Sua Maestà la Rucola della Piana del Sele è prossima a entrare nell’empireo dei marchi di qualità europei: sembrerebbe davvero mancare poco al fregiarla dell’Indicazione Geografica Protetta. Un risultato non da poco per un’area del Sud che dà segni di grande dinamismo. Ma non è tutto oro quello che luccica. Proviamo a capire meglio.
Da Battipaglia a Paestum, passando per Bellizzi ed Eboli sulla costa e da Altavilla Silentina e Serre a Capaccio nell’interno, si estende in questo fazzoletto di territorio della Campania di circa cinquecento chilometri quadrati uno dei distretti produttivi dell’agroalimentare più in evoluzione del nostro paese. Ma anche uno dei distretti produttivi più integrati nelle dinamiche dell’economia globale.
Se nelle colline e nei contrafforti appenninici che fanno da sfondo l’ulivo regna sovrano sul paesaggio agrario, i templi di Paestum sono letteralmente circondati da allevamenti bufalini e caseifici e da coltivazioni di mais per alimentare le bufale.
Ma, soprattutto, sono annegati in un mare di serre sotto le quali si realizza il miracolo della produzione di insalate e verdure che finiscono nelle buste pronte per l’uso dette della IV gamma, di cui la Piana rappresenta un polo produttivo da primato.
All’ombra delle serre si realizzano fatturati significativi e in crescita: due miliardi e mezzo di fatturato, più quindici per cento l’anno, trenta per cento dell’export dell’agroalimentare della Piana. Oltre trecento milioni di fatturato solo per la IV gamma. Poco meno di seimila ettari coltivati. Oltre tremila dei quali sotto serra.
Senza poi dimenticare il valore della filiera bufalina e della produzione di mozzarella di bufala, DOP e non, che vede concentrare in questa stessa area, come si evince dal recentissimo Rapporto SVIMEZ, oltre il trenta per cento degli allevamenti campani, del latte e della mozzarella prodotta che nel loro insieme valgono qualcosa come 1,2 miliardi di euro.
Un vero e proprio boom negli ultimi 25 anni, se si pensa che in Campania siamo passati da 115 mila a 494 mila tonnellate di mozzarella, con crescita annua del sei per cento.
Ci sono tanta capacità d’impresa e tanto lavoro concentrati in questi risultati. Senza dubbio siamo in presenza di una realtà di grande dinamismo. Nella sua stessa genesi, però, sono chiari i punti di forza ma anche i limiti.

La storia della IV gamma nasce in Italia fondamentalmente intorno al nucleo originario di un primo polo produttivo collocato nel confine Nord della Pianura Padana tra Bergamo e Padova. È da qui che viene la spinta verso la Piana: si verifica come in questa area del Sud, sotto serra, e senza riscaldamenti, si realizzano condizioni ideali per avere dai sei agli otto cicli produttivi all’anno.
E così comincia la “storia”, lavorando per i marchi del Nord. E poi per multinazionali come Bonduelle, che ha proprio a Battipaglia uno dei suoi centri più importanti. E nell’insieme si realizza una produzione ideale per la grande distribuzione organizzata (Gdo). In tutti i casi la logica che si afferma è quella della Fattoria globale, con una compressione dei margini di valore aggiunto di cui ben poco rimane sul territorio.
Si cresce, sì. Ma in modo dipendente. E con margini di guadagno sempre più ristretti, a cui cerca di rispondere la crescita di dimensione aziendale per ottimizzare la produzione e la trasformazione.

Ma la logica della Fattoria globale reca con sé anche altre “necessità”: massimo sfruttamento del suolo e massimo scarico all’esterno di costi non calcolati, a cominciare da quelli ambientali; massimo sfruttamento del lavoro.
Modello produttivo, e quindi modello competitivo, rapporto con l’ambiente e realtà del lavoro sono le tre sfide di fronte a questo territorio.
Del modello competitivo
Con l’attuale modello ci sarà uno sfruttamento di tutto il suolo sfruttabile, per tutto il tempo possibile e poi, da parte dei grandi marchi e da parte della Gdo, quando una delle pianure più fertili sarà diventata “inservibile”, la si abbandonerà al suo destino e ci si rivolgerà verso altri territori nei quali far ripartire il ciclo produttivo: questa è la logica della Fattoria globale.
Questa è la storia già realizzata in tanti altri luoghi del mondo da essa “colonizzati”.
Si può stare in modo diverso sul mercato? Sì, ma allora occorre davvero invertire la rotta. E in questo senso recuperare margini di competitività per i produttori puntando in modo spietato sulla qualità.
Bisogna cioè immaginare non solo il prodotto ma tutta la filiera come espressione di un percorso di qualità. E perché non si dovrebbe poter pensare al Polo della Piana del Sele, per la IV gamma, come al primo integralmente biologico, ma anche con applicazioni di agricoltura rigenerativa e del Metodo Nobile? Cosa darebbe questo in termini di vantaggio competitivo?
E quanta innovazione c’è da applicare o addirittura da creare, con l’agricoltura di precisione, per un distretto che a questo punto può diventare anche modello di soluzioni innovative in chiave di sostenibilità ambientale, eliminando progressivamente la plastica da petrolio per le serre, realizzando una capacità nuova di autoproduzione energetica da fonti rinnovabili…
Dell’ambiente
La crescente pressione antropica ha contribuito ad alterare gli equilibri socio-ecologici, correlandosi direttamente al rischio di erosione costiera e dei suoli. Relativamente al settore primario, fenomeni direttamente legati alla Land Degradation sono l’emungimento dalla falda acquifera superficiale con conseguente innalzamento del cuneo salino, il compattamento dei suoli dovuto a eccessiva meccanizzazione e lavorazioni intensive dei terreni, e l’incremento del sigillamento dei terreni dovuto alle coltivazioni in serra.
Così uno studio importante che già alcuni anni fa segnalava il problema.
E, rispetto ad allora, il problema è ancora cresciuto.
Poi c’è quello che accade sotto le serre. Un’altra ricerca, riferita alla coltivazione in serra in un’altra zona del paese, il Lazio, promossa dall’Università della Tuscia, ha rilevato che, in quei casi di specie:
i quantitativi di fitofarmaci somministrati alle colture in ambiente protetto sono generalmente superiori a quelli in pieno campo ad eccezione degli erbicidi che sono più utilizzati in pieno campo.
E poi, ancora:
Dalle elaborazioni eseguite è emerso che l’indice di esposizione ambientale dell’aria a tutti i pesticidi è molto più elevato in ambiente protetto (+217 per cento) mentre quello del suolo e dell’acqua di falda sono più elevati in pieno campo che in serra (-52 per cento). Per gli allevamenti bufalini vi è invece il non piccolo problema dei nitrati, riferiti alle deiezioni, mentre sempre più si presenta il problema degli effetti della coltivazione dei cereali per la loro alimentazione che vivono degli stessi problemi di tutta l’agricoltura intensiva (uso di fitofarmaci, pesticidi e uso di concimi di sintesi). La Piana del Sele ha quasi raggiunto la costa di Almeira in Spagna (altro distretto della Fattoria globale specializzato nella produzione di fragole) quanto a densità delle serre. Ci vuole un Piano Regolatore della serricoltura, un programma di innovazione della stessa, occorre definire regole e pratiche di re-inverdimento tra una serra e altra, ricostruendo filari verdi e siepi. E occorre dire anche una cosa semplice: basta a nuove serre in Piana. Anzi si vada ad una loro progressiva riduzione.

Del lavoro
Forse qualcuno avrà ancora memoria dello sgombero di San Nicola Varco: giusto dieci anni fa. Diverse centinaia di migranti “alloggiati” nei vuoti industriali e commerciali abbandonati o mai avviati, in condizioni igieniche e di vita non umane. Sì, perché i protagonisti del lavoro delle produzioni di cui stiamo parlando sono fondamentalmente loro: al loro lavoro sono legati conduzione di serre, campi, per oltre la metà degli addetti, e allevamenti bufalini, qui la totalità praticamente.
Da quella ferita qualcosa è cambiato in questo territorio. Non tanto da capovolgere il quadro che emerge da una interessante e coraggiosa inchiesta condotta da Gennaro Avallone.
Il caporalato vive ancora in quell’area. Ma da allora, con un impegno del sindacato, FLAI Cgil in testa, di tanti enti locali, dello stesso sistema d’impresa, un percorso per promuovere azioni attive di inclusione e di trasparenza nel rapporto con il mondo dei migranti sono state avviate. Persino un problema semplice come quello dell’espletamento dei bisogni corporali durante il lavoro prima era un non problema e oggi in tante aziende e serre è risolto: ora ci sono i bagni! Con i Comuni si è avviato un lavoro per la sistemazione alloggiativa, diversi casali abbandonati sono stati sistemati a questo fine insieme a tanti appartamenti nei centri cittadini; una progressione della contrattualizzazione si è vissuta.
E se è vero che la Piana del Sele è lontana dalla condizione di altri territori del Sud dove lo Stato sembra assolutamente assente, occorre anche dire che picchi significativi di sfruttamento sussistono ancora. Le comunità di migranti continuano a vivere in un limbo quanto a relazione con le comunità preesistenti (del resto basta attraversare la Litoranea tra Pontecagnano e Paestum), tanto da poter ripetere anche per questa area quanto il sindaco di El Ejido, importante centro agricolo della Spagna, ebbe a dichiarare un po’ di anni fa:
Alle otto del mattino gli immigrati sono pochi, alle otto della sera sono tutti di troppo.
Contratti regolari a giornata lavorativa dovrebbero essere sostituiti da assunzioni a tempo indeterminato, visto che poi questi stessi lavoratori, spesso, lavorano nei fatti tutto l’anno. Insomma, una grande questione per una grande sfida: non può esistere qualità agroalimentare fondata sullo sfruttamento del lavoro.
Che si vuole fare? Sempre la FLAI Cgil, insieme ad altre associazioni si batte per una certificazione sociale di filiera. E nella Piana del Sele sono ancora troppo pochi gli imprenditori che hanno aderito alla Rete Agricola di Qualità prevista dalla nuova legge contro il caporalato.
In questi anni, iniziative di associazioni come Medici per i Diritti Umani ed Emergency hanno lanciato l’allarme sulle condizioni di salute di tanti lavoratori quanto a uso e contatto con pesticidi e fitofarmaci, temperature nelle serre, limitata circolazione dell’aria… Perfino l’INAIL, finalmente, ha affrontato il tema con un primo rapporto sul lavoro in serra, con uno studio sul campo in Calabria (a quando uno studio anche sulla Piana del Sele?): e questo rapporto dice che c’è tanto da fare ancora. Il più.
Un prodotto è buono se è naturale e non frutto di modificazione genetica. Un prodotto è buono se è coltivato in sintonia con l’ambiente. Un prodotto è buono se rende visibile il percorso di rispetto e di diritti del lavoro, di tutti i colori, che ha alle sue spalle.
Attenzione: al netto di norme e leggi, cresce una grande sensibilità nell’opinione pubblica e nei consumatori per questi tre elementi di qualità.
Può essere la Piana del Sele a realizzare, tra le prime in Europa, quello che in larga misura rimane un ossimoro e cioè una agricoltura intensiva ecologicamente e socialmente sostenibile?
Dice l’imprenditore: ma come faccio, i costi, la burocrazia… Bene, allora si faccia questo tavolo con Regione, comuni, organizzazioni d’impresa e sindacati, associazioni ambientaliste come Legambiente e come Slow Food, mondo dell’alta formazione e della ricerca, per dare vita a un programma organico di interventi e di conversione alla qualità integrale delle produzioni di questo territorio.
E le risorse? Ci possono essere tutte le risorse necessarie. Cominciamo con l’indirizzare in queste direzioni, ad esempio, la nuova programmazione comunitaria per il 2020-2026 e a dire che per il nuovo PSR, in generale, i fondi non andranno alle imprese che si sottrarranno a questa sfida della qualità integrale e che saranno riservati alle imprese che, invece, ne vorranno essere protagoniste. Si può raccogliere una sfida così?
Questo articolo appare sull’ultimo numero della rivista su carta InfinitiMondi


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