“Storie d’Africa” è l’ultimo lavoro del regista Piero Cannizzaro. È un docufilm, il racconto di un viaggio, tre mesi tra Senegal, Costa D’Avorio, Guinea, incontrando protagonisti di storie d’emigrazione, nella loro quotidianità. Storie umane. Di speranze. Di sogni, di successi e di fallimenti. Un film finanziato dalla Cooperazione Italiana per lo Sviluppo in collaborazione con l’OIM. Presto ytali. dedicherà un articolo di recensione a ”Storie d’Africa”, anche in vista di una sua proiezione a Venezia. Intanto abbiamo chiesto al dottor Castriota – di recente nominato coordinatore del gruppo PER (Psicoanalisti Europei per i Rifugiati) e responsabile europeo del Migration and Refugees Committee dell’IPA – una riflessione sul contributo che può venire dalla psicoanalisi per affrontare la difficile condizione di sradicamento dei rifugiati.

Il bellissimo lavoro di Piero Cannizzaro sui migranti e le loro terribili vicissitudini ci interroga tutti su come si possa intervenire per fermare questo dramma. Da anni la Società Psicoanalitica Italiana è in prima linea nel campo del volontariato sia nel lavoro diretto coi migranti, sia con gli operatori. Quelle che seguono sono solo alcune note frutto della nostra esperienza.
Come sappiamo, nei transiti migratori si attivano una profonda precarietà e trasformazione di quei referenti metapsichici e metasociali che stabilizzano le catene genealogiche, costruttrici di legami e di senso. La relazione primaria materna risente per prima di tali effetti destabilizzanti ed è estremamente esposta alle fratture più profonde e nascoste, così come tutto quello che ruota intorno al “confine” sia psichico sia relazionale e culturale.
Le tematiche più presenti in queste situazioni estreme sono più frequentemente:
1) quello che Lifton chiama “lo stigma della morte”: una radicale intrusione di una immagine di minaccia alla vita;
2) il senso di colpa per essere vivi, associato all’ansiosa ricerca di un senso, sotto il dominio dell’angoscia di morte;
3) un psychic numbing che porta alla perdita della capacità di sentire, come se il profugo si sottoponesse a una morte simbolica per evitare la morte psichica e fisica definitiva;
4) diversi e contrastanti conflitti tra desiderio d’intimità, di affidamento e nutrimento, mescolati al risentimento per l’aiuto ricevuto, nel timore di una nuova perdita.
Lasciando che la rabbia diventi talvolta lo sforzo disperato di sentirsi vivo per sottrarsi alla morte interna, il profugo finisce così per sentirsi lontano e isolato, temendo nello stesso tempo la compagnia dell’altro. Sentendosi diverso si isola o si rapporta solo con chi condivide il trauma. Per questo il primo segnale di un recupero è nella rinata ricerca dell’altro, diverso da sé.
Si tratta di situazioni relazionali segnate paradossalmente molto di più da un eccesso che non dalla mancanza, ed è per questo che si genera spesso una reazione da cui scaturisce la sensazione di un’impossibilità di instaurare una relazione. Non dimentichiamo inoltre come sia soprattutto nelle modalità della trasmissione psichica e culturale transgenerazionale che si annidano gli effetti più laceranti dell’esperienza migratoria.
In queste situazioni risulta infatti profondamente compromessa la possibilità di assegnare al figlio il ruolo di proprio discendente, inserendolo nella catena delle ascendenze e appartenenze simboliche. È dunque anche sul piano genealogico che si situa quella frattura che avrà molteplici ricadute proprio sulla struttura psichica che sostiene il sentimento d’identità. L’evento traumatico spezza così, in queste circostanze, non solo la continuità del senso di sé, ma anche il tessuto di appartenenza gruppale, il legame di base tra sé e altro. Il tessuto connettivo di fondo viene rotto e viene minata la base essenziale per la sopravvivenza.
In queste situazioni la funzione d’aiuto è quella innanzitutto dell’esserci, della condivisione, della testimonianza, tramite l’ascolto e la conferma della ricezione della comunicazione. L’impatto emozionale e fantasmatico non può che essere travolgente e perturbante dato che gli incontri e le immagini di persone minacciate nella loro sopravvivenza rimettono in gioco esperienze primarie della nostra vita, quel fondo inconscio di base in attesa di simbolizzazione che abbiamo conosciuto alla nascita. La reazione immediata sarebbe quella di distogliere lo sguardo, da quei bambini che anche noi siamo stati, in condizioni di disperata inermità e dipendenza totale dall’altro.
“Chi è sradicato sradica”, scriveva Hannah Arendt; il contatto con chi porta su di sé i segni dello sradicamento traumatico non lascia indenni, continua incessantemente a sradicare ciò che gli si accosta. E Nietzsche ci ricorda che se guardiamo l’abisso, l’abisso guarderà nei nostri occhi. La percezione diffusa e immediata che i migranti portino disordine e confusione nasce dal contatto traumatico con un elemento ignoto perché ha smarrito la sua forma, la sua immagine e la sua stessa griglia di pensabilità. Si tratta quindi di una sfida per affermare la vita dell’altro, ma anche la nostra.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!