidamente il contesto politico: può accadere che il M5s si spacchi; può accadere che il Pd subisca altre scissioni. E, per esperienza, i cambiamenti politici in questo Paese sono avvenuti anche “grazie” alla magistratura: se la magistratura dovesse accanirsi contro Matteo Salvini l’idea di un centrodestra a trazione leghista potrebbe frantumarsi.
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