Politica e media. Parla Lucia Annunziata

“Un politico si misura in termini di fare e di rapporto con il popolo. I mezzi di comunicazione possono giocare per un periodo in positivo, per un periodo in negativo, ma vengono dopo”
MATTEO ANGELI
Condividi
PDF

L’intervista che qui pubblichiamo è parte della serie di conversazioni con giornalisti che seguono la politica italiana, molti dei quali con una lunga esperienza. L’idea è di ragionare sulla relazione tra politica e stampa e su come quest’interazione abbia caratteristiche peculiari in Italia, influendo sull’una e sull’altra (g.m.)

Lucia Annunziata nel corso della sua lunga carriera giornalistica ha osservato il mondo della politica attraverso varie lenti: gli inizi da corrispondente per la carta stampata negli Stati Uniti e in Medio Oriente, il ritorno in Italia negli anni Novanta – con il passaggio in Rai, dove ha curato e condotto (e continua a condurre) diverse trasmissioni – e, da qualche anno, la direzione della versione italiana del giornale online Huffington Post. Dall’America all’Italia, dalla carta stampata alla televisione, per finire con il digitale: con la conduttrice di Mezz’ora in più, ytali ha cercato di fare il punto su come si è evoluto il rapporto tra politica e mezzi di comunicazione.

Lucia Annunziata, in Italia il mondo della carta stampata è condizionato dalle anomalie del sistema politico e ne riflette le contraddizioni. È questa una peculiarità tutta italiana?
Lo era in passato. Una volta negli Stati Uniti per comprendere la situazione generale del paese e della sua élite bastava leggere il New York Times, il Washington Post e qualche giornale locale.

In Italia nello stesso periodo dovevi leggere l’Unità, Repubblica, il Mattino, il manifesto, il Corriere, e via dicendo, perché i giornali rappresentavano pezzi della società. Il Corriere della sera rappresentava la finanza laica del nord, il Mattino di Napoli il partito del denaro di stato (tra gli azionisti c’erano le banche del sud), l’Unità era un giornale di partito…

Oggi le cose sono cambiate: se vai in America e leggi il New York Times e il Washington Post non hai letto niente perché questi sono schieratissimi con i democratici e lo dicono pure.

Il resto del mondo si è italianizzato.
Il rapporto tra politica e giornalismo è forte e allarga i suoi confini, diventando la norma anche nei paesi anglosassoni.

Lo stesso discorso vale per la televisione?
Sì, salvo alcune rare eccezioni nei paesi dove c’è una forte voce di servizio pubblico. Mi riferisco principalmente alla Bbc in Inghilterra.

La Spagna e la Francia, invece, assomigliano all’Italia, con quest’ultima che è messa un po’ peggio, perché da noi, diversamente da altrove, non è mai stata fatta una riforma per salvaguardare l’indipendenza dell’informazione televisiva.

Emblematico è poi il caso americano: lì prima c’erano tre grandi emittenti televisive: Abc, Cbs, Nbc. Ora, invece, il contesto è fortemente politicizzato: basti pensare allo scontro tra Cnn e Fox. Tutto questo è dovuto non solo a questioni ideologiche, ma anche all’evoluzione tecnologica che ha portato a una moltiplicazione dei mezzi di comunicazione.

A proposito delle dinamiche tra carta stampata, televisione e politica, cosa pensi del fatto che in Italia vari giornalisti della carta stampata appaiono spesso in televisione? È un segno del declino della carta stampata?
No, è frutto della furbizia degli editori: invitando i giornalisti della carta stampata in tv, gli editori televisivi si ritrovano con una splendida forza lavoro che non devono nemmeno pagare. Tant’è vero che nel mio gruppo editoriale, il Gruppo Espresso, c’è una regola aziendale che impedisce ai giornalisti di andare troppo in televisione. È necessario un permesso, che, in ogni caso, di solito viene concesso, perché avere un proprio giornalista in tv è comunque positivo per l’immagine del gruppo. Tuttavia capita spesso di sentire la dirigenza della nostra azienda lamentarsi perché uno va in televisione, su canali che peraltro possono essere concorrenti sul piano editoriale, perché appartenenti a un gruppo che ha anche un giornale.

Gli editori televisivi hanno trovato il modo per fare informazione abbassando i costi ma facendo comunque ricorso a gente con tantissima competenza.
Una volta produrre l’informazione in tv era faticosissimo e costosissimo. Penso al caso della Rai: ci volevano le troupe di supporto, i giornalisti che viaggiavano, gli inviati. Adesso no. I talk show sono tutti gratis. Se poi c’è un evento internazionale importante, metti sotto contratto per un periodo gli inviati di un giornale: non ti costa praticamente nulla.

Al di là della bravura dei giornalisti in questione, questa dinamica dovrebbe far riflettere sulla qualità con la quale si fa televisione. La verità è che viene messo insieme un prodotto, che magari è anche di successo, ma non viene fatta alcuna inchiesta.

Ci vorrebbero programmi che investono di più?
Ci vorrebbero programmi che investono di più sulla propria ricerca della realtà, portando i propri giornalisti dentro la notizia, con una vera struttura di inviati. L’editoria è in crisi, costa molto, vende poco. I lettori e gli ascoltatori sono sempre meno, i canali sono sempre più, i media si moltiplicano e i giornalisti finiscono per essere troppo costosi. C’è un fenomeno industriale per cui gli editori tagliano i costi. A questo si affianca un fenomeno politico di radicalizzazione.

La conseguenza? Oggi alcuni programmi fanno solo chiacchere, non hanno inviati e, a volte, nemmeno giornalisti.

I talk show hanno forgiato due decenni di italiani, nel loro modo di vivere la politica, quasi più da spettatori che da protagonisti. Pensi che questo genere di programmi abbia contribuito a dar vita alle forme di radicalizzazione politica a cui hai accennato?
Io non penso che venga prima l’informazione e poi il popolo. È viceversa: viene sempre prima il popolo e poi l’informazione.

Questo mi fa pensare a una storia che raccontava un collega inviato in Sudafrica ai tempi della rivolta contro l’apartheid, diventato poi direttore del New York Times: quando lui era in Sudafrica si diceva che i neri si stavano ribellando perché i giornalisti arrivavano lì in massa con le loro telecamere. In altre parole, la presenza dei giornalisti avrebbe provocato la rivolta. Sono affermazioni semplicemente ridicole!

Tutto questo per dire che l’informazione è sostanzialmente reattiva, non è creatrice di nuove forme. Quando reagisce può enfatizzare o meno un fatto, ma l’idea di fondo resta la stessa: l’informazione coglie un fenomeno che c’è già, non può creare un fenomeno che non c’è.

Tanto si è detto e scritto del consenso di Berlusconi creato dalle sue televisioni.
Le televisioni di Berlusconi andavano bene perché coglievano la voce di un pezzo di società che i mezzi di comunicazione dell’epoca non avevano colto. Poi su quello venne costruito un fenomeno politico. Ma non è la tv che ha creato l’Italia di Berlusconi, così come sarebbe sbagliato attribuire alla presenza di Salvini su Facebook il potere del leader leghista.

L’illusione di governare attraverso l’informazione e non attraverso il sale della politica – il contatto sentimentale con il popolo – ha fatto cadere due leader come Matteo Salvini e Matteo Renzi. Renzi quando era popolare lo era perché suscitava delle passioni dentro la gente. Quando ha cominciato a fare errori a livello politico, ha perso il referendum, nonostante fosse su Facebook tutti i giorni. Lo stesso vale per la parabola di Matteo Salvini.

Quindi non è vero che la politica italiana conta in termini di presenza dei politici in Rai?
All’origine di un fenomeno politico non c’è mai il tempo di esposizione nei media. Il consenso è un qualcosa di anteriore, che i media intercettano. Una volta che i media hanno intercettato il consenso, lo possono ingigantire, lo possono usare in bene o in male, dandogli uno spin positivo o negativo. Ma non sono i media che creano il consenso.

Matteo Salvini è sulla scena politica da anni. La Lega è il soggetto politico più vecchio nella galassia dei partiti italiani. Il suo exploit non è dovuto al fatto che ora c’è Luca Morisi con la Bestia. Salvini è diventato quel che è diventato perché si è messo su un fronte di domanda politica che può anche non piacere ma che è ben rappresentata ed era molto forte. Morisi è arrivato solo successivamente. Dopodiché Salvini, a forza di compiacere la logica dell’informazione ci è caduto.

Lo stesso vale per Renzi, il quale aveva preparato con i migliori registi il suo rilancio con un documentario su Firenze, che alla fine non si è filato nessuno. La politica è una questione che si misura in termini di fare e di rapporto con il popolo. I media possono giocare per un periodo in positivo, per un periodo in negativo, ma vengono dopo.

Il modo di fare informazione è cambiato rispetto al passato? L’informazione è più “sentimentale” e meno esplicativa?
L’informazione segue gli stilemi del tempo. Viviamo in tempi di “uno vale uno”, di Facebook, del web. C’è una platea più grande, il web si nutre di altre cose, di dettagli, di vite personali, di sfoghi. Oggi la politica ha uno stile diverso rispetto al passato. Ai tempi di Alcide De Gasperi lo stilema della politica era: niente vita personale, soltanto opere, possibilmente molto ben documentate. Il politico allora non andava molto in televisione.
Ma con il cambiamento degli stilemi non cambia la sostanza: un politico alla fine regge se intercetta i bisogni della gente, o almeno di un segmento di persone, e, di conseguenza, fa cose.

Dire che i media creano un personaggio è un modo bellissimo per crearsi l’alibi di chi perde. La sinistra italiana è stata il battitore libero che ha aperto questa storia: quando ha perso con Berlusconi si è giustificata dicendo che Berlusconi aveva vinto perché aveva le televisioni. Dopodiché quando vinceva non sapeva rispondere a chi gli chiedeva: come avete fatto senza le televisioni?

La sinistra ha preso la lezione di Marshall McLuhan per dire che quando perde lo fa perché non ha usato bene i media. Tutti ormai fanno questo discorso: la politica è morta, i comizi non si fanno più, i partiti sono sciolti, vivono solo i media. E, di conseguenza, la politica è diventata l’arte di come occupare i media.

È un ragionamento che non funziona, perché la gente non è stupida.

Oltreoceano, anche una parte di America ha tentato di dire a sé stessa che la vittoria di Donald Trump è stata causata dai media…
Questa è solo una scusa. Nella prima parte della campagna elettorale i media non seguirono Trump.

Quando Trump si candidò io dirigevo già l’Huffington Post. Ricordo che, in un incontro annuale tra i direttori delle varie versioni nazionali del nostro giornale online, la fondatrice, Arianna Huffington, lanciò la parola d’ordine di seguire Trump non nel notiziario politico ma in quello dell’intrattenimento. Io, insieme al mio collega spagnolo e a quello francese, la mettemmo in guardia: “Sei sicura? Attenta che quello vince”. Io avevo già avuto a che fare con Berlusconi, i miei colleghi con esperienze politiche simili.

Trump ha vinto perché ha girato molto il paese (fa tantissimi eventi sul territorio), perché parla in maniera diversa e perché ha saputo intercettare il momento di crisi della classe piccola e media, bianca, dell’America.

L’avvento del digitale, dei social network, ha in un certo senso favorito i politici come Trump?
Sì, ma questi sono gli stilemi dell’epoca. Una volta ai politici piaceva andare in piazza in giacca e cravatta e con il cappotto abbottonato. Oggi lo stile, anche in fatto di abbigliamento, è cambiato e i politici si adeguano.

I politici non sono dei trend setter, ma sono dei follower per eccellenza. La maggior parte di essi è lì, davanti a mille persone, a cercare di dire a queste persone quello che già sanno.

Non è il politico che crea il pubblico ma il pubblico che crea lui, perché è questo che ti dà successo in politica. Naturalmente, se poi a ciò non segue un’azione di governo, non importa quanto consenso un politico abbia intercettato, gli elettori glielo tolgono.

Rispetto al passato, oggi è cambiata l’idea di consenso. Prima il consenso si creava e alimentava. Adesso invece bisogna compiacere il pubblico.

Qual è il ruolo del giornalista in questo scenario?
I giornalisti sono una categoria in crisi. Non ci sono più le grandi strutture, i grandi gruppi editoriali sono in crisi, la separazione tra essere giornalista e un mondo in cui tutti scrivono è diventata sempre più esile.

I giornalisti cercano di fare il loro lavoro, in uno spazio sempre più ristretto, perché oggi sono sempre meno in grado di esercitare una forza intermediatrice tra la politica e il consenso.

Faccio un esempio: quando Berlusconi faceva i suoi comizi con le cassette e dava le cassette a tutti i suoi media ci scandalizzavamo perché non si sottoponeva alle domande dei media. Oggi Facebook è la stessa cosa delle cassette di Berlusconi. Abbiamo accettato che i politici vadano su Facebook per raccontare cosa mangiano o dove vanno.

O si pensi al presidente del consiglio, Giuseppe Conte, che va in giro, parla sul palco, ma non si fa mai intervistare. Abbiamo accettato che i politici non debbano più sottoporsi alle domande dei giornalisti.

Così facendo i politici ci dicono: “Noi di intermediazioni non ne abbiamo più bisogno”. Questa è il punto di maggiore debolezza del nostro mestiere.

Politica e media. Parla Augusto Minzolini
Politica e media. Parla Nino Bertoloni Meli
Politica e media. Parla Maria Teresa Meli
Politica e media. Parla Barbara Tedaldi

Politica e media. Parla Lucia Annunziata ultima modifica: 2019-10-04T13:00:01+02:00 da MATTEO ANGELI
Iscriviti alla newsletter di ytali.
Sostienici
DONA IL TUO 5 PER MILLE A YTALI
Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!

VAI AL PROSSIMO ARTICOLO:

POTREBBE INTERESSARTI ANCHE:

Lascia un commento