Russia. Qualcosa sta cambiando

Nuovi scenari si affacciano sulla scena politica dopo le recenti elezioni in diverse regioni del Paese. A partire da luglio migliaia di attivisti e cittadini sono scesi in piazza. Si tratta della più grande ondata di proteste dal 2012, ai tempi della rielezione alla presidenza di Vladimir Putin, allora al terzo mandato.
ANNALISA BOTTANI
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Uneasy lies the head that wears a crown [“Enrico IV” – William Shakespeare]

Nuovi scenari si affacciano sulla scena politica russa dopo le elezioni che si sono tenute l’8 settembre in diverse regioni del Paese, in particolare a Mosca. A partire da luglio migliaia di attivisti e cittadini sono, infatti, scesi in piazza per protestare contro l’esclusione dalle liste elettorali moscovite di almeno una dozzina di candidati indipendenti, che, secondo le autorità, non avevano raccolto firme valide. Si tratta della più grande ondata di proteste dal 2012, ai tempi della rielezione alla presidenza di Vladimir Putin, allora al terzo mandato.  

Un movimento che non si arresta, determinando un nuovo clima politico, cui il potere, in questa fase, sembra non sapersi opporre se non con tattiche repressive. Secondo Kommersant, in base ad uno studio condotto dal Center for Social and Labor Rights sulle proteste tra aprile e giugno di quest’anno, non solo il movimento si sta diffondendo in tutto il Paese, ad eccezione di alcune aree tra cui la Cecenia e la Chukotka in cui sono state rilevate poche proteste, ma le motivazioni che spingono i manifestanti a protestare sono sempre più di natura politica. In base alle previsioni di Anna Ochkina, autrice dello studio, che non tiene conto nello studio stesso delle recenti manifestazioni legate alle elezioni dell’8 settembre, entro la fine dell’anno si potrebbero registrare almeno 2.000 proteste.  

Alexei Navalny

I fatti che hanno portato a questi nuovi scenari sono noti. Alle manifestazioni per l’esclusione dei candidati indipendenti si sono affiancate nuove modalità d’azione ideate da Alexei Navalny e dalla sua Fondazione per sottrarre seggi al partito Russia Unita, i cui candidati si sono, in alcuni casi, presentati in qualità di indipendenti a causa della scarsa popolarità del partito al potere. Invece di agire a livello nazionale, Navalny ha deciso di procedere a livello locale, ideando il sistema dello “Smart Vote”, ossia un processo di identificazione di candidati “nominalmente” in opposizione a Russia Unita (“nominalmente” perché in realtà molti candidati dell’opposizione supportano de facto le iniziative del Cremlino) e di sponsorizzazione della loro candidatura presso l’opinione pubblica. Se si aggiungono poi il calo dei consensi legato alla stagnazione dei salari, alla corruzione, alla riforma delle pensioni, all’aumento delle tasse e alle problematiche legate alla gestione dei rifiuti, il tutto è risultato leggermente più agevole. Un sistema, quello dello Smart Vote, che, inizialmente, è stato accolto con scetticismo, ma che a Mosca ha portato, malgrado i numerosi brogli elettorali, ottimi risultati: 20 seggi su 45 sono andati, infatti, ai candidati sponsorizzati tramite il nuovo sistema. 13 seggi sono stati assegnati al Partito Comunista, altri 3 (più uno indipendente) al Partito Jabloko, dopo un decennio di assenza dalla legislatura, e 3 al Partito Fair Russia. In altre aree, invece, in cui, ad esempio, si eleggevano i Governatori, Russia Unita ha mantenuto il vantaggio. 

Anche dopo le elezioni le proteste pacifiche non si sono fermate a causa dell’intensificarsi delle brutali azioni repressive messe in atto dalle forze dell’ordine e l’arresto di moltissimi manifestanti e attivisti di primo piano dell’opposizione, poi rilasciati, tra cui Navalny e Lyubov Sobol, avvocato della Fondazione Anti-Corruzione – FBK (sempre di Navalny), che è stata esclusa dalla competizione elettorale e che ha intrapreso uno sciopero della fame per circa un mese. Secondo quanto riportato da Meduza, a settembre, gli Uffici regionali della Fondazione e gli appartamenti di alcuni coordinatori e volontari sono stati il bersaglio delle autorità che hanno compiuto raid mirati in oltre 40 città russe, sequestrando le attrezzature presenti negli uffici, nell’ambito di un’indagine per riciclaggio di denaro, e congelando anche i conti bancari personali dei referenti della Fondazione. In base alle stime di Leonid Volkov, Project Manager della Fondazione stessa, sono stati mobilitati circa 1.000 ufficiali di polizia per coordinare circa 150 ricerche. L’8 ottobre la polizia ha deciso di fare causa a Navalny e ai suoi alleati per una cifra pari 18 milioni di rubli, circa 278.000 dollari, per le proteste organizzate il 27 luglio e il 3 agosto a Mosca. In particolare, è stato richiesto un risarcimento per i danni correlati al necessario dispiegamento di forze e attrezzature per assicurare l’ordine pubblico durante le manifestazioni non autorizzate. Il 9 settembre, invece, la Fondazione è stata inclusa dal Ministero della Giustizia nella lista dei “foreign agent”, ossia delle “spie”, a causa di alcune presunte donazioni, dell’importo complessivo di 140.000 rubli (circa 2.160 dollari), ricevute dall’America e dalla Spagna. 

Sempre durante le manifestazioni per richiedere il rilascio dei prigionieri è stato utilizzato lo slogan #Letthemgo, comparso su poster, banner e urlato a gran voce. La protesta autorizzata del 29 settembre ha visto circa 24.000 persone (20.000, secondo la polizia) scendere in piazza per chiedere giustizia. Alcuni cittadini sono già stati liberati, come il giovane attore Pavel Ustinov, condannato a 3 e anni e mezzo di detenzione per aver ferito un agente della Guardia Nazionale. Un’accusa rivelatasi infondata (Ustinov si trovava nell’area solo per incontrare un amico) e un rilascio (con una sentenza sospesa di 1 anno) reso possibile solo dopo la mobilitazione di preti ortodossi, insegnanti, attori e persone del mondo dello spettacolo, tra cui anche la figlia del regista Nikita Mikhalkov. Altri sono ancora in carcere o condannati a diversi anni di detenzione. Basti pensare al caso di Konstantin Kotov, condannato a 4 anni di detenzione con l’accusa di “violazioni multiple” della legge sulle manifestazioni, che richiama il “Dadin Statute” (dal nome dell’attivista Ildar Dadin) contestato anche dal Commissario per i Diritti Umani Tatiana Moskalkova.  

Osservando i nuovi fenomeni sociopolitici, è naturale porsi alcuni interrogativi sull’evoluzione della società civile, sull’impatto della repressione e sulle risposte che il potere sta cercando di dare per placare il malcontento.  

Nella società qualcosa sta sicuramente cambiando, soprattutto se si osservano le reazioni dei soggetti e dei gruppi che ne fanno parte. 

L’attore Pavel Ustinov

Partiamo dagli studenti. Secondo quanto riportato dalla BBC, si è intensificata in maniera significativa la mobilitazione dei giovani universitari. Dopo la detenzione di centinaia di studenti che hanno preso parte alle proteste, si è verificato un fenomeno mai visto prima: i ragazzi si sono letteralmente riversati nei tribunali, raccogliendo soldi e assumendo avvocati per i compagni ancora in carcere. Anche grazie al loro intervento, molti sono stati rilasciati, ma alcuni, tra cui Egor Zhukov, sono ancora in carcere con l’accusa di “rivolta”. Zhukov, che rischia fino a 8 anni di carcere, ha ottenuto attestati di solidarietà anche da figure note come il rapper Oxxxymiron.

Il caso Zukhov e quello di altri studenti incarcerati hanno determinato una vera e propria presa di coscienza. Abituati a pubblicare notizie sulla vita universitaria e incerti sul da farsi, molti studenti si sono ritrovati nei caffè moscoviti per discutere le modalità di copertura delle proteste e di coordinamento degli aiuti per i ragazzi ancora in carcere, istituendo una rete di autosupporto gestita in parte dal team del giornale studentesco “Doxa”. “Più si invecchia”, sostiene uno studente, “meno si vogliono cambiare le cose. Uno pensa, il mio lavoro, i miei 100.000 rubli. Come posso protestare? Ma i giovani non hanno niente da perdere. Vivranno in questo Paese non 20 anni, ma 100. E vogliono vivere quei 100 anni in un buon Paese.” Proprio “Doxa” ha pubblicato una lettera aperta firmata da circa un migliaio di studenti universitari e dottorandi che hanno chiesto a gran voce la fine delle persecuzioni legate al cosiddetto “Moscow Case” e il pieno esonero degli imputati coinvolti nelle indagini.

Ma per manifestare il proprio dissenso bisogna anche sapere come comportarsi durante le proteste. Un atto di consapevolezza che segna, anche in questo caso, un importante cambiamento nella coscienza civile russa. Al Sakharov Center di Mosca alcuni attivisti, riporta l’Associated Press, hanno organizzato sessioni di training per difendersi durante le manifestazioni. Circa 100 persone si sono riunite per addestrarsi, inclusi i membri del gruppo Bessrochka (“Protest Without End”). Questi attivisti desiderano sapere come comportarsi durante le proteste, cosa fare in caso di arresto (“Non essere troppo debole!”), come agire nel furgone della polizia (“Non dar loro il tuo passaporto!”) e cosa fare in caso di detenzione (“Impara i tuoi diritti e scrivi tutto!”). Si tratta di un gruppo eterogeneo e pacifico – sorto dopo il rifiuto di alcuni attivisti di lasciare Puškin Square in occasione delle proteste contro la riforma delle pensioni – che annovera moltissimi membri e utilizza sia strumenti digitali sia iniziative sul campo per esprimere il dissenso. La scelta di non unirsi a movimenti guidati dall’alto, come quello di Navalny, risponde alla volontà di autogestirsi in piena autonomia. Gli strumenti digitali che utilizzano vanno dai bot per localizzare e identificare la polizia durante le proteste ai servizi di assistenza legale a supporto dei detenuti. I membri del gruppo hanno dichiarato di essere costantemente monitorati dal Governo e, in particolare, dal “Center-E”, un’unità del Ministero dell’Interno costituita nel 2008 per combattere terrorismo e gruppi estremisti. 

Anche tra le fasce, solitamente, più conservatrici della società non sono mancate le sorprese. Secondo quanto riporta Ksenia Luchenko del “Carnegie Moscow Center”, è stata pubblicata una lettera aperta firmata da numerosi preti ortodossi di diverse aree della Russia in difesa dei cittadini incarcerati dopo le recenti proteste. È la prima volta che il clero ortodosso intraprende un’azione collettiva non sanzionata dalle autorità ecclesiastiche. Nella lettera i preti, oltre a richiedere una revisione delle sentenze, affermano che

i tribunali non dovrebbero essere usati come mezzi per sopprimere il dissenso e l’uso della forza non dovrebbe essere attuato con crudeltà ingiustificata.

Nel testo si citano anche due detenuti, uno dei quali – Alexey Minyailo – è molto noto nelle comunità ortodosse. Questa lettera ha poi ispirato anche altri soggetti della società civile a scrivere altri attestati di solidarietà, tra cui dottori e insegnanti, solo per citarne alcuni.

Anche alcuni dei cittadini che di solito non votano o non esprimono apertamente le proprie opinioni hanno deciso di cambiare prospettiva, secondo quanto riportato da Radio Free Europe Radio Liberty. Alcuni hanno deciso di adottare il sistema dello Smart Vote, pur non simpatizzando per Navalny. Anzi, in molti consideravano e considerano Navalny stesso un “progetto politico” finanziato da Putin. Anche una quarantenne critico d’arte ha votato per un candidato alternativo, in questo caso comunista, malgrado il suo odio per questo Partito. Ma cosa poteva fare, si è detta. “Cosa otterrò se rimango a casa?” Una motivazione rafforzata dalla rabbia nei confronti dello Stato per le crescenti restrizioni imposte in termini di libertà d’espressione e diritti. 

Se si analizza, invece, l’impatto che questo nuovo clima sta determinando a livello politico e giuridico, emergono alcuni elementi interessanti. Secondo Olga Romanova del “Carnegie Moscow Center”, a partire da settembre non si parla più di un “secondo caso Bolotnaya” (dal nome della piazza in cui si svolsero le note proteste cui si accennava in precedenza) in quanto si tratta, a suo avviso, di una “falsa analogia”. Si è entrati in una nuova fase in cui i casi legati alle proteste non sono più classificati come “violazioni amministrative”, ma come crimini più gravi. Il “Moscow Case” ha messo in luce alcuni nuovi fenomeni che impattano in maniera rilevante su processi e detenuti. In primis, le autorità hanno smesso di indagare sulle accuse legate all’uso eccessivo della forza. E non si tratta di un nuovo trend, ma di una nuova policy. Non dobbiamo dimenticare poi il rifiuto di ammettere – o semplicemente visionare – le prove portate dalla difesa (come nei casi Kotov e Ustinov), tra cui anche i video delle telecamere di sorveglianza della città. Un tempo, per casi come questi erano previsti, prevalentemente, le sanzioni e/o periodi limitati di detenzione (anche 24 ore, a seconda dei casi). Ora si parla di anni di carcere. Le sentenze, inoltre, sembrano essere “sospette”: persone diverse, non collegate fra loro, accusate di crimini differenti, dichiaratesi innocenti o colpevoli, rischiano sempre dai 2 ai 4 anni di carcere, un elemento alquanto improbabile in un procedimento legale equo. Ed ecco la differenza con le proteste di Bolotnaya Square. 

Nella vecchia fase non si toccavano i leader delle proteste, ma venivano arrestati i manifestanti per screditare i leader stessi di cui ci si occupava singolarmente. Prima i processi duravano di più e si ascoltavano le testimonianze, vagliando le prove ammesse da entrambe le parti. 

Adesso, invece, i leader sono protetti da lunghe detenzioni, ma in realtà vengono arrestati con maggior frequenza per periodi brevi, mentre rischiano l’arresto passanti o persone che nulla hanno a che fare con le proteste. 

Secondo quanto riportato da Masha Gessen per il New Yorker, oggi la Russia ha il numero di prigionieri politici più alto dai tempi del crollo dell’URSS e molti di più rispetto a una parte di quelli che Gorbačëv liberò nel 1987. 

Ma non ci si ferma qui. Recentemente il Ministro dell’Interno ha proposto di introdurre la responsabilità penale per chi “insulta online gli ufficiali di polizia”, includendo naturalmente anche i social media. 

A marzo di quest’anno è stato introdotto per la prima volta dopo il collasso dell’Unione Sovietica il reato di “lesa maestà”, punibile con una sanzione amministrativa pari, in media, a 462 dollari, per chi insulta non solo il Presidente, ma anche il Gabinetto, il Parlamento, i tribunali, anche se, talvolta, è stato esteso anche a sindaci, governatori e manager di compagnie di stato. Tuttavia, gli insulti spesso non provengono da studenti e intellettuali delle grandi città, ma da cittadini delle regioni più povere, ossia quelle che sostengono a livello elettorale, brogli esclusi, proprio il Presidente. Tutto questo non fa che alimentare la rabbia dei cittadini. 

Fiori per Boris Nemtsov, vittima della repressione

Per Mark Galeotti la tattica del Governo è quella di creare un clima di paura e incertezza per cui, al di là di target specifici come la Fondazione di Navalny, chiunque può essere arrestato o accusato per aver commesso un atto considerato sanzionabile. E risulta ancora più semplice in quanto non sono definiti chiaramente i confini del lecito e dell’illecito. Le autorità, dunque, non vietano esplicitamente la possibilità di manifestare (escludendo le manifestazioni non autorizzate). Il cittadino partecipa alle proteste, ma a proprio rischio e pericolo. L’obiettivo finale è quello di usare questo fattore di rischio come deterrente, spingendo le persone ad autocensurarsi. Ad oggi lo Stato sembra possedere i mezzi per controllare quanto sta avvenendo. Ma, mentre la popolazione diviene sempre più irrequieta e Putin non offre certezze in vista del 2024, un’élite legata agli apparati di sicurezza che ha superato gli anni Ottanta si sente a disagio se pensa a quanto velocemente l’apatia e il risentimento possano trasformarsi in dissenso attivo. Per alcuni la risposta è data da stimoli fiscali e panem et circenses o un nuovo teatro politico. Per altri vale la lezione degli anni di Gorbačëv: lo Stato non deve solo essere forte e spietato, ma anche mostrarsi tale. 

E ora il quesito più importante: come stanno reagendo le Autorità? 

Secondo Tatiana Stanovaya del “Carnegie Moscow Center”, “il Cremlino ha sottovalutato i rischi derivanti dall’opposizione e dalle proteste”. E si sottovaluta la natura della crisi semplicemente perché è in contrasto con la visione di Putin, convinto di avere il supporto popolare e che l’unica opposizione “responsabile” sia in Parlamento. Quella “reale”, nelle strade, con Navalny e altri attivisti, per lui non esiste. Se il Cremlino non vede la crisi, non vi è neanche il bisogno di ideare una strategia. I soggetti istituzionali e governativi coinvolti – FSB, Guardia Nazionale, Ministero degli Affari Esteri etc. – cercano di dimostrare la propria utilità e temono di cedere l’iniziativa a qualcun altro. Dunque, mentre tutti sono distratti dai propri sforzi, non rimane nessuno al governo che possa gestire le proteste, capirne l’andamento o individuare possibili forme di compromesso. Tutto questo, sempre secondo Stanovaya, erode il regime dall’interno, rendendolo incapace di identificare i problemi e di definire l’agenda politica. 

Dopo 20 anni con Putin al potere è emerso il desiderio di cambiamento, considerato l’alto livello di frustrazione che anima la società. “Lo sforzo del Cremlino di portare avanti nuove idee è morto. La società non sa cosa sia giusto o sbagliato. La vita politica è malsana.” Non essendo pronti a costruire un dialogo con i liberali o con i progressisti, le autorità hanno solo uno strumento: i servizi di sicurezza. 

Stanovaya, analizzando le tattiche messe in atto dal Cremlino in questi mesi, osserva che, dopo mesi di processi ed errori nella gestione delle proteste, le autorità hanno cominciato a fissare alcuni punti fermi. 

L’iniziale utilizzo indiscriminato della repressione e degli arresti di massa è stato accompagnato dalla tendenza a diffondere teorie complottiste secondo le quali le proteste sarebbero state provocate da interferenze esterne: una forma, secondo l’analista, di populismo pro-Putin, utilizzato da alcuni per promuovere un’agenda politica simile a quella del Presidente. 

Un altro aspetto da considerare è la repressione delle forze di opposizione, un tema alquanto divisivo nell’ambito della cerchia presidenziale ristretta. I siloviki puntano a colpire cittadini a caso che, a loro avviso, devono farsi carico della responsabilità dei movimenti di protesta.  Anche sulle punizioni nei confronti dei leader sembrano esservi opinioni discordanti. Secondo alcuni rumours, Putin non intende trattenere in prigione per lunghi periodi leader come Navalny proprio per non trasformarli in eroi.  

La polizia, l’FSB e altri apparati di sicurezza hanno tutto l’interesse a portare a Putin le prove di attività contro lo Stato condotte dai manifestanti. Ma è stato proprio questo aspetto a frenare l’ondata di repressioni: la minaccia non è reale e, dunque, non vi sono elementi certi per provarne l’esistenza. Il Cremlino non è impegnato a combattere l’opposizione, ma eventuali interferenze straniere nella politica interna del Paese. Molti non hanno rilevato i segni di una “rivolta”, ma il potere non sembra vedere i fatti, ma le intenzioni ipotetiche, tra cui l’idea che si possa replicare una “Maidan russa”. 

A differenza del “caso Bolotnaya”, le proteste in questo caso sono state pacifiche. Per continuare a perseguire i cittadini le autorità avrebbero dovuto falsificare apertamente le prove utilizzando l’accusa di “rivolta”. Sicuramente, osserva Stanovaya, il regime di Putin è autoritario, ma non è preparato a gestire repressioni politiche di massa ad ogni livello istituzionale. Non controlla completamente lo spazio dell’informazione, non vi è la cortina di ferro e non vi è neanche la necessità di procedere con gli arresti di massa. 

Insomma, i cosiddetti “rioting case” sarebbero naufragati per mancanza di prove. Anche se questo non ha fermato del tutto i siloviki. 

In realtà le élites legate a Putin sono sempre più divise: da una parte i falchi senior dei servizi di sicurezza e, dall’altra, la cerchia ristretta del Presidente. 

La cerchia dei “civili” vicini a Putin potrebbe aver preferito tacere quando è stata estromessa dal processo decisionale legato alle proteste, mentre un ex ufficiale del KGB – Sergei Chemezov – che attualmente dirige la compagnia Rostec si è espresso apertamente dicendo che non consentire all’opposizione di prendere parte alle elezioni moscovite era “pericoloso per lo Stato”. Una sfida ai falchi, un chiaro richiamo ad una interpretazione alternativa delle proteste, da classificare come “problema interno”, e un avvertimento alle autorità. 

Per Stanovaya le dichiarazioni di Chemezov sono solo la punta dell’iceberg. La maggior parte dei membri dell’élite – gli uomini d’affari che guardano ai mercati stranieri, i liberali inseriti nel Sistema e le autorità finanziarie – non è certo contenta di questa “rivolta” delle forze di sicurezza. È solo una questione di tempo prima che Putin sia costretto a vedere il malcontento verso le autorità e la crisi dell’attuale modello di governance politica.

I siloviki hanno smesso di “fabbricare” indagini non per il bene della società, ma perché questo impatta sul Presidente. Il livello di repressione è diminuito, insieme al disappunto della cerchia dei “civili” che fa parte delle élites vicine a Putin, allarmati dal tentativo dei siloviki stessi di alterare lo status quo.  

Dunque, il regime dovrà scegliere quale élite seguire: i “mercanti” o i “guerrieri”. Secondo Stanovaya, è possibile che non sarà Putin a decidere, ma qualcuno capace di dimostrare di saper raggiungere veri risultati: una cosa che i siloviki non sono stati ancora in grado di fare. 

Al di là della contingenza, un test importante attende la Russia nel mese di settembre del 2021: le elezioni parlamentari. Ciò che succederà in futuro sarà determinato dalla mobilitazione dei cittadini, dall’efficacia dell’operato dei leader della nuova opposizione e dagli errori che il Governo commetterà. 

Russia. Qualcosa sta cambiando ultima modifica: 2019-10-10T10:35:45+02:00 da ANNALISA BOTTANI
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