Con Pio d’Emilia parliamo di “YI DAI YI LU – La ferroVIA della seta”. Il documentario, prodotto da Sky Atlantic, racconta il lungo viaggio on the road dell’inviato di SkyTg24 attraverso la Cina, l’Asia Centrale e l’Europa dell’est, seguendo i cosiddetti “treni della seta”, che ogni giorno trasportano migliaia di tonnellate di merci da e verso l’Europa. Il film sarà proiettato all’Ateneo Veneto, sabato 26. Seguirà un dibattito, presente l’autore.
Pio è una firma conosciuta, anche ai lettori della nostra rivista, per la quale ha scritto diverse corrispondenze e analisi. Da oltre trent’anni vive e lavora in Giappone, da dove ha collaborato per varie testate italiane e straniere. Dal 2000 è corrispondente di Sky Tg24 per l’Estremo Oriente, assurgendo a star del pubblico televisivo per via dei suoi reportage accurati, per lo stile non convenzionale, per il coraggio mostrato in diverse circostanze (è stato tra i primi giornalisti a raggiungere Fukushima e sull’emergenza nucleare ha pubblicato Tsunami Nucleare, il manifesto libri).
Pio, vorrei iniziare questa nostra conversazione partendo dal “personale”. Sei tra i pochi giornalisti italiani, di oggi e di ieri, a conoscere davvero l’Estremo Oriente. La tua residenza è a Tokyo, da moltissimi anni, parli correntemente giapponese. Hai girato parecchio in quella parte dell’Asia, Cina, Cambogia, Vietnam, Birmania, Corea del sud e del nord. Come nasce quest’interesse (e passione)? E come sei riuscito a coltivarlo e conservarlo nel tempo?
Sono sempre stato affascinato dall’Estremo Oriente. Per la lingua, soprattutto. Mio padre, giurista e studioso dell’Islam e delle lingue semitiche, si lamentava di non essere riuscito a decifrare i caratteri ideografici, che pure l’attiravano. Morì molto giovane, a 53 anni, e sapendo che non sarei mai riuscito a raggiungere il suo livello (parlava sedici lingue), gli promisi che avrei provato a studiare… il cinese. Cosa che ho fatto, durante l’università, iscrivendomi all’Ismeo, a Roma. Poi però conobbi una ragazza giapponese, che studiava in Italia e che era molto interessata alla politica. Decisi quindi di passare al giapponese, anche perché nel frattempo avevo conosciuto Fosco Maraini ed ero rimasto affascinato dai suoi libri e dai suoi racconti. Con quella ragazza ebbi una breve storia d’amore. Poi improvvisamente sparì. Uno dei motivi che mi spinse ad andare in Giappone, con la mia prima borsa di studio, fu proprio quello di andarla a cercare. La “ritrovai”, si fa per dire perché nel frattempo era morta, dopo oltre trent’anni, quando per caso, durante una chiacchierata con il regista Koji Wakamatsu, scoprii che era stata un membro dell’Armata Rossa, l’organizzazione terrorista che dopo una serie di attentati e dirottamenti aerei in Giappone si era per così dire “trasferita” in Libano, mettendosi a disposizione di Abu Nidal e del FNLP (Fronte nazionale per la liberazione della Palestina). Ovviamente io all’epoca tutto questo non lo sapevo… Il resto lo leggerete nel mio libro di memorie, che prima o poi spero di riuscire a scrivere…

Perché quel quadrante così grande, così importante del mondo, è così scarsamente conosciuto e considerato in Italia? Anzi, non solo scarsamente, ma anche – perfino in ambienti colti – visto con lenti spesso pregiudizievoli se non addirittura vagamente razziste…
Be’, intanto in Italia l’attenzione per la politica estera, a parte qualche episodica e superficiale abbuffata in occasione di grandi (e quasi sempre drammatici) eventi, è in generale molto bassa. E questo a tutti i livelli, compresi i media. Quel poco di interesse che c’è in genere è rivolto verso il resto dell’Europa, gli Stati Uniti e talvolta l’Africa. L’Estremo Oriente, e direi tutta l’Asia, è totalmente assente. Pensa che quando sono arrivato in Giappone, nei primi anni Ottanta, alla stampa estera di Tokyo c’erano oltre cinquencento membri attivi, di cui una decina italiani. Oggi siamo meno di duecento, molti dei quali in pensione, e io sono l’unico italiano rimasto. L’ultimo a chiudere è stato il Sole 24 ore, l’anno scorso.
È un rapporto squilibrato che prima o poi farà sentire tutto il suo peso: giapponesi, cinesi, vietnamiti sanno tutto dell’Europa e spesso anche dell’Italia. Noi, di loro, nulla. Prima o poi pagheremo questo gap. Non penso che questo avvenga in modo doloso, per colpa di pregiudizi e/o atteggiamenti razzisti. Penso sia frutto di ignoranza, incapacità di percepire i processi storici nel loro divenire, e forse sì, anche un po’ di colpevole supponenza: siamo ancora convinti che l’Italia, l’Europa, siano il centro del mondo. Non è così. Non lo è più da tempo e sempre meno lo sarà. Dobbiamo correre ai ripari al più presto, correggere questa miopia. Ma non bastano più gli occhiali da lontano. Dobbiamo ricorrere alle lenti progressive. Perché la Cina non è più “vicina”, come giustamente annunciava nel suo bellissimo film Marco Bellocchio, nel lontano 1967. La Cina è arrivata. Prima ce ne rendiamo conto, meglio è per tutti.
Parliamo della genesi de “La ferroVIA della seta”. L’idea è tua? Di Sky? Quanto tempo c’è voluto nella fase preparatoria e poi nella sua realizzazione?
L’idea è mia, e ho faticato non poco per poterla realizzare. Oggi è difficile trovare una sponda produttiva per i documentari, in particolare in Italia. E sono molto grato a Sky – in particolare all’ex vicepresidente Andrea Scrosati, che a suo tempo aveva molto apprezzato il mio lavoro su Fukushima e che ha subito creduto nel progetto, e al mio ex direttore Sara Varetto – per avermi dato la possibilità di realizzarlo. E nel modo più libero, senza alcun vincolo o indicazione editoriale. Abbiamo concordato un budget e ho deciso tutto io. Nel bene e nel male. Una libertà che temo sia concessa a pochi registi, oggidì.

Una parte considerevole del film riguarda ovviamente per tanti aspetti la Cina, il primo paese e il massimo protagonista del tuo viaggio. Che disponibilità hai trovato nei tuoi interlocutori cinesi, a livello politico e a livello imprenditoriale?
Nonostante gli enormi progressi degli ultimi anni – ma anche qualche pericoloso segnale di arretramento – girare un documentario in Cina non è cosa semplice. Soprattutto quando sei senza una vera e propria sceneggiatura, un itinerario, una lista precisa dei luoghi e delle persone che vuoi incontrare. Da questo punto di vista, debbo dire che mi sono stupito del fatto che al momento di chiedere il visto le autorità cinesi ce l’abbiano concesso senza fare troppe difficoltà. Penso che sia stato molto utile anche il supporto istituzionale e personale delle nostre autorità diplomatiche: dall’ambasciata a vari consolati. In particolare quello di Chong Qing, all’epoca guidato da un giovane, efficientissimo funzionario, Filippo Nicosia. Penso sia stato anche fondamentale il fatto che il mio bravissimo operatore, Andrea Cavazzuti, sia un “cinese”: vive a Pechino da molti anni, parla perfettamente il cinese e soprattutto conosce alla perfezione i vari codici di comportamento. Capisce al volo quando si può trattare e quando è meglio lasciar perdere… È stato di fondamentale importanza, durante il nostro viaggio.
Ciò non toglie che in un paio di occasioni, nello Xinjiang, ci siamo trovati davanti a ostacoli talmente assurdi e fastidiosi che non abbiamo potuto evitare di denunciarlo. E questo non è piaciuto ai cinesi. Ma è colpa loro, un conto è adottare e applicare misure anche molto discutibili per tutelare l’ordine pubblico e le minacce – vere o presunte – alla sicurezza dello stato, un conto è usarle per intralciare il legittimo lavoro dei giornalisti, disturbando continuamente la loro attività e la loro concentrazione. Nel film c’è una scena che denuncia questa situazione. Quando per girare un tramonto “non autorizzato” abbiamo dovuto trattare ore e ore, perdendo una preziosa giornata di lavoro. La presenza di questa scena, pochi minuti all’interno di un documentario di ottanta minuti che da più parti è stato accusato di essere troppo “filo-cinese”, ha diciamo “innervosito” un po’ l’ambasciata cinese, che per questo motivo non ha promosso il documentario come avrebbe potuto e secondo me dovuto. Pazienza. Prima o poi anche loro capiranno che qualche critica fa bene, non è un segno di ostilità o inimicizia.

Quanti paesi attraversi nel tuo viaggio? Hai trovato in questi paesi che hai attraversato disponibilità, collaborazione? E se hai avuto problemi, di che tipo?
Siamo partiti da Suzhou, grande città industriale vicino a Shanghai e abbiamo attraversato tutta la Cina passando per Chong Qing – oggi la più grande metropoli del mondo, anche se nessuno lo sa – Chengdu, Lanzhou, Urumqi e Horgos, al confine con il Kazakhistan. Dopodiché abbiamo raggiunto Duisburg, in Germania, attraversando Kazakhistan, Russia, Bielorussia e Polonia. In totale, oltre dodicimila chilometri, per circa un mese di riprese. Quanto alla disponibilità/collaborazione, diciamo che in genere è stata ottima, tranne in Russia. Mosca non vede di buon occhio questa iniziativa, l’ha osteggiata in ogni modo, anche se alla fine ha dovuto subirla. Un atteggiamento comprensibile, perché questa iniziativa è destinata a ridurre sempre di più lo storico ruolo di “cuscinetto” con l’Europa. Con questa ferrovia, la Cina in Europa ci arriva direttamente. Pechino si è “vendicata” della scarsa collaborazione russa non prevedendo alcuno scalo in territorio russo: per carità, i cinesi pagano i – cospicui – diritti di transito, ma se un’azienda cinese o europea vuole spedire delle merci in Russia deve per forza scaricare in Kazakhistan o in Bielorussia, aumentando così tempi e costi. E nel futuro il ruolo della Russia è destinato a diminuire ulteriormente: i cinesi stanno infatti realizzando la variante trans-caspiana della ferrovia, che farà arrivare le merci in Europa senza toccare il territorio russo.


Qual è il vantaggio – per i paesi attraversati dalla via della seta via terra – in questo progetto?
Una ferrovia non riguarda solo le stazioni di partenza e arrivo, ma l’intero territorio che le collega. Tra una stazione e l’altra i cinesi, anche in collaborazione con i governi locali, stanno realizzando direttamente o attraverso joint venture tutta una serie di infrastrutture destinate a cambiare l’assetto economico e commerciale di quella regione, e dunque anche quello geopolitico. È la fine dell’eurocentrismo, e la rinascita del concetto, peraltro antico, di Eurasia. Che è quello che studiano, da sempre, i cinesi. Per i quali l’Europa non è un continente separato, bensì una delle cinque penisole che circondano la Cina, assieme a Siberia, Indocina, India e Arabia. Si tratta di un processo storico, annunciato, inevitabile e direi inarrestabile. Come l’integrazione europea, tanto per capirci e nonostante la cosa non sia ancora condivisa e chiara a tutti. Ai cinesi, che vengono da lontano e guardano lontano, invece lo è, e non da oggi. Ovviamente One Belt One Road è un’iniziativa cinese, che i cinesi vogliono realizzare sopratutto a loro beneficio, proponendo e, quando possono, imponendo le loro condizioni. E qui sta il punto. Non si deve e non si può ostacolare questo progetto, ma si può e si deve tentare di gestirlo in modo equo e sostenibile per tutti. C‘è chi ci sta riuscendo, per esempio Francia e Germania, c’è chi invece rischia di essere “asfaltato”, per usare un’espressione cara ad Alberto Forchielli, uno dei personaggi intervistati nel documentario, dall’intraprendenza cinese. È anche il nostro dilemma, la nostra scommessa.

Il tuo itinerario è via terra, ma nell’immaginario, e non solo, si tende a pensare alla via della Seta più come tragitto via mare. Perché è importante quello via terra? E in che modo sono complementari i due tragitti?
La via del mare è stata, è e resterà la più importante via di comunicazione, soprattutto per quanto riguarda le merci, tra la Cina, l’Europa e l’Africa. La ferrovia aumenterà certamente il suo ruolo, soprattutto per tutta una serie di merci che non possono affrontare lunghi tragitti ma allo stesso tempo non possono ammortizzare i costi della spedizione aerea. Pensiamo soprattutto ai prodotti agricoli, ma anche al settore farmaceutico e ad un certo tipo di manufatti. Ma non c’è dubbio che resterà complementare, rispetto all’interscambio via mare. Un altro aspetto che dobbiamo curare è quello della reciprocità: al momento i treni viaggiano pieni dalla Cina e semivuoti dall’Europa. Questo divario va colmato, altrimenti anche per la Cina il sistema non è più conveniente. Oggi, per esempio, molti container che arrivano dalla Cina e non riescono a venire riempiti in Europa vengono rispediti in Cina via mare. Perché alcuni paesi, tra i quali la Russia, fanno pagare i diritti di transito a prescindere se il container sia pieno o vuoto.

Lanzhou, nella provincia del Gansu. Per combattere la siccità, il governo locale ha ideato un programma di bombardamento delle nuvole. Con questi vecchi cannoni antiaerei, sparano proiettili di ioduro d’argento contro le nuvole, per far piovere. Funziona.
La via della Seta ha suscitato e continua a suscitare discussioni e controversie. Come spieghi l’avversione, abbastanza diffusa, verso un progetto che, almeno sulla carta, unisce pezzi di pianeta, un’avversione che si nota anche in ambienti che deprecano il mondo d’oggi, dove s’innalzano muri, ci sono numerosi conflitti e sembrano avere la meglio i sovranismi? Il tuo film serve anche a rovesciare questa narrazione? E che altro si può fare?
Con qualche rara ma significativa eccezione, la storia ci ha insegnato che povertà, paura e ignoranza provocano le guerre, mentre conoscenza, ricchezza e serenità mantengono la pace. La rinascita del concetto geopolitico di Eurasia è destinato a riavvicinare due culture che da sempre si sono sfiorate senza integrarsi, nonostante la loro oggettiva complementarietà. Una complementarietà oggi sempre più evidente, direi oggettiva. Non bisogna avere paura dell’integrazione, che è la versione pacifica, positiva, di invasione. E bisogna affrontare i nuovi flussi, che sono periodici e spesso inevitabili, con saggezza, apertura mentale, disponibilità concreta, convinti che il progresso di un popolo non costituisce una minaccia, ma un’opportunità di crescita per tutti. Il “secolo cinese”, perché di questo stiamo parlando, è già iniziato, e non è detto che porti maggiore conflitto, maggiore violenza, maggiori sofferenze di quelli che hanno portato in passato quelli “europei” e quello americano, appena concluso. Bisogna anche correggere alcuni luoghi comuni, rivalutare il rigore storico rispetto a leggende e dicerie. La storia, ad esempio, c’insegna che la Cina non è una potenza egemonica: nella sua storia millenaria, e soprattutto negli ultimi secoli, ha subito molte più invasioni di quante ne abbia fatte. Che al suo interno ci siano ancora molte contraddizioni, molte situazioni che possono e debbono essere migliorate, soprattutto nel settore dei diritti umani, delle libertà civili e religiose è indubbio. Ma non dimentichiamoci che oppressione, repressione e discriminazioni varie sono ancora molto diffuse anche nei paesi occidentali e che nel mondo, nonostante l’abolizione ufficiale, ci sono ancora quaranta milioni di schiavi. Molti di loro vengono usati nei cantieri del Qatar, per allestire le strutture che ospiteranno i mondiali di Calcio.

Tramonto su Horgos, confine con il Kazakhistan. Questa scena non era prevista, originariamente, per riuscire a realizzarla abbiamo perso un’intera giornata di lavoro.
Per l’Italia, che vantaggi vedi in questa connessione verso Oriente?
In Cina, ma anche in Giappone e in genere in tutta l’Asia orientale, l’immagine dell’Italia è molto positiva. Sono popoli colti, che hanno studiato la storia e vivono in società culturalmente evolute. Che apprezzano le belle arti, il canto, le varie “eccellenze”. Per loro l’Italia è il paese di Leonardo, Michelangelo e Raffaello, più che di Berlusconi, Salvini o Di Maio. E le eccellenze italiane, dai motori al design, dalla moda al cibo sono molto apprezzate. Abbiamo un capitale enorme, con ottime possibilità di crescita, che tuttavia rischiamo di non sfruttare e addirittura perdere per colpa della nostra incapacità di fare sistema e la discontinuità delle nostre istituzioni. Una cosa che per i cinesi è inspiegabile e sconcertante, e che purtroppo danno oramai per scontata. Che ci piaccia o meno, loro sono abituati a una governance più stabile, sia a livello politico che burocratico. Che ci piaccia o meno, Xi Jinping è l’unico leader del G20 che ha buone possibilità di restare al potere per i prossimi dieci anni, se non di più. E i funzionari dei ministeri degli esteri, dell’economia e del commercio estero che hanno incontrato a suo tempo Ciampi, Prodi, Berlusconi e Renzi sono in gran parte gli stessi che ora incontrano Conte e Di Maio. Per quanto possano impegnarsi i nostri funzionari locali dell’ambasciata, dei consolati, dell’Ice, spesso competenti e motivati, nulla possono se nel giro di pochi mesi le promesse e gli impegni assunti dal sottosegretario di turno sono poi disattesi dopo pochi mesi da chi lo sostituisce. È capitato, e continua a capitare.

Hai avuto diverse occasioni d’incontro con il Dalai Lama. Ultimamente ti sei occupato anche di quanto accade a Hong Kong. È possibile tenere su piani separati la visione della Cina come partner commerciale con cui stringere sempre più relazioni, anche in virtù della via della Seta, e la visione della Cina come paese dove, nel migliore dei casi, la via verso il rispetto pieno dei diritti e della democrazia è ancora lunga e in salita?
In parte ho risposto sopra. Sì, è possibile. E necessario. Facciamo affari con l’Arabia Saudita, con l’Iran, con la Libia, con la Turchia. Paesi che non sono certo un modello di democrazia, paesi che opprimono, reprimono, aggrediscono e bombardano altri paesi. Così come sono sbagliati i muri, i sovranismi, gli arroccamenti, così sono sbagliate, inefficaci e spesso controproducenti, le sanzioni. Che affamano i popoli e rafforzano i regimi. Viceversa è attraverso gli scambi culturali, sportivi, commerciali che ci si conosce, ci si “annusa”, per poi piano piano approfondire i rapporti sino al punto di potersi permettere suggerimenti e anche critiche. Ma le minacce non funzionano, tutt’altro. La storia ha più volte dimostrato che rafforzano i regimi, non li indeboliscono. Per questo, ad esempio, sono convinto che anche nei confronti della Corea del Nord dovremmo guidare – come abbiamo fatto in passato, essendo stati i primi a riallacciare le relazioni diplomatiche – l’Europa verso l’abolizione delle sanzioni e la riapertura del dialogo con Pyongyang. Abbiamo obbedito pedissequamente alle direttive Usa, nonostante le piroette di Trump, ma non è servito a molto. Nel frattempo stiamo perdendo l’opportunità di contribuire allo sviluppo economico di quel paese. Dopodiché, approfittare di ogni occasione per ricordare ai cinesi l’importanza dei diritti umani, della libertà di espressione, di associazione e credo religioso penso sia cosa buona e giusta. I tedeschi lo fanno sempre, anche durante gli incontri ufficiali. Noi no. Su Hong Kong ad esempio, francesi, tedeschi, inglesi e spagnoli hanno detto, sia pure con toni diversi, la loro. Noi zitti e… Pechino…



Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!