Tutto si può dire meno che il disastro elettorale in Umbria per la maggioranza di governo sia un fulmine a ciel sereno. Anche nelle proporzioni della sconfitta. Ma, se così è, perché si è fatto di tutto per precipitare nel burrone? Forse non c’era modo di evitare di perdere, visto anche il poco tempo a disposizione per cambiare verso all’elettorato. Ma quanto meno si poteva circoscrivere davvero l’impatto dentro i confini di una piccola regione. Mentre così la rappresentazione vincente nel senso comune è quella di Salvini, che addita la conquista dell’Umbria come l’inizio della marcia trionfale verso la conquista dell’intero paese.
Sono molti i responsabili di tutto ciò, ma ce n’è uno che spicca al centro della scena. Ed è Luigi Di Maio, con i suoi tentennamenti, le sue gelosie, la sua ricerca della mossa più furba che lo riporti d’incanto ai trionfi del passato. Non è così che funziona, e oggi lo si vede con abbacinante chiarezza.
Facciamo un passo indietro: il secondo governo Conte nasce per sbarrare la strada alla Lega straripante e salvare Pd e 5 Stelle dall’estinzione. Si può discutere sull’efficacia della scelta, e infatti se ne è discusso molto, ma una cosa è certa: una volta che si è imboccata una strada bisogna andare avanti senza esitazioni. La politica funziona così: se il timoniere è incerto, la ciurma sbanda e gli elettori cominciano a guardare altrove.
Dunque, appena il governo è nato ci si sarebbe aspettati che lavorasse pancia a terra per raggiungere i suoi obiettivi. Era una via obbligata, ma qui arriva il primo scoglio: quali sono gli obiettivi comuni? Non c’è dubbio che Pd e M5S siano diversi, ma la crisi italiana è davanti ad entrambi, e le ricette per affrontarla non sono poi tantissime. Brutalmente: o si esce dall’euro o si fa quel che si deve per rimanerci. E allora bisogna affrontare gli eterni nodi del mancato sviluppo, dell’evasione fiscale, delle spesa pubblica incomprimibile. Si possono anche proporre provvedimenti non proprio popolari se il governo li spiega parlando con una voce sola, e se i partiti che lo compongono fanno la stessa cosa. Intendiamoci, è impossibile imbavagliare i parlamentari della maggioranza e, da che mondo è mondo, l’assalto alla diligenza nelle leggi di bilancio è sempre stato pratica comune. Ma mentre il Pd bene o male riesce a controllare le sue pulsioni interne, nel M5S è il capo a sbandare, a dire e poi smentire, a rimettere continuamente in discussione quel che si è deciso.

Si dice che i pentastellati non sono un partito in senso tradizionale e dunque non li si può leggere con i criteri tradizionali. Vero, ma le regole del gioco sono sempre le stesse e non rispettarle comporta penalità durissime. Come si è appena visto. In definitiva, Di Maio ha commesso un peccato mortale: dare vita a un governo in cui non crede. Una scelta suicida: se non ci crede lui, perché dovrebbero crederci i suoi elettori? Avrebbe fatto meglio ad accettare l’offerta di Salvini dopo la crisi di agosto e tornare da premier a Palazzo Chigi. Forse la Lega se lo sarebbe mangiato ugualmente, ma almeno avrebbe avuto un ruolo da usare per difendersi meglio.
Si dice: e Renzi? Renzi adesso gongola perché Pd e M5S gli hanno dato lo spazio per farlo. Se i due partiti maggiori dell’alleanza avessero marciato all’unisono, Renzi sarebbe stato inchiodato al suo paradosso: cercare visibilità senza poter aprire la crisi è una posizione debolissima, che può diventare forte, come è accaduto, solo per l’insipienza dei suoi concorrenti, Di Maio per primo.
E adesso? Adesso è difficile immaginare una via d’uscita. E anche se la si trovasse, forse è troppo tardi per imboccarla. Probabilmente ogni sviluppo futuro passerà da una rivoluzione all’interno del M5S. Ma è difficile immaginare quando e se si verificherà. E con quali esiti. Inoltre, chissà se i grillini sono consapevoli che da questo dipende la loro stessa esistenza. Perché da questo terremoto il Pd esce gravemente ammaccato ma non ancora morto. Ma per i 5 Stelle potrebbe essere l’ultimo atto.

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