A Bologna il Pd alla ricerca dei “suoi” anni Venti

Dal 15 al 17 novembre, “Tutta un’altra storia”, la convention progettuale organizzata da Gianni Cuperlo.
MICHELE MEZZA
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Richiamare la fornace filosofica e politica degli anni Venti, benché fortemente legati al presente, con il sottotitolo “i nostri anni Venti”, per un partito di sinistra che si trova a ballare sull’orlo del vulcano di una sconfitta epocale non è certo cosa da fare a cuor leggero. Troppo forte è nell’immaginario culturale quella furiosa e tragica stagione che Hannah Arendt ricostruì nel suo impareggiabile saggio Le origini del totalitarismo del 1951.

Tutta un’altra storia” è invece il titolo complessivo, con innegabili mire rassicuranti, della convention progettuale che il Pd riunirà a Bologna nel fine settimana. Ma Gianni Cuperlo, presidente della Fondazione di ricerca politica del partito, che ha coordinato il programma, ha voluto affrontare direttamente la metafora più rischiosa: siamo, come in quegli anni Venti del secolo scorso, alla vigilia di uno scompaginamento delle stesse categorie culturali e sociali dell’idea di sinistra in Europa, o questa volta la battaglia delle idee e delle emozioni che perdemmo allora possiamo vincerla? 

Il tema campeggia nella testa dei promotori come di tutti gli invitati all’articolatissima discussione che si organizzerà, come ormai è format consueto, mutuato dai workshop di imprese innovative, in forum specifici che approfondiranno temi quali la rete, le città, la pace, l’ecologia, la famiglia, il lavoro, la scuola. Lo sforzo è quello di ridare al partito, più in generale alla sinistra, un’attualità di pensiero, verrebbe da dire, presi dalla metafora degli anni Venti, un’autenticità di ispirazione se non si rischiasse di rimanere schiacciati sotto l’ombra del pensiero di Heidegger che proprio in quei fatidici anni Venti del Novecento forgiò la sua sofisticata e ambigua macchina ideologica che trasferì all’ombra del nazismo le ambizioni di una borghesia frustrata e intimorita dalla minaccia bolscevica. Fu quello, come li definisce nel suo illuminante libro Wolfram Einlenberger, Il tempo degli stregoni. In quegli anni si affilarono gli utensili logici e filosofici che dovevano poi armare l’azione dei fascismi europei. 

L’uomo è l’evento che intende essere, incalzava Heidegger negli annuali incontri filosofici europei che, ironia della sorte, si tenevano proprio a Davos, nelle stesse stanze in cui oggi banchieri e ministri discettano di mercato e competizione finanziaria. Debole la resistenza del fronte progressista. Benjamin, isolato e reietto dagli ottusi custodi dell’ortodossia sovietica, provava a resistere, rifugiandosi negli studi sul linguaggio per salvare una capacità di analisi sui meccanismi di controllo e persuasione sociale.

Oggi sarà tutta un’altra storia? Le premesse non sono certo incoraggianti. Culturalmente la sinistra sembra disorientata e ostile al mondo contemporaneo, e anche quando mostra di andare incontro alle trasformazioni lo fa indifesa e disarmata.

Pragmaticamente Brad Parscale, il nerboruto responsabile della campagna elettorale di Trump, sintetizza brutalmente questa difficoltà, affermando che “nel nuovo mondo digitale solo i conservatori hanno capito come usare le rete per produrre consenso”. Una constatazione che non è facile contrastare. A sinistra l’89 è il muro di Berlino, a destra è la pubblicazione del codice del web che ha aperto la strada alle nuove relazioni individuali on line.

Brad Parscale, a sinistra, con Eric Trump, reduci da un cospicuo fundraising in California un anno fa

Da qui credo si debba partire per reggere, in questi anni Venti, lo scontro politico con il fronte reazionario. Nel mio contributo che sono stato invitato a dare nel forum sulle città, proporrò un ragionamento sull’idea di fare partito al tempo della rete. Lavorando più che sull’ormai consunta suggestione del partito a rete, sulla prospettiva di un partito momentaneo delle reti.

Il silenzio generale che ormai caratterizza in tutto il mondo la sinistra è indotto dal disorientamento di trovarsi in un mondo senza conflitti. Finché lo scenario tecnologico rimane contrassegnato da una visione deterministica e edonistica di un’innovazione neutra e comunque positiva, dove bisogna solo decidere di come adeguarsi, perché il tutto scorre implacabilmente, si ritorna agli anni dei totalitarismi. La Arendt spiegava in quel testo che la destra vinse perché riuscì a catturare una base popolare e di massa in virtù dell’ambizione dei ceti popolari lasciati ai margini della società di “entrare nella storia, anche a costo della propria distruzione”.

La rete oggi è questo, una suggestione di libertà individuale, che, come spiega nel suo tomo Il capitalismo della sorveglianza (Luiss editore) Shoshana Zuboff, “ci esilia nelle nostre esperienze”. Oggi si tratta non certo di recintare o smorzare la spinta innovativa, anzi di accelerarla e stressarla proprio per rompere gli argini proprietari e privatistici che sono stati eretti dall’intrusione nel mondo pulviscolare di Internet dai monopoli del calcolo. Il buco nero è l’assenza di un’adeguata idea di pubblico, di dimensione pubblica e di interessi collettivi. Come sintetizza Richard Sennet nel suo testo Costruire e abitare (Feltrinelli), “la tecnologia sostituisce la sociologia”.

Esattamente come negli anni Venti di un secolo fa, come descriveva nel saggio che abbiamo richiamato Hannah Arendt, “il lieto fine arrivò perché le leggi economiche non ostacolavano più l’avidità delle classi proprietarie”, così oggi ci troviamo in quella che il chairman di Google Eric Schmidt definisce, parlando del mondo digitale, “lo spazio senza governo più grande del mondo”.

O si riaccredita un ruolo di quello che Mariana Mazzucato chiama “Lo stato impresario che pensa e concepisce strategie e obbiettivi comuni”, oppure è la politica come tale che non trova ragioni di essere.

In questa logica le città sono i principali soggetti negoziali per ricontrattare un nuovo statuto sociale con i centri dell’automatizzazione. Le aree metropolitane sono infatti i luoghi e gli organismi che gestiscono la transizione dei servizi e dei comportamenti sulle piattaforme e devono poter determinare codici di cittadinanza.

Il 5G ne è uno degli esempi, con il suo impatto sulle forme urbane, dalla mobilità ai servizi al consumo. Ma pensiamo, ad esempio, alla sanità, o all’amministrazione della giustizia, o alle intermediazioni finanziarie e fiscali. Tutte funzioni che insieme alla comunicazione sono delegate a sistemi algoritmici: chi decide valori, criteri, linguaggi e aggiornamenti di questi sistemi? Una città è il soggetto negoziale di questa ricomposizione pubblica dei nuovi sistemi di cittadinanza, attraverso un piano regolatore delle connettività e delle intelligenze.

Una città è anche uno spazio e una comunità che deve darsi continuamente obbiettivi e criteri per civilizzare i sistemi tecnologici. E qui incontra una nuova idea di partito, che non organizza più le identità o gli interessi strategici, ma la partecipazione a risolvere singoli problemi, a perseguire specifici obbiettivi, scontando che su ogni tema si possa organizzare ceti, culture e comunità diverse, non necessariamente solidali fra loro. L’idea è quella di un partito a geometria variabile, che sulla base di una carta dei valori fondamentali – democrazia, rispetto, eguaglianza, inclusione, tolleranza, antifascismo – pianifichi un manifesto annuale degli obbiettivi su cui organizzi community direttamente deliberanti, in rete. Un partito certo complicato e faticoso, dove i primati si costruiscono e si sostituiscono velocemente. Ma forse l’unico per stare in questo tempo e rovesciare l’arrogante pretesa di Brad Parscale.

A Bologna il Pd alla ricerca dei “suoi” anni Venti ultima modifica: 2019-11-11T14:02:29+01:00 da MICHELE MEZZA
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