Cosa ci porta questa terra che ci ha visti nascere e che ha generato le nostre origini, lasciando che ogni suo figlio cercasse il proprio spazio verso ogni latitudine? Cosa ci ricorda la nostra genesi, che dopo aver aperto varchi ed essersi incontrata in ogni angolo di mondo, adesso invece chiude porte ed erige muri?
Abbiamo forse dimenticato i nostri fratelli, le nostre sorelle? Abbiamo dimenticato noi stessi? E chi stiamo respingendo alle frontiere, se non la memoria di chi siamo? Ma senza memoria, rinchiusi nelle nostre patrie trincee, non sappiamo più nemmeno dove andare e inventiamo un’identità, un’appartenenza che non ha alcun legame con quel bandolo antico che ci accomuna. Se continueremo a respingere la nostra alba, non resterà che un tramonto senza risveglio e saremo condannati a vagare nel buio della nostra umanità, incapaci di coniugare al “noi”.
Nonostante tutto, c’è però un nuovo vento che, attraverso le parole della poesia, ci attraversa e ci riporta a un sentimento comune. Nuove voci poetiche stanno spargendo i loro semi, affinché germoglino in ogni ascolto. Due di queste voci, arrivate dal Senegal e dal Mali, vivono ora in Italia, portando nel loro bagaglio versi di rivendicazione e di fratellanza, d’impegno e consapevolezza, d’amore e di lotta, per riuscire a riportare l’essere nei confini dell’umano, per combattere la bestia che ci abita e che si nasconde nella parola “nemico”.
Smascherare dunque il nemico è il loro compito, la loro missione, per riuscire a mostrarci nella nostra nudità, a vederci per chi davvero siamo. Questo potrebbe sembrare poco, ma è un atto rivoluzionario che disinnesca l’artiglieria dell’odio e della discriminazione, che disarma la necessità del conflitto e che ci rende uguali, pur nelle nostre differenze.
Soumaila Diawara è un poeta che viene dal Mali, che è dovuto fuggire dal suo paese, lasciare i suoi cari perché minacciato di morte, perseguitato per le sue idee politiche e per non volersi piegare all’arbitrio. Ha già pubblicato due raccolte poetiche auto prodotte, Sogni di un uomo e La nostra civiltà, che con reading e incontri pubblici sono diventati dei veri strumenti di lavoro attraverso cui lui denuncia l’oppressione del capitalismo, le sue logiche che creano divisione e conflitto, ma dove racconta anche la sua visione ideale di mondo: una comunità senza frontiere, in cui sia sancita l’uguaglianza dei diritti e il rispetto delle diversità, affinché queste possano diventare occasione di crescita e reciproca ricchezza e non motivo di esclusione.

Quando può e ci sono le giuste condizioni, Soumaila declama nella sua lingua originaria, il bambara, che rende il suo messaggio poetico ancor più vivo ed efficace, dove spesso ribalta la prospettiva di sguardo, per riuscire a mostrare i limiti attraverso cui viene letta la realtà:
La mia casa è così piccola che
oltre me, può contenere solo il tuo oro
i tuoi diamanti, le tue banane, il tuo caffè
il tuo gas per il mio riscaldamento
il tuo petrolio per la mia automobile
ma sappi che non c’è
nemmeno più un buco
per te.
Ma la denuncia di Soumaila è anche capace di una disarmante ironia, come quando si rivolge agli altri migranti:
Migranti di tutto il mondo, state attenti.
Se siete belli, abbrutitevi.
Se siete intelligenti, fate gli scemi.
Se siete alti, camminate sulle ginocchia.
Ma, badate bene a non far sentire
nessuno di loro uguale a voi.
Specie quando, come me
non siete altro che neri.
O quando si trasforma il “noi”, da dimensione di appartenenza a una forma di alleanza per stabilire una divisione, una separazione da altri noi, fino a trasformare il senso originario del “noi” in eserciti contrapposti, invece che in membri della stessa famiglia umana:
Ѐ piacevole il suono del Noi
Così tanto da usarlo, il noi.
senza ritegno alcuno
per giustificare atti e fatti,
che a volte vanno oltre l’orrore.
Il Noi è il plotone di esecuzione;
dieci fucili per un corpo.
Dieci pallottole per togliere una vita.
Il Noi, toglie il rimorso. Giustifica il male.
Noi dell’Italia. Noi del Sud.
Noi Maliani. Noi Africani.
[…]
Noi, che viviamo, siamo. Esistiamo.
Ma Noi, non siamo diversi da voi.
Respiriamo. Abbiamo progetti.
Vorremo essere felici.
Noi siamo come voi
e vediamo voi come noi, chiunque siate.
Noi, siamo il popolo della terra.
Uomini, donne, bambini.
Adulti e anziani.
E non abbiamo muri, ma cuori.

Cheikh Tidiane Gaye, senegalese di nascita e italiano d’adozione, è l’altra voce poetica africana. Al suo attivo ha già circa una decina di volumi pubblicati ed è considerato il “cantore della negritudine”, come dal titolo di uno dei suoi libri. L’ultima delle sue raccolte poetiche s’intitola Il sangue delle parole, Kanaga Edizioni. Cheikh è membro della giuria del premio letterario intitolato a Jerry Maslow e fondatore del premio letterario di poesia e narrativa di Arcore, città dove egli risiede. La sua poetica, da una parte, è una denuncia contro razzismo e discriminazione, dall’altra è un viaggio interiore alla ricerca della verità dell’essere:
[…]
Dentro di me lo splendore
e davanti gli uomini
gli ultimi
gli indesiderati
gli esclusi
gli abbandonati
gli uomini senza futuro
che voglio cantare
sono zingaro nel mio pensiero
sono Rom nel riflettere
sono nero nel sangue
sono bianco nel guardare
sono giallo perché vivace
sono, sono e sono
esisto perché voglio donar loro
la mia sillaba feconda
voglio dare loro
la mia stella di speranza
ancorata nel mio cuore
che batte per sempre
per sempre, per sempre
per i poveri.

I versi di Cheikh battono come lingua di tamburo, è ritmo puro che scandaglia i giorni di quelli che vivono ai margini, non certo per loro scelta. La sua parola sanguina, frantuma pregiudizi e frontiere, si fa sale nelle ferite, speranza nella disperazione:
L’onda non riconosce il confine
e finisce a baciare la spiaggia
meraviglia è il sogno che ritma
le nostre notti
deludente è l’incubo
che conta i nostri passi
partirò ad abbracciare la brezza
poiché il vento naufraghi le disgrazie
i corpi all’intorno sono isole
i loro sorrisi le mie stelle
non sarò solitario
il mio cuore batte per loro.
L’auspicio di Cheikh è un mondo di tolleranza, dove il mare torni ad essere onda e smetta di essere tomba, per tutte le migliaia di anonimi che cercano un posto dove poter vivere:
voglio però piantare il tuo nome
nell’orto del Mediterraneo.

Soumaila e Cheikh, queste due voci di Mamma Africa giunte dal Mali e dal Senegal, si distinguono tra le altre tante, invisibili o inascoltate che oggi portano bellezza e poesia nel nostro paese. Non naufraghi o clandestini, non intrusi o estranei, essi diventano la nostra necessità, quel pezzo mancante di cui la nostra umanità ha bisogno per completarsi.
Soumaila Diawara
https://www.youtube.com/watch?v=puFJ3FvJlT4
Cheikh Tidiane Gaye
https://www.youtube.com/watch?v=1jZ5xXPg5ZU

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!