Il Tribunale supremo di Madrid ha consegnato la sentenza del processo contro gli indipendentisti catalani. Pene dure, fino a tredici anni, per i fatti del settembre e ottobre 2017, dalla preparazione del cosiddetto referendum di autodeterminazione del primo ottobre, passando per la giornata tra il 20 e il 21 settembre – quando nel corso di una perquisizione di una struttura del governo catalano alla ricerca di materiale collegato col referendum, migliaia di persone si radunarono, impedendo di fatto l’uscita dei funzionari dall’edificio – alla supposta dichiarazione unilaterale d’indipendenza (Dui) del 27 ottobre.
Pesanti, dicevamo, le condanne, da nove a tredici anni, per gli accusati che hanno passato in prigione preventiva gli ultimi due anni; miti quelle per chi era in libertà provvisoria. Le accuse erano di ribellione, sedizione, malversazione (l’uso di risorse pubbliche per le condotte illegali) e disobbedienza (il mancato adempimento a ordini giudiziari o amministrativi).
Il dispositivo accoglie la tesi dell’Avvocatura di stato, vi fu sedizione, ma respinge il teorema della Procura, quello della ribellione, punibile con venticinque anni.
La Ribellione prevede l’uso della violenza pianificata allo scopo di sovvertire l’ordine costituzionale o modificare la struttura dello stato – venne precedentemente contestata a Antonio Tejero e Jaime Milans del Bosch, condannati a trent’anni, per il tentato colpo di stato del 1981; la sedizione implica il verificarsi di violenze e tumulti allo scopo di impedire l’applicazione di norme o l’esercizio delle funzioni delle pubbliche autorità, cioè di ostacolare lo stato diritto.
Oriol Junqueras, ex vice presidente del governo e leader di Esquerra republicana de Catalunya, prende ben tredici anni di carcere per i reati di sedizione e di malversazione. Dodici anni per gli ex membri del governo catalano Jordi Turull, Raül Romeva e Dolors Bassa, per gli stessi reati. L’ex presidente del Parlament, prende undici anni e mezzo ma per la sola sedizione, assieme Joaquim Forn e Josep Rull, pure ex ministri del govern, condannati però a 10 anni e mezzo di carcere. Nove anni infine vanno a Jordi Sànchez e Jordi Cuixart, ex presidenti delle associazioni civiche indipendentiste Asemblea nacional catalana e Òmnium cultural. Miti le condanne per gli ex consiglieri che hanno affrontato il giudizio in libertà provvisoria, Santi Vila, Carles Mundó e Meritxell Borràs, riconosciuti colpevoli solo per il rivendicato reato di disobbedienza e condannati a un anno e otto mesi di inabilitazione e a una sanzione di dieci mesi, ovverosia la possibilità di non andare in carcere pagando duecento euro per ogni giorno di condanna.

Il processo è iniziato il 12 febbraio e ha chiuso l’aula il 12 giugno. In cinque mesi si sono tenute 52 udienze nelle quali sono stati interrogati gli accusati, escussi 422 testimoni, presentate valanghe di prove e visionati numerosissimi filmati. Il tutto, nello spazio pubblico delle dirette streaming.
Nelle sue 429 pagine la sentenza accoglie l’impianto per il quale in quei giorni in Catalogna ci siano stati atti di violenza finalizzate a contrastare lo stato di diritto ma nega l’ipotesi che in quei giorni si verificò un tentativo insurrezionale.

L’avallo dato alla lettura sediziosa dei fatti del 2017, però, per quanto costituisca un reato penale minore rispetto alla ribellione, costituisce anche un pericoloso vulnus dell’esercizio del diritto alla libera espressione in democrazia. Convertire atti concreti come il richiamo a protestare contro una perquisizione in corso o l’organizzazione di una consultazione già giudicata illegale e vietata, che costituirebbero normalmente reati di disobbedienza all’autorità o di resistenza, in azioni sediziose volte a impedire l’applicazione dello stato di diritto, sancisce una forzatura pericolosa. La Spagna da un decennio, nel prorogare le legislazioni antiterrorismo e nel riformare le leggi sulla pubblica sicurezza e sui diritti civili e politici, ha prodotto una limitazione, anche attraverso la criminalizzazione di comportamenti altrove accettati, del diritto di partecipazione democratica, segnando la legislazione in senso autoritario e allontanandola dagli standard dei principali paesi europei, come i richiami di enti comunitari e delle Nazioni unite hanno testimoniato. Si pensi alla sprezzante rapidità con cui la giustizia tedesca ha respinto la richiesta di estradizione di Carles Puigdemont, giudicando inconsistente la formulazione dell’accusa di ribellione
Da questo punto di vista la sentenza non giunge inattesa. Anche al profano era sembrata evidente l’inconsistenza dell’accusa di ribellione e non era certo il Tribunale supremo la sede da cui aspettarsi una radicale messa in discussione dell’impianto, così come giunto e accolto alla propria attenzione. Toccherà al Tribunale costituzionale, al quale adiranno certamente i condannati, affrontare il nodo, vedere se l’interpretazione del Supremo rispetta i diritti individuali e collettivi sanciti dalla Costituzione, e dalle norme e trattati internazionali. Compito che spetterà anche al Tribunale europeo dei Diritti umani, che potrebbe essere chiamato in causa.

Si potrebbe pensare che il dispositivo costituisca una sorta di “mediazione”. Anche se certo non alla giustizia appartiene questo ruolo, la sentenza ha però un valore politico nel senso che determina delle condizioni minime affinché la politica impugni nuovamente quel timone che ha volontariamente, e colpevolmente, consegnato nelle mani della giustizia. Non sfugge che l’Avvocatura di stato, la cui tesi è stata riconosciuta, sia in un certo senso la parte processuale più politica, più vicina alle sensibilità dell’esecutivo – e già la divaricazione nella configurazione dei reati da contestate tra Procura e Avvocatura venne letta come espressione di una linea che lasciasse un margine politico per il dopo.
Adesso, in attesa dei prossimi sviluppi legali, a partire dall’immediata riattivazione dei mandati di cattura internazionali, la parola sta alla politica. La sentenza arriva a circa un mese dall’inizio ufficiale di una campagna elettorale, in realtà iniziata col fallimento del tentativo di formare un governo, giungendo a agitare un quadro già molto teso.
Le proteste sono iniziate subito, con blocchi stradali e manifestazioni, concentrandosi all’aeroporto di Barcellona. Sull’esempio di Hong Kong, i manifestanti hanno tentato di occupare lo scalo incontrando dure cariche di polizia che rinnovano i fasti del primo ottobre 2017.
Delusione, rabbia, disincanto e frustrazione, sono comuni a tutti gli elettori che si vedono chiamati nuovamente alle urne per la quarta volta in quattro anni, in particolare di quelli di centrosinistra che non capiscono perché i partiti non siano riusciti a portare in fondo il mandato che gli era stato consegnato. Sentimenti dominanti in Catalogna, dove si incrociano il sostanziale fallimento dell’escalation indipendentista e la percezione che non ci siano le condizioni e la volontà politica di trovare una soluzione, nella regione e nel paese.
Il capolinea a cui è giunto la strategia indipendentista non ha ancora trovato momenti di elaborazione e la sentenza sta già dando ali al vittimismo, allontanando una revisione critica indispensabile, i cui tempi sarebbero ormai maturi. Guardare all’irresponsabilità di una classe dirigente che ha evocato la chimera di un’indipendenza catalana, nella quale neanche credeva, è un passaggio indispensabile. Ma non sufficiente, perché un simile percorso va fatto sul “fronte opposto”. Neanche a livello nazionale, però, sembra farsi fa strada una revisione critica circa la corresponsabilità avuta da Madrid nello sprofondare il paese nella crisi catalana. Dietro allo schermo del costituzionalismo vengono celate le parti attive avute nel trasformare la crisi catalana in uno scontro tra nazionalismi contrapposti.
A destra la sentenza viene letta come una conferma dell’eterna visione delle due spagne contrapposte. “I catalani per bene sanno che lo stato di diritto è con loro”, afferma il segretario del Pp, Pablo Casado. Di sentenza “Contro il popolo catalano”, parlano settori nazionalisti, una sentenza “ingiusta e inumana” che “condanna oltre due milioni di persone che resero possibile il referendum”, nelle parole di Carles Puigdemont da Bruxelles. Pedro Sánchez ha fatto invece appello alla concordia:
Abbiamo bisogno di aprire un nuovo capitolo basato sulla coesistenza pacifica in Catalogna attraverso il dialogo nei limiti della legge e della Costituzione spagnola.

Il prossimo governo potrà provare a riprendere in carico la questione. Ma occorrerà tempo. Un governo, se verrà, sarà a dicembre. Dovrebbe essere a guida Psoe, per quanto il ritorno alle urne sembri beneficiare le destre, che comunque sembrano lontane da una possibile vittoria. Mentre Ciudadanos è in grave crisi, Pp e Vox ne beneficiano, la concorrenza a sinistra del Psoe è accesissima e il Psoe potrebbe non raccogliere quanto sperava. Motivi di nervosismo ai quali la sentenza giunge a dare munizioni per lo scontro politico.
Per tornare alla politica ci vorrà coraggio ed uno sguardo molto ampio. Per quanto le prime dichiarazioni vadano in senso contrario, potrà servire un indulto, come parte di un più ampio processo politico di dialogo.
Perché la crisi catalana è molto di più che una questione “bilaterale” e andrebbe considerata come un sintomo di una più ampia crisi della democrazia spagnola, che va dalla fiducia nella politica e nelle istituzioni all’esaurimento di quella costruzione, la Spagna delle autonomie, con la quale la democrazia rispose al carattere plurinazionale dello stato spagnolo.

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