Monaco di Baviera, 18 luglio 1937: s’inaugura in pieno regime nazista la “Grande mostra d’Arte tedesca” alla presenza dei massimi esponenti del regime, celebrazione dell’ideale nazionalsocialista del tempo. Sempre a Monaco, il 19 luglio 1937 si apre la mostra “Arte degenerata”, alla presenza occhiuta dei gerarchi tra i quali Goebbels, ministro della propaganda.
L’esposizione ortodossa, quella del 18 luglio, viene visitata da circa quattromila persone, quella sull’arte degenerata da circa due milioni di visitatori.

Parte subito con efficienza l’epurazione degli artisti che avevano osato sfuggire ai canoni del regime, assieme alle loro opere sparse in vari musei tedeschi e relativi direttori: pare che uno dei principali “ricettori” sia stato proprio Goebbels per la sua personale collezione, mentre moltissime opere dell’avanguardia europea vennero distrutte.
Marc Chagall, Otto Dix, Max Ernst, Wassily Kandinsky, Paul Klee, Oskar Kokoschka, Piet Mondrian sono solo alcuni artisti che dovettero prendere la via della fuga, dell’esilio.
Artisti in fuga da Hitler. L’esilio americano delle avanguardie europee (Il Mulino) è il saggio scritto da Maria Passaro che ricostruisce questa storia tra arte e ideologia, che costrinse anche scienziati, musicisti e comuni cittadini mal tollerati e perseguitati a lasciare la Germania per gli Stati Uniti.
Un vero e proprio “dono” a Hitler, così da molte parti è stato interpretato tale esodo di menti e di artisti, ma anche una dolorosa circostanza che fece di quei sensibili personaggi degli esuli.
Presentando il libro presso l’Aula Magna dell’Ateneo Veneto, la giornalista Lidia Panzeri ha sottolineato come questo saggio “profondo, scritto con brio” descriva l’atmosfera che costrinse chi aveva trovato nella Germania del Bauhaus di Gropius un faro per design, arte e architettura, a emigrare.
Non tutti gli artisti vissero l’esilio nella stessa maniera: se Mondrian mai si adeguò alla vita americana e Chagall pretese di usare sempre la lingua francese, Ernst fu ad esempio a suo agio anche confrontandosi con differenti società.

Elisabetta Barisoni, responsabile del Museo veneziano d’Arte moderna di Ca’ Pesaro, Marita Liebermann, direttrice del Centro tedesco di Studi Veneziani, Karole Vail, direttrice della Collezione Peggy Guggenheim hanno animato un dibattito in un vivace parterre tutto femminile, conversando con l’autrice e analizzando il tema della fuga e dell’esilio per artisti già famosi e strutturati come gli esuli del 1937.
Fuga come nuova opportunità di comunicare, secondo Liebermann, ma anche come conseguenza di una azione violenta che ha cambiato il paesaggio artistico del XX secolo. L’allontanamento dei “diversi” dalla società nazionalsocialista si inserisce nel significato della parola tedesca “verrückt”, che indica un folle, uno spostato: e chi è esule appartiene alla categoria di chi “è spostato” per forza in maniera estrema rispetto ad una società che non tollera deviazioni.

La partenza degli artisti che avevano trovato nella Germania del primo dopoguerra un faro per arte e design d’avanguardia (come nello Staatliches Bauhaus di Walter Gropius, dopo il licenziamento e l’allontanamento di docenti e artisti ebrei o “degenerati” chiuso nel 1935) avvantaggiò moltissimo la nuova società statunitense, che accolse con entusiasmo personaggi già famosi: un’epurazione che appunto fu considerata un dono ad esempio a New York, dove Pierre Matisse, figlio di Henri, proprietario di una galleria, organizzò una mostra sugli “artisti in esilio” della grande scuola europea. In molte città degli Stati Uniti gli artisti “degenerati” sono chiamati a trasmettere la propria scienza a numerosissimi discepoli, come ha ricordato Barisoni.
A quarant’anni dalla scomparsa di Peggy Guggenheim, la nipote Karol Vail ha voluto ricordare anche i sessant’anni dell’inaugurazione del Museo Solomon R. Guggenheim progettato da Frank L. Wright: socio di un artista come l’ungherese Laszlo Moholy-Nagy che fugge dalla minaccia nazista e arriva a dirigere seppure per solo un anno la Nuova Bauhaus di Chicago, fondando in seguito una sua propria scuola di design. Artista modernissimo che accosta tecnologia a fotografia assieme all’uso di nuovi materiali come plastica o plexiglas (siamo negli anni Trenta e Quaranta del Novecento), Maholy incarna l’essenza dell’artista esule, che adatta la sua arte al nuovo ambiente nel quale lavora, accogliendone stimoli, provocazioni, nuove tendenze, riscuotendo un grande successo.
Il volume di Maria Passaro offre quindi molti spunti di riflessione, non ultimo il pensiero che anche oggi, sia negli Stati Uniti che in Europa, le correnti migratorie sono composte da milioni di persone, e tra questi esuli esistono anche artisti o uomini e donne di scienza che attendono solo l’opportunità di essere accolti e riconosciuti per contribuire allo sviluppo di società come le nostre forse troppo presuntuose o crudeli.


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