Segna un punto a suo favore il presidente peruviano Martín Vizcarra che lunedì aveva sciolto il parlamento controllato dal partito fujimorista a lui avverso e chiamato il paese a nuove elezioni nel gennaio dell’anno prossimo. L’improvvisa drammatizzazione dello scontro che oppone l’esecutivo all’assemblea legislativa è stata determinata dal rifiuto da parte dei deputati di votare una riforma del procedimento di designazione dei giudici del Tribunale costituzionale. L’approvazione della riforma era richiesta dal presidente, impegnato in una crociata contro la corruzione che ha travolto ben quattro presidenti peruviani per lo scandalo dell’azienda brasiliana Odebrecht.
Tanto per essere chiari, si tratta dello stesso tribunale che avrà voce in capitolo sulla vicenda giudiziaria di Keiko Fujimori, figlia dell’ex presidente Alberto, già candidata alle presidenziali, in carcere per essere sospettata di aver intascato tangenti da Odebrecht. Elemento che fornisce una prima immediata chiave di lettura all’ultimo scontro concluso con lo scioglimento del parlamento da parte di Vizcarra, al quale i deputati hanno risposto con la sua sospensione temporanea per dodici mesi, e con la nomina dell’ex sua vice, Mercedes Aráoz, economista, ex ministra del defunto Alan García, quale presidente ad interim, carica che ha conservato per sole ventiquattro ore dimettendosi stanotte. Chiedendo pure lei le elezioni anticipate dell’assemblea legislativa.
Sembra che in tal modo la situazione di grave incertezza che si era aperta nel paese viri a favore di Vizcarra, che pare consolidare la propria posizione dopo aver incassato l’appoggio da parte dei comandi militari e della polizia, di una decina di governatori regionali e dei cittadini che sono scesi in piazza per sostenerlo nel suo sforzo di moralizzazione, e che soprattutto vedono nella politica e nel parlamento i veri beneficiari della corruzione.
Manifestazioni si sono registrate ieri e l’altro ieri a Lima, Huancayo, Cusco, Arequipa, Puno, Trujillo, Moquegua e Tacna, mentre nessuno ha mosso un dito a favore del Congresso che secondo i sondaggi è rifiutato da quasi il novanta per cento dell’elettorato peruviano, i cui deputati, in virtù della riforma seguita al referendum del 2018, non potranno essere rieletti. Altra chiave di lettura che spiega le ragioni dell’accaduto. Solo giovedì scorso il Congresso aveva respinto una proposta presidenziale con cui si chiedeva di anticipare le elezioni al 2020, tagliando un anno del mandato di Vizcarra e dei deputati al parlamento. Proposta appoggiata dal 75 per cento dei peruviani, secondo i sondaggi.

Vizcarra porta a casa anche l’appoggio dell’ambasciata americana che ha espresso il proprio sostegno al governo costituzionale. Cosa che in qualche misura potrebbe influenzare la sentenza che il Tribunale costituzionale dovrà emettere sulla liceità dello scioglimento dell’assemblea legislativa. Una decisione che, secondo la maggioranza di destra fujimorista, il presidente non aveva potere di attuare. Nella storia recente del Perù si ricorda solo un altro fatto simile occorso nell’aprile del 1992, quando l’allora presidente Alberto Fujimori congedò il parlamento con l’appoggio dei militari.
Allora in molti dissero che alla base della decisione del Chino, com’è soprannominato Fujimori in Perù, vi era il tentativo di scansare un’inchiesta sulla corruzione che avrebbe potuto coinvolgerlo. Allo stato dei fatti, la somiglianza col passato finisce qui con lo scioglimento del parlamento, perché Vizcarra, contrariamente a Fujimori, ha invocato la Costituzione e si dice mosso dalla volontà di combattere la corruzione.
Con gli ultimi accadimenti, prende quindi forse soluzione la lunga crisi politica iniziata tre anni addietro con la presidenza di Pedro Pablo Kuczynski, che aveva sconfitto di misura l’avversaria Keiko Fujimori, la quale a livello parlamentare ha potuto contare su una maggioranza schiacciante con cui l’ha costretto alla fine alle dimissioni. Subentrato alla presidenza, Martín Vizcarra ha messo in atto una strategia di scontro con l’assemblea legislativa il cui epilogo è stato il suo scioglimento lunedì. Cosa che ha aperto un dibattito sulla costituzionalità del suo operato, su cui peserà il verdetto del Tribunale costituzionale.

La lunga crisi politica non sembra invece aver intaccato la situazione economica peruviana, che segna un ventennio di sviluppo ininterrotto. L’anno scorso, secondo i dati della Banca Centrale, il paese andino è cresciuto del quattro per cento e si conferma ancora come uno di quelli con miglior performance in America Latina. Per l’anno in corso, le previsioni del Fondo monetario internazionale e quelle della Comisión Económica para América Latina (Cepal) discordano di poco, e prevedono per il Perù un incremento ben al di sopra il tre per cento, a fronte di uno sviluppo di solo lo 0,5 per cento per l’area latinoamericana.
Tutti gli analisti concordano che la crescita si spiega in buona misura con la diversificazione della produzione e dei mercati, la sicurezza garantita agli investimenti stranieri, un’inflazione bassa e il commercio estero che guarda anche all’Europa, basato sull’esportazione di minerali, tra cui l’oro, e di prodotti agroalimentari, e le entrate derivanti dal turismo. Tutti elementi che hanno consentito all’economia peruviana di guadagnare in diversità, di crescere stabilmente e di abbassare l’indice di povertà dal 58,7 per cento del 2004 al 21,7 dell’anno scorso.
Ciò a dispetto anche della grave corruzione portata alla luce dal caso Odebrecht, che ha ammesso di aver pagato ventinove milioni di dollari in tangenti dal 2005 al 2014 in cambio di contratti, tanto che lo scorso febbraio ha sottoscritto un accordo di collaborazione col governo con cui si è impegnata a fornire informazioni sullo scandalo e a pagare una penale di trecentoventi milioni di dollari a risarcimento dei danni arrecati.
Di sicuro tale situazione ha in qualche misura giocato nel rallentare la crescita economica del paese, coinvolgendo, tra gli altri, Alan García (suicidatosi prima di essere arrestato), Alejandro Toledo (negli USA e richiesto di essere estradato), Ollanta Humala e Pedro Pablo Kuczynski, tutti ex presidenti. E la leader principale dell’opposizione Keiko Fujimori.
A parte la positiva congiuntura economica, la crisi politica ha portato prima alle dimissioni di Kuczynski, condannato a trentasei mesi di carcere preventivo, e poi alla preoccupante instabilità creata dal braccio di ferro intrapreso da Vizcarra. Una situazione di grande incertezza, per risolvere la quale, molti hanno temuto un possibile intervento militare che ora sembrerebbe allontanarsi.

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