Ecofiscalità. Una parola di cui non aver paura

Perché aiuta il passaggio dall’economia lineare e dissipativa (che spreca e inquina) a quella circolare (che conserva ambiente, risorse, salute). Vuol dire spostare per quanto possibile il prelievo fiscale da lavoro, casa e impresa alle azioni che danneggiano quella che Francesco chiama “casa comune”.
MARIO SANTI
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La constatazione che con le politiche impositive e prescrittive (comand and control) non si andava lontano. L’intuizione che per rendere circolare l’economia gli asset ambientali andavano portati a valore economico. Ecco le ragioni per la nascita dell’ecofiscalità, lo strumento economico del cambiamento sostenibile. Spostare (per ciò che è possibile) la tassazione da lavoro, casa e imprese e ciò che fa danno all’ambiente. È un modo per recuperare gettito ma anche e più per dare un segnale nella direzione di un’economia circolare, cioè attenta a conservare risorse, ambiente e salute per le generazioni future.

L’ecofiscalità aiuta a proteggere l’ambiente perché chi lo danneggia paga. Un segnale del quale un governo (anche minimamente) green dovrebbe andare fiero, non vergognarsi. In una società verde l’economia deve essere in grado di offrire prodotti e servizi sostenibili, lo stato deve disincentivare, anche attraverso la leva fiscale, quelli non sostenibili.

In Italia abbiamo una classe politica che accoglie opportunisticamente con tutti gli onori Greta Thunberg, di passaggio prima della sua visita al Papa, l’unico “politico” con il quale si sarà capita. Ma dopo pochi mesi non esita a scagliarsi contro la tassazione di plastica e junk food. Se non fosse da preoccuparsi seriamente per questo sommarsi di strabismo istituzionale e sordità ambientale della quale stanno dando prova i nostri governanti, ci sarebbe da ridere. Nel senso di “una risata vi seppellirà”, come si sarebbe detto cinquant’anni fa, quando eravamo noi i giovani del cambiamento…

Purtroppo invece la cosa è seria.

Perché se non capiamo che solo rendendo onerose la aggressioni all’ambiente abbiamo qualche possibilità di salvarlo finiremo presto, e male.

L’ecofiscalità non fa pagare più tasse ma si pone al servizio dell’ambiente, per cui chi lo danneggia paga. Una progressività che cresce non più (solo) in funzione del reddito di un soggetto, ma di quanto i suoi comportamenti impattano sull’ambiente. L’Italia è il “bel paese” dai grandi contrasti, dalla potenzialità pari solo alla capacità di farci del male.

Da noi convivono bellezza e ingordigia, cultura e ignoranza, scempi territoriali e perle storiche, architettoniche e ambientali senza pari. Eccellenze economiche, amministrative e di servizio e produzioni antiche e inquinanti, politici insipienti e alle volte corrotti; sempre però attenti al breve periodo del loro mandato, crescentemente privi di capacità di visione. Ne è la prova il “misero” dibattito di questi giorni. 

Se uno leggesse queste note tra qualche anno, o anche ora in un altro paese europeo, stenterebbe a crederci, ma di questo si discute oggi in Italia. Pareva fossimo tutti indignati per la pervasività della plastica per mari, e per terra, preoccupati anche per la nostra salute. Trasmissioni radio e TV dedicate, grandi spazi giornalistici, attenzione sui social. Mi era parso avessimo salutato con favore il fatto che l’Europa stava per proibire (entro il 2021) le plastiche monouso. 

Il (nuovo, ma già traballante) governo si accinge a varare un provvedimento coerente con questo sentire ambientale.

La tassazione sulle plastiche (evidentemente mirante a scoraggiarne gli usi inessenziali e a favorire le possibili alternative – in termini di beni e imballaggi coinvolti) una volta tanto non è mirata soltanto a far cassa ma a utilizzare la leva fiscale per colpire non i redditi ma l’aggressione all’ambiente.

L’opposizione politica scatena la bagarre “contro le tasse” e i nuovi governanti la rincorrono; sembra quasi vogliano chiedere scusa per avere messo in discussione un piccolissimo pezzo di un’economia in cui è il mercato che decide cosa, dove e come si produce. E l’ambiente non trova spazio, perché i costi ambientali non vengono considerati.

Tra breve ci sono importanti elezioni regionali in Emilia Romagna.  Le forze che sono al governo nazionale hanno visto sempre più erosi i loro consensi dalle ultime elezioni regionali. Ritengono che non sia possibile perdere anche l’Emilia Romagna, terra di loro tradizionale insediamento politico e culturale. Preoccupazione comprensibile e legittima. Ma come reagiscono?

Avevano due strade. 

La prima è dire che in Emilia Romagna si concentra una parte rilevante della produzione nazionale di plastica (soprattutto per imballaggi), che sarebbe colpita dalla tassazione proposta. Di conseguenza non è il caso in questo momento di toccare questo gruppo di portatori di interesse.

La seconda è privilegiare un altro gruppo di interesse, quello dei consumatori consapevoli e delle persone attente alle conseguenze ambientali della produzione. Senza dimenticare che l’Emilia Romagna è leader anche nella produzione della plastiche biodegradabili. 

La scelta della prima strada vuol dire che la politica non solo ha uno sguardo tutto puntato sul breve periodo, ma che non sa dare agli elettori la dignità che meritano. Una narrazione basata sulle paure fa vincere chi le paure alimenta. Si tratti di criminalizzare i migranti anziché inserirli assieme ai nativi in un processo di “riconversione ecologica”, produttiva e territoriale. Si tratti della proposta di difendere un vecchio modello di produzione industriale distruttivo dell’ambiente anziché favorire nuove prospettive di economia “verde”, basata su un flusso circolare e un prelievo limitato di energia a materia (risorse finite, da usare entro i limiti della loro riproducibilità).

Si resta schiavi di una narrazione vecchia e legata agli strati sociali e produttivi legati al passato. L’idea di dare fiducia ai giovani che difendono l’ambiente per costruirsi un futuro che oggi sembra loro negato non sfiora la nostra classe politica, né di maggioranza né di opposizione.

  
L’ecofiscalità come leva economica del cambiamento ambientale

È necessario cambiare narrazione, mettere in discussione con alternative praticabili i paradigmi dello sviluppo.

In termini fiscali un nuovo modello che voglia basarsi all’economia circolare mira a far pesare il carico su chi offende l’ambiente, sgravando di conseguenza i comportamenti sostenibili.  

Vorrei dimostrare che dell’ecofiscalità deve aver paura solo chi ha comportamenti insostenibili. Non si paga di più, si paga in funzione del carico ambientale prodotto dai propri comportamenti, sia individuali sia collettivi, sia produttivi sia di consumo. Sono solo alcune esemplificazioni, che possono essere riprese e approfondite. Ma bastano a far capire che l’ecofiscalità può essere lo strumento economico capace di far passare la difesa dell’ambiente dalle parole ai fatti. Non si tratta di averne paura, ma di sostenerlo con più decisione e rivolgersi alla società (ai giovani, e non solo) e non alla consorteria politica avversa.

   
Ecofiscalità e prevenzione dei rifiuti: la tariffa

Ecco una panoramica delle misure ecofiscali in grado di contenere la produzione di rifiuti.

Parto dal ruolo “intrinsecamente” riduttore dei rifiuti dell’applicazione puntuale della tariffa all’uso delle riduzioni tariffarie per ridurre i rifiuti.

La tariffa rifiuti (TARI) è ancor oggi prevalentemente un tributo, funzionale alla raccolta delle risorse necessarie al pagamento dei servizio di gestione rifiuti ed igiene urbana. Viceversa può essere la leva fiscale che pesa sulle utenze non in modo indifferenziato, ma direttamente legato alla loro produzione di rifiuti e ai servizi dei quali usufruiscono. In questo modo le spinge verso comportamenti in grado di ridurre prima la produzione di rifiuti e comunque avviarli poi al riciclaggio.

Lo dimostrano le applicazioni puntuali della tariffa.  

In questo caso il servizio di raccolta è in grado di misurare i rifiuti prodotti dalla singola utenza. I software applicativi attribuiscono a ognuna di esse una quota variabile proporzionata non alle superfici occupate ma a rifiuti prodotti e servizi utilizzati.

Non a caso è nata nel nostro paese un’associazione professionale – PAYT Italia – che mette insieme tutti gli attori (Comuni e loro consorzi, Aziende di gestione ambientale, produttori di sistemi di misurazione, consulenti ambientali) della filiera della tariffa puntuale. 

L’associazione mira a creare le condizioni per la diffusione delle tariffa puntuale nel nostro paese e produce studi e contributi per favorirla. Tra questi, uno studio che dimostra come la sua applicazione a regime porti a contenere i costi del sistema più di quanto succeda con la tariffa a superficie e ad ottenere risultati ambientali nettamente migliori, in termini di contenimento della produzione di rifiuti (e in particolare del rifiuto residuo) e aumento delle raccolte differenziate.

In parole povere: non si paga di meno (o di più) rispetto alla tariffa tributo – tutt’ora prevalente nel nostro paese –; si paga in relazione all’impatto ambientale di cui si è portatori. E meglio ci si comporta, più si contribuisce a far calare i costi complessivi del sistema.


Ecofiscalità e spreco alimentare

Lo spreco di cibo è forse il simbolo più potente della diseguaglianza della nostra organizzazione sociale.

Siamo una società nella quale le patologie da super e cattiva nutrizione convivono con quelle da carenze alimentari. Per interrompere la corsa sfrenata all’acquistare più del necessario, a consumare solo una parte del cibo a nostra disposizione e a “buttare” il resto è stata varata la legge “anti spreco”. Al suo interno vi sono provvedimenti “ecofiscali”.

L’art. 17 consente ai Comuni di applicare nei confronti dei soggetti economici donatori (che distribuiscono beni alimentari, e che a titolo gratuito cedono, direttamente o indirettamente, tali beni agli indigenti e alle persone in maggiori condizioni di bisogno ovvero per alimentazione animale) un coefficiente di riduzione della tariffa proporzionale alla quantità, debitamente certificata, dei beni e dei prodotti ritirati dalla vendita e oggetto di donazione.

Prendendo spunto da questa impostazione la Regione Lombardia ha prodotto uno studio (dedicato ad una valutazione costi benefici dei processi di devoluzione) nel quale è contenuta una ipotesi ancor più radicale di redistribuzione eco fiscale. 

In sostanza s’illustra come sia possibile utilizzare la tariffa per sostenere assieme la prevenzione dei rifiuti e l’orientamento dei comportamenti. A partire dai risparmi sui conferimenti agli impianti di smaltimento delle derrate alimentari non consegnate al sistema rifiuti ma devolute si costruisce un fondo per la devoluzione.

Questo per due terzi contribuisce ad abbassare i costi generali della gestione dei rifiuti (beneficio diviso tra tutte le sue utenze). Per un terzo viene suddiviso in due quote. Quella più consistente va a ridurre la tariffa per i donatori, quella più piccola sostiene le spese delle strutture volontarie che provvedono a raccogliere le eccedenze ed avviare all’alimentazione sociale.


La natura di orientamento dell’ecofiscalità

È possibile prendersela con la tassazione del cosiddetto junk food, il cibo spazzatura, e non accorgersi che è quello che sta rovinando la salute nostra e soprattutto dei giovani.

Come si possono ignorare i consigli dei nutrizionisti e le pratiche normative messe in atto di tanti altri paesi? È possibile posporre la difesa delle salute di tutti ad una polemica politica tra le parti? Perché è quello che sta succedendo… Eppure le alternative ci sono.

Al posto delle bottiglie di plastica di acqua minerale non solo ci sono quelle di vetro, ma c’è l’uso dell’acqua di rubinetto; al posto delle merendine “velenose” c’è la possibilità di portarsi da casa un frutto o un panino, e via dicendo. Si tratta di capire che ogni alternativa ad un mondo che artificializza anche il nostro rapporto con il bere e il mangiare passa per una scelta di coscienza e cultura.

È fondamentale acquisire una consapevolezza alimentare e sapere che l’industria alimentare ci rende tutti dipendenti da zucchero o sale, rendendo artificialmente dolci e salati i cibi prodotti industrialmente e distribuiti dalla grande e spesso anche dalla piccola distribuzione. Ma è anche necessario far emergere i costi reali di cibi e bevande nocivi; anche tassandoli.

Una tassa altro non farebbe che internalizzare i costi che essi comportano in termini di salute e conseguenti costi sanitari.

Dovremmo essere messi nelle condizioni di scegliere, a costi per il consumatore paragonabili, tra prodotti “puliti” – biologici, naturali, a chilometro zero – e nocivi per l’ambiente e per la salute.

Come scegliereste voi tra due prodotti a costo grosso modo paragonabile, se foste messi in condizioni di sapere questo: nel primo caso paga il maggior lavoro che una produzione di qualità ha alle spalle e nel secondo i costi di disinquinamento e cura medica legati ai danni che quei prodotti possono provocarvi?

Io non ho avuto dubbi e da anni aderisco ad un Gruppo di Azione Solidale (GAS): so da chi compro, cosa compro, e come viene prodotto. Lo faccio in filiera corta, vale a dire con un rapporto diretto di conoscenza e confidenza (fidarsi insieme) con chi produce (alimentare, e non solo). Ne sono pienamente soddisfatto. E penso che se una tassa ambientale contribuisse a riequilibrare in questo senso il rapporto tra produzione e consumo, questo sarebbe un bene per l’ambiente e per la società.

Da subito tutti mangeremmo forse meno, sicuramente meglio. Nel medio periodo senza spendere di più e favorendo modalità di produzione che anziché danneggiare salvaguardano ambiente e biodiversità, con benefici effetti sia sulla salute anche sulla mitigazione del cambiamento climatico. È questo il motivo per cui i GAS stanno sviluppandosi a ritmi che non conoscono crisi.

Ecofiscalità. Una parola di cui non aver paura ultima modifica: 2019-11-05T17:28:27+01:00 da MARIO SANTI
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