Gesù mio ti ringrazio! È venuto qualcuno che vuole sapere chi è Cudjo! E a me va proprio tanto di dire a qualcuno chi sono, così magari un giorno quello lì va nella terra dell’Afficky e fa il mio nome e allora qualcuno che sta lì gli dice: Sì sì, io Kossula lo conosco.
Devi dirlo a tutti, ovunque vai, quello che ti dice Cudjo, e come ho fatto a venire nella terra dell’Americky del 1859 e che non ho più visto la mia famiglia. Io non so parlar bene, ma ti dirò tutto parola per parola così per te non è troppo complicato.
E in effetti Zora Neale Hurston, all’epoca trentaseienne e antropologa, ci prova a raccontare la storia di Kossula dopo l’intervista che li vede insieme per diversi giorni nel lontano 1927. Cudjo dice le cose come stanno e come sono state, senza fronzoli, perché non sa neppure cosa sono i fronzoli, orgoglioso del suo nome d’origine, quello vero: Kossula. È stato l’ultimo schiavo d’America a raccontare la sua vita. Forse anche il primo nella lucidità dei ricordi e nella semplicità della storia struggente che narra tra un cocomero da mangiare e l’orto da zappare.
Zora Hurston rimane particolarmente colpita dalla memoria straordinaria di Kossula, dalla sua timidezza alternata al desiderio di avere compagnia, il suo garbo e la fecondità dei dettagli del passato.
Cudjo nasce come Kossula nel 1860 in terra d’Africa. A Zora racconta della tribù, del nonno ufficiale del re Akia, della società costituita da famiglie con più mogli e numerosi figli, della preparazione alla guerra dal compimento dei quattordici anni, di come ci si sposa e di come si svolgono i processi e le condanne, del consiglio dei capi e del rito del boia, del senso della morte e del senso della vita.
Cudjo impiega giorni interi a raccontare: alle volte s’intristisce troppo per andare avanti e chiede tra le lacrime una pausa che si protrae per giorni, altre volte deve lavorare l’orto e non ha tempo per parlare, altre si intimidisce o è di cattivo umore e allora rimanda… Riesce però a tornare indietro nel tempo fino ai momenti drammatici della cattura, alla testa tagliata del suo re e di tutti quelli che lo hanno difeso:
…Così la gente ha potuto affumicare le teste per non farle marcire più. Oddio, oddio, oddio! Noi dovevamo stare lì seduti a vedere le teste della nostra gente che si affumicavano sui pali. Siamo rimasti lì per nove giorni.
Kossula è prigioniero insieme alla sua gente, catturato dal re dei Dahoney che commercia in schiavi.
Viene rinchiuso nel barracoon (prigione) – ad ogni nazione un barracoon diverso – per tre settimane. È un bianco che viene ad esaminare la merce, a scegliere, a dividere.
Però Cudjo ha visto dei bianchi, ed era una cosa che non aveva mai visto prima. A Takkoi avevamo sentito parlare dell’uomo bianco, ma da noi non ci venivano.
Kossula viene legato in catene e imbarcato, con altri 130 schiavi, denudati e fatti sdraiare. Un po’ d’acqua due volte al giorno, poco o niente cibo, per giorni. Solo il tredicesimo giorno vengono tutti trascinati sul ponte dove non riescono a muovere anche solo un arto. Il viaggio dura in tutto settanta giorni prima di mettere di nuovo piede sulla terra ferma.
A quel punto c’è l’Americky: gli schiavi vengono rivestiti e portati sul fiume Alabama, nascosti nella palude fino a quando i mercanti si spartiscono il bottino, separandoli ancora una volta. Comincia un’altra avventura per Cudjo Lewis, l’ultimo schiavo d’America.
A Zora Hurston racconta del lavoro, dell’amore, dei figli, della guerra civile, della conquistata libertà, della sua chiesa e della sua casa, e di quel limbo di vita in Africatown, l’unica comunità africana in America. E se le parole sono le note, la nostalgia è la melodia che contraddistingue il racconto di Kossula: il ricordo della terra dall’altra parte del mare che non rivedrà, i legami perduti lungo la via della schiavitù e quelli più stretti strappatigli dalla morte, sempre troppo vicina.
La storia di Cudjo è un viaggio diverso: un’America sconosciuta e, nonostante sia descritta nei minimi dettagli, difficile da comprendere, troppo lontana dalle nostre sicurezze, agi, tranquillità. Ma Kossula ci porge la sua vita genuinamente, senza acrimonia. Forse anche per questo non fu pubblicato nel 1927 e neppure dopo.
Non sarebbe stato facile affrontare questo testo a quell’epoca: oltre a essere scritto da una donna, era troppo vicino ai fatti, con troppe persone coinvolte, e troppe colpevolezze evidenti. Meglio sotterrare, far dimenticare… Ma la memoria di Cudjo ha aspettato pazientemente ed è risorta oggi, nero su bianco, entrando in tutte le “best list” dei libri americani e inglesi.
Uno di quei libri “must read”: peccato non saperlo scrivere in africano, in omaggio all’ultimo schiavo.

La traduzione del libro è di Sara Antonelli, Mauro Maraschi
Nell’immagine d’apertura Zora Neale Hurston

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