Modigliani e la figlia Jeanne che si ribellò alla sua leggenda

A cent’anni dalla morte, il grande artista livornese torna dal 7 novembre nella sua città dove, al Museo del Comune e fino al 16 febbraio del 2020, saranno esposte quindici sue tele e numerosi disegni molti dei quali mai approdati in precedenza in Italia.
MARIO GAZZERI
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A cent’anni dalla morte, Amedeo Modigliani torna dal 7 novembre nella sua Livorno dove, al Museo del Comune e fino al 16 febbraio del 2020, saranno esposte quindici sue tele e numerosi disegni molti dei quali mai approdati in precedenza in Italia. Sarà un’ulteriore occasione per tentare di conoscere il grande artista misurando il valore della sua pittura, ideale punto di congiunzione tra classicismo e modernità, “tra Giotto e Cézanne”, come fu detto da critici illuminati.

Al di là delle leggende e dei falsi miti di “pittore maledetto”, (Modi maudit), alimentati sicuramente dall’indubbio fascino della sua persona, dall’abuso di alcol e di laudano e dalla sua precoce morte a soli trentasei anni, aveva un aspetto aristocratico e modi estremamente gentili e garbati. A questo si aggiunga il suicidio, il giorno dopo i suoi funerali, della sua compagna Jeanne Hébuterne, sua modella, pittrice, madre della loro unica figlia, Jeanne, e incinta della seconda quando si uccise gettandosi da una finestra della casa parigina dei genitori. E fu proprio la figlia Jeanne, divenuta ormai una apprezzata storica e critica d’arte, a scrivere, ormai quarantenne nel 1958, una biografia del padre.

Un ritratto vero, autentico e documentato e non, come scrisse, “un tentativo sentimentale di ricomporre l’immagine del padre sconosciuto”. L’unicità della sua opera pittorica è dovuta anche alle sue radici toscane ed italiane, alla sua cultura umanistica e all’amore per la poesia.

Per qualche strana ragione, quando penso a Modigliani, lo associo sempre alla poesia – scriveva lo scultore lituano e suo caro amico Jacques Lipchitz (più volte in seguito ritratto dal pittore livornese) – forse perché gli fui presentato dal poeta Max Jacob (morto nel 1944 in un campo di prigionia nazista nella Francia occupata) o perché, quando Max ci presentò nel 1913 nei Giardini del Lussemburgo a Parigi, Modigliani cominciò improvvisante a recitare a memoria la Divina Commedia con quanto fiato aveva in gola.

Fra l’Amedeo timido, riservato e gentile, che alcuni ricordano – scriveva da parte sua la figlia Jeanne – e l’istrione invadente e borioso, la contraddizione è solo apparente. Alcol e droghe provocano spesso una inversione quasi totale delle caratteristiche che appartengono all’individuo nel suo stato normale.

La sua pittura, nei primi tempi, variò costantemente a seconda dell’influsso prevalente del momento. Dopo il breve periodo post-macchiaiolo degli allievi di Fattori, Gino Romiti e Guglielmo Micheli, Modigliani subì l’influenza di varie scuole, sia a Napoli che a Venezia dove oltre alla lezione di Tiziano e Tintoretto si accostò alle correnti mitteleuropee dello Jugendstil tedesco, stile che avrebbe contagiato l’intera Europa e gli Stati Uniti assumendo diverse forme e diversi nomi in ciascun paese, Art Déco (Francia e Belgio), Liberty (Gran Bretagna), Stile Floreale (Italia), Sezessionstil (Austria) e Modernismo (Spagna).

Modigliani, ricorda una sua biografa, l’inglese Meryle Secrest, nei suoi primi mesi a Parigi “dipingeva con lievi pennellate ritratti piccolissimi su tela grezza oppure su cartoncino morbido” citando poi il pittore pre-espressionista tedesco Ludwig Meidner (grande amico del pittore livornese) secondo cui

i risultati, che ricordavano un poco Toulouse Lautrec, erano decisamente differenti dalla pittura dei “Fauves” (“belve”) in mostra al Salon des Indépendants. Per dare ai suoi dipinti profondità e trasparenza, quando erano asciutti Modi li ricopriva di lacca colorata, a volte anche con dieci strati, e nella loro dorata trasparenza ricordavano gli antichi maestri.

In breve si desume da queste testimonianze come Modigliani non potesse, e non possa ancor oggi, essere inquadrato in alcuna corrente, in alcuna scuola. Anche se nel periodo in cui dipinse Il Violocellista e altri capolavori l’influenza di Cézanne è più che evidente. Ma se la pittura quasi musicale di Cézanne si pose anche come un preludio del cubismo (e quella di Gauguin dell’espressionismo), ebbene Modigliani sembra un pittore svincolato da ogni movimento. Una delle ragioni di questo suo prezioso e aristocratico “isolamento” fu, come sembrano concordare quasi tutti i critici, la sua incertezza iniziale (ma che durò poi per tutta la sua breve vita) sul suo essere un pittore.

Per molti anni, il bell’ebreo livornese pensò che la scultura sarebbe stata la forma d’arte in cui si sarebbe espresso. La figlia Jeanne ricorda:

tornato a Livorno da Venezia, nel 1902, Modigliani si precipitò a Pietrasanta vicino a Carrara… ed espresse un desiderio ardente di diventare scultore e si dolse del prezzo del materiale. Dipingeva “faute de mieux”. La sua vera passione era lavorare sulla pietra, desiderio che conservò tutta la vita…

Fu poi, in particolare, Brancusi a spingerlo nuovamente verso la sua scultura e grazie a loro due assieme si deve la scoperta (o la riscoperta) dell’arte africana. Ma la pietra costava e per lavorarla occorrevano ampi locali e una forza fisica per maneggiare il materiale che Modigliani, sempre più fragile a causa della tubercolosi, dell’alcol e dei derivati oppiacei, non aveva più. 

 

Modigliani e la figlia Jeanne che si ribellò alla sua leggenda ultima modifica: 2019-10-28T17:27:28+01:00 da MARIO GAZZERI
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