Con l’intervista che qui pubblichiamo continua la serie di conversazioni con giornalisti che seguono la politica italiana, molti dei quali con una lunga esperienza. L’idea è di ragionare sulla relazione tra politica e stampa e su come quest’interazione abbia caratteristiche peculiari in Italia, influendo sull’una e sull’altra (g.m.)
Con l’avvento della rivoluzione digitale, stampa e televisione sono state scavalcate ben due volte, dai nuovi mezzi di comunicazione, che hanno spostato più in là la frontiera dell’informazione in tempo reale, e dalla politica, che approfitta dei nuovi strumenti per parlare direttamente alle persone. Come si ridefinisce il ruolo del cronista politico in questo contesto dove comunicazione istantanea e disintermediazione politica si fondono, riscrivendo le regole del gioco? Ytali ne ha discusso con Marco Di Fonzo, giornalista parlamentare da sedici anni in Sky e presidente dell’Associazione stampa parlamentare.
Marco Di Fonzo, cosa vuol dire oggi fare cronaca parlamentare in Italia?
La cronaca parlamentare è al centro di una doppia trasformazione, che interessa sia il giornalismo sia la politica. Il giornalismo sta cambiando, vive al contempo una metamorfosi prodotta dalla rivoluzione digitale e un’involuzione dovuta alla crisi economica del settore. Un discorso analogo vale per l’oggetto di cui ci occupiamo noi cronisti parlamentari, la politica, che ha subito profondi mutamenti, molti dei quali sono stati causati dalla digitalizzazione della vita pubblica.
A ciò si aggiunge un cambiamento di dettaglio, specifico ai giornalisti politici italiani: tradizionalmente la Camera dei deputati e il Senato erano il cuore dell’attività politica e, di conseguenza, dell’informazione. Negli ultimi anni questa centralità è andata un po’ persa: ci sono meno politici in parlamento e, quando sono presenti, lo sono con una frequenza minore rispetto al passato. Di riflesso, per i giornalisti è diventato meno centrale lavorare in parlamento. Il palazzo resta sicuramente il punto di partenza per capire che aria tira, quali sono gli umori, ma non è più il luogo esclusivo per avere le notizie e, quindi, per raccontare la politica.
Nel settore televisivo, da quando sedici anni fa è nata Sky ci sono quattro grandi emittenti: Sky, Rai, Mediaset e La7. Nel corso degli anni la competizione sul fronte dell’informazione politica è aumentata?
È innanzitutto aumentato lo spazio dedicato alla politica. Con l’avvento di Sky hanno preso piede i canali all-news, che trasmettono interamente programmi di informazione. Sedici anni fa Rai News esisteva già, ma era tenuta in un angolino rispetto all’offerta informativa della Rai. In questi anni, invece, ha subito una forte evoluzione e acquisito un ruolo più importante. Nel frattempo è nata anche la all-news di Mediaset, TGcom24, che ha vissuto fasi alterne, ma che si è comunque affermata. Infine, poi, c’è La7: non ha all-news, ma la rete stessa funzione da grande contenitore, con numerosi programmi dedicati all’informazione politica nel palinsesto giornaliero.
L’ampliamento dello spazio dedicato alla politica si traduce in una maggiore competizione, con i benefici che la concorrenza porta in tutti i mercati: si cerca di fare meglio degli altri, ad esempio invitando ospiti importanti. Tuttavia, ci sono anche degli aspetti negativi: la competizione può innescare una corsa a bruciare gli altri sul tempo, con il rischio a volte di fare un lavoro non fino in fondo secondo le regole del giornalismo.
In ogni caso, negli ultimissimi tempi, la corsa allo scoop è un aspetto del nostro mestiere che si è attenuato: ci si è resi conto che con la rivoluzione digitale i canali all-news non sono più la frontiera dell’aggiornamento istantaneo. L’informazione in tempo reale oggi avviene sugli smartphone ed è fatta spesso dai siti dei grandi quotidiani o dalle stesse all-news attraverso i social network.
Come si sta adattando Sky a questo contesto?
Rispetto a dieci anni fa, con tutto l’apparato digitale che si è sviluppato, fare la guerra solo sulla velocità non basta più. Quindi, se da un lato tentiamo di continuare a fornire un aggiornamento in tempo reale, dall’altro proviamo a fare un po’ più di approfondimento, sempre in tempi molto rapidi. Ad esempio, se una notizia arriva la mattina, nel corso della giornata cerchiamo di contestualizzarla con lo sviluppo di analisi e approfondimenti e di offrire così un ulteriore servizio ai nostri utenti.
Marco Di Fonzo
Per il pubblico più giovane la televisione non è più il principale mezzo di informazione. A Sky avete una strategia per contrastare questa tendenza?
C’è un doppio lavoro da fare: va rimodulata l’offerta sul canale televisivo e potenziata quella digitale. In questo senso, da una parte lavoriamo a un’evoluzione di Sky TG24, dall’altra stiamo intervenendo sul sito, per renderlo più integrato con il canale, più aggiornato, più completo. Stiamo anche rafforzando la nostra offerta sui social: su Twitter siamo la prima testata per numero di follower in Italia e su Instagram lavoriamo molto sulle storie per andare incontro alla fascia più giovane degli utenti.
Parlando di social network: la rivoluzione digitale ha permesso ai politici di esprimersi senza intermediazioni. Di fronte a questo nuovo scenario, come cambia il ruolo del giornalista?
L’avvento dei social ci scavalca totalmente: i politici che hanno i mezzi e le capacità per usarli applicano ormai la famigerata “disintermediazione”. Noi da una parte siamo obbligati a riprendere almeno una parte dell’attività social dei politici, dall’altra cerchiamo di inquadrarla in un lavoro giornalistico che non può essere di mero rilancio dei post, dei video o delle dirette Facebook.
È impensabile ignorare quello che i politici fanno sui social solo per il semplice fatto che ci scavalcano. Penso alla formazione del primo governo Conte: c’erano giorni in cui Salvini e Di Maio parlavano esclusivamente con delle dirette Facebook e per noi giornalisti era l’unico modo di sapere dai leader quello che stava succedendo. Insieme ad altre tv, abbiamo anche mandato in diretta almeno una parte di quei video. Però poi ci siamo accorti che rischiavamo di aprire una falla nella mediazione giornalistica: se i decisori politici capiscono che possono scavalcarti e venire comunque rilanciati in tv e sui siti online non li fermi più. Per questo noi non vogliamo solo fare da cassa di risonanza all’attività social dei politici, ma anche cercare di obbligarli a presentarsi in conferenza stampa, ad avere un rapporto diretto con i giornalisti.
È ancora possibile?
Certo. Anche se sui social si fanno molti contatti, questi non sono paragonabili al numero degli ascolti che fanno Sky e, ancora di più, i telegiornali di Rai, Mediaset e la7. Si tratta di milioni e milioni di persone, mentre su Facebook la diretta più seguita ha solo qualche decina di migliaia di utenti. È chiaro che noi abbiamo ancora degli strumenti forti.
La tv può anche riprendere alcune dirette Facebook, ma è importante che i politici sappiano – anche grazie a un’intesa tra tutte le tv – che non verranno sempre rilanciati: in questo modo sono obbligati a confrontarsi con i giornalisti.
Noi giornalisti non dobbiamo essere né “apocalittici” – ovvero dire che il nostro lavoro è finito perché la politica con i social ci scavalca e non ha più bisogno di noi – né “integrati” – cioè allinearsi con quello che i politici fanno e riprendere tutta la loro attività sui social, considerando questo il nuovo modo di fare giornalismo. Serve una via di mezzo, tenendo presente che a volte è inevitabile rilanciarli, mentre altre volte, soprattutto se siamo compatti come categoria, siamo in grado di condizionarli nelle loro scelte di comunicazione politica.
Di Fonzo alla cerimonia del ventaglio 2018 insieme alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati
Durante il primo governo Conte, l’impressione è stata che i due vicepremier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, abbiano goduto di una sovraesposizione mediatica che è andata a discapito della visibilità del parlamento. Condividi questo punto di vista?
Sì, è così, perché la comunicazione si fonda su personalità forti, capaci di essere protagoniste. Il parlamento, invece, è per definizione un organo collegiale che, proprio per questo, è meno efficiente nella comunicazione, nonostante gli eccellenti sforzi che gli uffici stampa di Camera e Senato stanno facendo per farne conoscere l’attività.
C’è poi un altro aspetto: su tante questioni, dai migranti alla politica economica, le dichiarazioni sono quotidiane, mentre le decisioni del parlamento sono puntuali (per fare riferimento al governo Conte I: il primo decreto sicurezza, il secondo arrivato otto mesi dopo, la legge di bilancio…). Tutto il resto di ciò che avviene in parlamento è lavoro in fieri, che pertanto non ha l’efficacia della dichiarazione secca. Questo ha peraltro un’altra conseguenza: le persone e un po’ anche i giornalisti diventano assuefatti alle dichiarazioni a effetto, che sostituiscono così l’analisi di quello che viene fatto concretamente in parlamento e di quello che fa il governo con gli atti legislativi, elementi che sono la realtà del cambiamento, presunto o vero. Tuttavia, per gli utenti e anche per i giornalisti è più semplice andare dietro alle dichiarazioni piuttosto che studiarsi gli atti e gli iter dei procedimenti legislativi.
Un altro effetto collaterale è nell’avallare la retorica dei Cinque stelle, secondo la quale il parlamentare semplice è tale solo perché occupa una poltrona, che pertanto dovrebbe essere tagliata?
C’è tutto un filone giornalistico che in questi tempi ha fatto mea culpa, ma che ha contribuito ad avallare questo pregiudizio negativo verso il parlamento, considerato solo una voce di spesa, sprechi e magari corruzione. Perché la gente dovrebbe essere interessata a conoscere l’attività di un tale parlamento? Alcuni giornalisti hanno contribuito a creare questa immagine e poi si sono adeguati al fatto che il parlamento non interessava: si è creato un circolo vizioso.
Solo adesso ci si rende conto che forse ci si è spinti troppo in là. Ma è tardi: lo dimostra anche il voto sul taglio dei parlamentari. Tutti i gruppi politici, eccetto +Europa, hanno votato a favore, anche se molti non sono convinti. Temono che il giudizio popolare sia talmente a favore di quel taglio che non hanno il coraggio di andare contro.
Restiamo sui Cinque stelle. Notoriamente, alle origini erano idiosincratici verso l’informazione. Oggi le cose sono cambiate?
Sì. All’inizio c’era un doppio atteggiamento di chiusura verso i giornalisti. Ideologico, innanzitutto: nei primissimi anni del Movimento Beppe Grillo se la prese molto con la nostra categoria. Oggi questo atteggiamento si è sgonfiato, anche se solo fino a un certo punto, dato che i Cinque stelle hanno comunque portato avanti alcuni tagli all’editoria, con provvedimenti che sono stati pure presi – penso a quello contro Radio radicale.
All’aspetto ideologico si affiancava poi una chiusura da parte dei parlamentari, neoeletti, spesso giovani, senza alcuna esperienza politica pregressa. Per loro i giornalisti erano semplicemente persone da evitare: temevano imboscate e agguati. Questo approccio, quotidiano, personale, con giornalisti è cambiato. Adesso è più facile parlare con i parlamentari del Movimento, anche quando ufficialmente mantengono delle posizioni di durezza.
Il cambiamento è poi clamoroso nel rapporto con la televisione: siamo passati dalla stigmatizzazione dei parlamentari Cinque Stelle che all’inizio osavano rilasciare un’intervista in tv, a una situazione in cui sono diventati professionisti dei talk show.
Ciò non toglie che esista una verticalizzazione della comunicazione per cui a volte riesci a parlare con loro solo informalmente. Dal punto di vista del partito è un modello di comunicazione molto efficace, che anche altre forze politiche stanno cercando di imitare.
Si dice che per le interviste i deputati pentastellati si facciano inviare la lista delle domande e rispondano per iscritto. È vero?
Qualche collega che lavora per la carta stampata mi ha raccontato casi del genere…
Non è solo il Movimento Cinque Stelle ad avere un rapporto complicato con il mondo dell’informazione. Per quanto riguarda la televisione, oggi i politici continuano a “occupare” la Rai come se fosse l’unica emittente in attività. Come si rapporta il tuo lavoro con una politica “viziata” da questa inclinazione a controllare il flusso, la quantità e la suddivisione degli spazi?
In quanto tv pubblica, che ha un controllo legato al governo e che risponde anche al parlamento, la Rai ha quasi inevitabilmente questo legame forte con la politica, che ha sicuramente anche delle storture. Dopodiché la Rai è un mondo variegato, dove ci sono molti colleghi seri e rigorosi che lavorano senza farsi condizionare.
A Sky avviene meno che la politica tenti di condizionare il flusso delle informazioni. Nella mia esperienza diretta non ho mai ricevuto indicazioni, né dall’interno né dall’esterno, su cosa fare e che spazi dare nel tg.
La nostra stella polare è il pluralismo, il dare voce a tutti. Può accadere che in fasi politiche in cui c’è un netto protagonista, questo prenda più spazio in termini di minuti, ma se avviene, è perché si sta inseguendo la notizia e non perché c’è un disegno preordinato per favorire un partito piuttosto che un altro.
È più difficile garantire il pluralismo in una fase come quella attuale, di radicalizzazione politica?
No. In quest’ultima fase di cambiamento improvviso di equilibri di maggioranza ci sono momenti in cui non capisci bene chi è all’opposizione e chi al governo, ma esiste comunque una professionalità che ti consente di ricreare un equilibrio nel corso della giornata e della settimana, nel tentativo di dare voce a tutti e di rimettere a posto i tasselli.

Giornalismo e politica attraversano cambiamenti profondi. È un discorso che vale anche per i gusti degli spettatori?
Quando ho cominciato a lavorare con Sky, sedici anni fa, i canali all-news erano una novità. Avevano meno spettatori ma erano anche molto apprezzati, perché in quella fase l’informazione dei gradi network televisivi era schiacciata in un senso molto meno pluralista rispetto a oggi. Il modo di fare informazione delle all-news ha imposto anche ai tg tradizionali di adeguarsi a fare dirette, molto più spesso di quanto non lo facessero prima.
Negli ultimi anni c’è poi stata una crisi dei talk show, che mi sembra però superata. Lo dimostra anche il fatto che c’è tantissima politica in tv e nei giornali e che quindi è un tema che agli italiani interessa sempre. Io sono convinto che si potrebbe raccontare in modo diverso, affiancando al lavoro che si fa adesso qualcosa capace di spiegare meglio i grandi provvedimenti, i grandi temi. Il pubblico è molto curioso e al tempo stesso confuso.
Gli spettatori cercano l’approfondimento?
Approfondimento non è solo un programma lungo (e lento) su un singolo argomento. Io penso anche a un approfondimento che può stare all’interno di una diretta di due minuti. In altre parole, non racconti solo quanto detto dal politico di turno, ma inquadri le dichiarazioni della giornata, le spieghi in tempo reale a chi ti sta ascoltando.
C’è una grande ricerca di senso su tutti i grandi temi, dalle questioni internazionali all’ambiente, dalle migrazioni all’economia. Se riesci a essere credibile, la gente ti segue, perché si rende conto che il mondo va molto veloce e a volte non riesce da sola a mettere insieme gli input, a capire il quadro complessivo.
Il giornalismo è in crisi, molta gente non si fida dei giornalisti e non vuole spendere per informarsi, ma è proprio in un mondo così veloce e confuso che c’è una grande domanda di informazione affidabile e approfondita. Se riusciamo a fare questo sforzo, allora c’è futuro anche per il giornalismo.
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